Corriere 17.1.19
Il dopo Camusso
Il congresso Cgil e la fragilità del sindacato
di Dario Di Vico
Tra
una settimana sarà eletto a Bari il nuovo segretario della Cgil. Ci si
domanda chi prevarrà tra Vincenzo Colla e Maurizio Landini. Ma in questo
appuntamento in qualche modo si misura anche quanto si sia allargato il
fossato che divide il sindacato dalla società.
Si avvicina il
congresso della Cgil e in qualche maniera si misura quanto si sia
allargato il fossato che divide il sindacato dalla società. Mai come
questa volta, infatti, l’assise del maggiore sindacato italiano e di una
delle più larghe organizzazioni di rappresentanza in Europa ha generato
così scarso interesse. Ci si domanda chi prevarrà tra Vincenzo Colla e
Maurizio Landini e quindi chi succederà a Susanna Camusso, ma la
curiosità (politica) si ferma tutta lì. E invece se volessimo anche solo
limitarci al delicato rapporto tra populismo e rappresentanza,
l’evoluzione degli orientamenti della Cgil costituisce un test che
interessa tutti, è una tessera — e non delle minori — di quel complicato
puzzle che rimanda allo stato di salute della democrazia italiana. I
regolamenti interni alla Cgil hanno probabilmente reso ancor più
difficile la trasmissione di valore all’esterno perché resta difficile
da spiegare come i due candidati si contrappongano con tutta evidenza
sui programmi ma abbiano sottoscritto lo stesso documento congressuale
(votato peraltro con percentuali bulgare e quindi ipocrite). Resta
comunque sul tappeto la domanda su cosa rappresenti la Cgil (e per
estensione tutto il sindacato) nella società italiana del 2019.
Nel
recente passato ci sono stati momenti storici, forse altrettanto
drammatici rispetto all’attuale, in cui il sindacato ha saputo parlare
con chiarezza alla società, ha dato un contributo valido al di là della
mera platea dei suoi iscritti. Prendiamo l’epoca di Luciano Lama e il
compito che la Cgil accettò di caricare su di sé spendendo la
credibilità accumulata nei luoghi di lavoro per stabilizzare il Paese
alle prese con la difficile uscita dagli anni 70, per evitare la cesura
tra garantiti e non garantiti e per individuare con la svolta dell’Eur
la necessità di una politica comune contro l’inflazione. Ma anche se
andiamo ai tempi di Bruno Trentin il sindacato fece un’operazione capace
di parlare oltre i propri confini. Sostenne che l’emancipazione del
lavoro dovesse partire dai luoghi della produzione e chiamò l’intera
società a misurarsi con «le trasformazioni del capitalismo», a studiare
le multinazionali. Legò prestazione dell’operaio, competenze e sviluppo.
Fece i conti con la modernità del tempo senza demonizzarla ma cercando
di costruire una nuova cultura del lavoro.
Non è questa certo la
sede per discutere di storiografia sindacale, ma lo scarso interesse che
si riscontra nei confronti del congresso Cgil rimanda a
quest’interruzione di dialogo, a questo deficit di proposta. È come se
in questi lunghi anni della Grande Crisi prima e poi dell’affermarsi del
populismo, la forza e l’intelligenza sindacale fossero rimaste
congelate, come se la Cgil avesse scelto l’identità — per dirla con il
politologo americano Mark Lilla — contrapponendola all’efficacia. Tanta
primogenitura, poche lenticchie.