sabato 19 gennaio 2019

il manifesto 19.1.19
Lelio Basso, un marxista eretico
Ritratti. A 40 anni dalla morte, un convegno chiude l'anno dedicato a questo intellettuale e politico anomalo della sinistra italiana, che istituì un laboratorio culturale come la Fondazione Basso
di Franco Ippolito


Ha ragione Luciana Castellina nel sottolineare che gli anniversari suggeriscono intrecci significativi. Il 15 gennaio, nella ricorrenza dell’assassinio di Rosa Luxemburg si è svolto uno stimolante convegno per ricordare Lelio Basso, che fece scoprire alla sinistra italiana la straordinaria fecondità del pensiero della rivoluzionaria polacca, critica di Bernstein e di Lenin.
Il convegno ha preso spunto dal pensiero di Basso per tematizzarne l’attualità per la riflessione su grandi questioni di oggi. Temi come la crisi della democrazia, le crescenti diseguaglianze prodotte dal liberismo, il ruolo della partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, la protervia del poteri economici e finanziari rispetto alle istanze democratiche, l’ecclissi dei diritti umani nell’epoca dei populismi e dei nuovi sovranismi, sono emersi dalla storia di Basso per farsi elementi vivi di analisi degli sconvolgimenti che percorrono il mondo.
Basso fu un politico anomalo nella sinistra italiana, un marxista eretico, critico verso il Pci ma senza venature di anticomunismo. Intellettuale inquieto e colto, dirigente politico alla ricerca continua di nuovi strumenti per la liberazione della classe lavoratrice e dei popoli dal dominio del capitalismo, appassionato di storia del movimento operaio europeo, alla cui ricostruzione dedicò energie e risorse.
L’ATTITUDINE ALLO STUDIO e alla ricerca fu sua caratteristica specifica. Fu politico militante, ma anche e soprattutto marxista impegnato nell’approfondimento teorico dei processi di sviluppo. «La sua attenzione fu rivolta in gran parte alla riflessione sui fondamenti del marxismo, di un marxismo liberato dalle incrostazioni della lettura marxista-leninista e non vincolato a nessuna scolastica, ma aperto a tutti gli arricchimenti che potevano provenire da un’applicazione feconda dei principi e del metodo di Marx nell’analisi della odierna società capitalistica» (Enzo Collotti).
Per lui la rivoluzione non era la presa del potere, ma un processo di trasformazione che inizia nella fase della transizione. Si spiega così l’importanza che egli assegnava al diritto e all’organizzazione giuridica dello Stato, che riteneva utilizzabili ai fini della trasformazione della società e, contestualmente, alla valorizzazione del diritto come strumento di trasformazione dell’esistente. Per Basso, a differenza della vulgata marxista corrente, il diritto non è sovrastruttura e non va inteso come espressione statica e chiusa di rapporti fissi e immutabili: la lotta di classe è lotta politica, modifica ogni giorno questi rapporti e incide sull’ordinamento giuridico.
ALL’IMPEGNO POLITICO quotidiano accompagnava la rilettura dei classici per avere sollecitazioni e spunti per fondare nuove esperienze e ipotesi interpretative. E ai ripetuti rilievi sull’assenza in Marx di una teoria dello Stato, Basso rispondeva a Norberto Bobbio che a Marx non interessava dare ricette per l’avvenire, ma descrivere una teoria di un processo e «questa ce l’ha data come poteva darcela uno che era uno studioso e non un indovino».
L’esperienza politica di Basso fu segnata da straordinario successo in sede di Assemblea costituente, di cui fu uno dei grandi protagonisti. Reca la sua impronta l’art. 49 della Costituzione sulla centralità dei cittadini associati in partiti per concorrere con metodo democratico alla determinazione della politica nazionale.
MA IL SUO CAPOLAVORO istituzionale (la qualificazione è di Stefano Rodotà) fu la formulazione del secondo comma dell’art. 3, di cui andava giustamente fiero, dal momento che il principio di uguaglianza sostanziale, lì formulato, costituisce l’apporto più originale dato dal nostro Paese al costituzionalismo mondiale.
Dall’esperienza partitica Basso derivò anche delusioni, tanto da maturare la convinzione che riflessione e ricerca culturale sui temi di fondo della società e della democrazia non si potevano svolgere nella quotidianità politica. L’impegno politico per Basso è inseparabile dall’impegno culturale. Chi «vuol cambiare questa società non può limitarsi a fare politica alla Camera, nei comitati centrali o nei comizi», deve cercare di cambiare mentalità, di scoprire nuovi valori.
DI QUI LA SUA DECISIONE di dare vita a un centro di attività culturale dove poter svolgere un lavoro coerente di studio e di preparazione. Riflessione, ricerca, confronto fuori della quotidianità politica, per elaborare una buona cultura che è il fondamento della buona politica. È questo il senso della Fondazione Basso da lui istituita, un laboratorio culturale, in cui la tensione verso l’utopia concreta è saldamente ancorata all’analisi della realtà, un luogo di riflessione e di elaborazione, aperto a tutte le componenti della sinistra.
Fedele al suo impegno di concretezza, Basso elaborò anche una compiuta teorizzazione dei diritti dei popoli senza i quali i diritti delle singole persone si riducono a proclamazioni astratte e li fece approvare, come Dichiarazione universale dei diritti dei popoli, dalla Conferenza di Algeri del 4 luglio 1976. Per dar voce a quei diritti, concepì il Tribunale Permanente dei Popoli, che da quasi 40 anni continua a dar voce alle tante vittime dei poteri pubblici e privati, contro l’inerzia e l’indifferenza del sistema internazionale.