Corriere 19.1.19
Emanuele Severino, l’infinita ricerca
Alla vigilia dei novant’anni il filosofo ripercorre per intero il suo percorso e si interroga sulla verità
Maestri
In «Testimoniando il destino» (Adelphi) il decano dei pensatori
italiani rilegge i testi che lo hanno imposto a partire dal 1958
di Pierluigi Panza
La bussola che orienta
L’indicazione resta tenere fisso un «fondamento» assoluto anche nell’età del massimo relativismo e delle fake news
La domanda all’origine
È possibile una conoscenza stabile del vero in un tempo in cui scienza e filosofia hanno detto no al sogno di un tale sapere?
La
riflessione metafisica italiana è ancora sostenuta, nella sua più alta
espressione, da Emanuele Severino, giunto con lucidità e passione ai
novant’anni (il prossimo 26 febbraio). Se si sfogliano, infatti, i
programmi dei dipartimenti di filosofia di oggi si noterà come
l’orientamento privilegi logica, epistemologia e storia, nonché ricerche
partecipative, relegando ai margini le riflessioni individuali di
teoretica e di critica della cultura.
Giunto alla stagione del
resoconto, Severino si è concesso la libertà di scrivere un libro sui
suoi libri, a partire da La struttura originaria del 1958, che lo impose
all’attenzione. Il testo (Testimoniando il destino, Adelphi) non ha
nulla di biografico, è tutto bibliografico: quindici capitoli e
diciannove postille per spaziare da Destino della necessità a Tecnica e
architettura, passando per Dike, Essenza del nichilismo, La Gloria, La
morte e la terra... Ancora una volta Severino si interroga su come sia
possibile «la stabile conoscenza della verità» in un tempo in cui non
solo la scienza, ma la filosofia stessa ha voltato le spalle al «sogno»
di un siffatto sapere. La risposta di Severino parte dal riconoscere che
«l’errore-errare» più radicale in cui l’uomo si trova è la fede
eraclitea «nella quale si crede che le cose diventano altro da ciò che
esse sono... affermando che l’evidenza suprema è che le cose escono dal
nulla (dal loro non essere) e vi ritornano». Tutta l’opera neoparmenidea
di Severino viene ritematizzata in queste pagine per smascherare «la
Follia di questa fede» e per testimoniare la stabile innegabilità del
destino della verità. Destino che indica uno «stare che non cede», che
«resiste» e si pone come invarianza della necessità. Lo «stare
necessario del destino» indica lo stare eterno dell’essere,
l’impossibilità che l’essere non sia. Severino rivela il fondamento di
questa posizione nell’autonegatività della sua negazione, la quale,
nell’implicare la verità di ciò che tenta di negare, nega se stessa
nell’atto di imporsi.
Questa tesi, ancorata all’intero percorso di
Severino qui heideggerianamente chiamato «pianura della verità che va
coltivata», viene approfondita nel suo rapporto con scienza, linguaggio e
storia. La stabile «pianura» è il contraltare della fede in cui cresce
la storia dell’Occidente, ovvero quella della negazione dell’immutabile.
Per superare ermeneutica (che è «volontà separante») e nichilismo
(l’impossibile «essere per il nulla») è necessario che la totalità
dell’interpretare rinvii «a un interpretato che non sia a sua volta un
interpretare», ovvero non a una semiosi infinita. Ciò è la verità, ma
non come intesa dalla storia dell’Occidente — la storia del nichilismo
—, bensì nella dimensione dell’assolutamente innegabile. Il tratto
centrale di questa verità innegabile è l’impossibilità che un qualsiasi
ente, in quanto essente, non sia. Tale impossibilità è l’eternità
dell’essente. Dato che l’essere è, e non può mai diventare un nulla,
«ogni essente è eterno».
Il linguaggio nasce all’interno di
separazione e dominio degli essenti e, dunque, non riesce a
oltrepassarlo per isolare il fondo del destino. Dobbiamo immaginare gli
essenti come cartoline appese a un filo di cui lo scienziato spiega le
dinamiche, ma non la macchina da presa o il movimento dello sguardo che
le coglie. Per capire lo sguardo sulle cartoline bisogna introdurre il
concetto di coscienza trascendentale, ovvero il luogo dove
sopraggiungono gli eterni. «Il cosiddetto divenire del mondo non può
essere il cominciare a essere e il cessare di essere, ma è il comparire e
lo scomparire degli eterni in quella coscienza trascendentale». Ciò che
nella «terra isolata» è interpretato come un diventare altro è invece
un incominciare e cessare di apparire da parte degli eterni.
Avvicinandosi a Hegel, Severino sostiene che l’apparire del finito
«copre» la concretezza dell’infinito, quasi sommatoria di «Per sé» che
«coprono» l’In sé. Ma l’Infinito non è la totalità della storia; si
esprimere piuttosto come quell’Infinito sentito da Leopardi che rende
esperibile la vanità di tutti gli enti se colti nella negazione di una
dimensione immutabile. Inoltre, i possibili che appaiono potevano anche
non apparire; e ciò resta una «possibilità della possibilità» non
esperita dalla scienza.
Anche l’io empirico è un apparire. «Che il
mondo appaia a me significa che io penso. Il pensare è innanzitutto
l’apparire del mondo. Ma questo apparire è l’apparire della non verità
della terra isolata dal destino»: ma in quanto mio (o nostro), questi
apparire non costituiscono un atto di coscienza (come in Husserl), ma un
separarsi dalla verità. «La filosofia della terra isolata è pertanto la
testimonianza della relazione che la specializzazione scientifica
istituisce col Tutto — ed è relazione tra ambiti essenzialmente isolati.
Originariamente... è il destino a esser l’apparire degli essenti nel
loro esser parti del Tutto».
Sul punto dissentono molti
epistemologi; la differenza, come scrive Severino è «abissale». E,
d’altra parte, già da Popper e Feyerabend la scienza riconosce il
carattere probabilistico delle proprie congetture e confutazioni, il
loro non essere verità assolute. L’indicazione di Severino resta quella
di tenere fisso un «fondamento» assoluto anche nell’età del massimo
relativismo, del pragmatismo tecnocratico come unica cosa che conti e
delle fake news. La tecno-scienza dispiega la sua potenza, la
comunicazione la sua persuasione mentre la filosofia la verità.
Severino,
che nel 2011 ha scritto anche un’autobiografia intitolata Il mio
ricordo degli eterni (Rizzoli), sarà festeggiato a Brescia: il 2 marzo è
atteso al Centro Teatrale bresciano per una rilettura dell’Orestea da
lui tradotta nel 1985 e a metà giugno al secondo congresso organizzato
in suo onore dall’Associazione di studi Emanuele Severino (Heidegger nel
pensiero di Severino), alla quale aderiscono 140 personalità della
cultura italiana.