Corriere 13.1.19
La scelta della consulta sui diritti del parlamento
Democrazia La decisione dei giudici rende la dialettica tra maggioranza e opposizione più visibile
Conflitto L’equilibrio questa volta era stato rotto, ma non in una maniera manifesta e grave
di Sabino Cassese
Si
è andati ben oltre la prassi in vigore da più di un quindicennio,
perché in precedenza il Parlamento votava un testo esaminato dalla
commissione Bilancio, sul quale il governo poneva la questione di
fiducia. Anche il presidente della Repubblica ha parlato di «grande
compressione dell’esame parlamentare». È sorto un conflitto paragonabile
a quello che oppose Bismarck al Parlamento prussiano nel 1859-1866.
Trentasette senatori hanno sollevato conflitto di attribuzione dinanzi
alla Corte costituzionale, lamentando che il Senato (sia opposizione,
sia maggioranza) non aveva avuto neppure il tempo di esaminare il
disegno di legge. La Corte costituzionale ha deciso che il ricorso è
inammissibile perché il conflitto non era grave e manifesto, ma ha
contemporaneamente stabilito che singoli parlamentari possono rivolgersi
alla Corte per violazioni gravi e manifeste delle loro prerogative e
che in futuro «simili modalità decisionali dovranno essere abbandonate».
È
stato opportuno rivolgersi alla Corte, «giurisdizionalizzando» un
conflitto politico? La Corte avrebbe potuto dichiarare ammissibile il
ricorso e poi entrare nel merito? Essa è stata debole o coraggiosa?
Il
conflitto non era solo politico. Riguardava sia i rapporti tra governo e
Parlamento, sia quelli tra maggioranza e opposizione, sia quelli tra
singolo parlamentare e assemblea. Questi sono parte dell’equilibrio
costituzionale stabilito nella Costituzione, che attribuisce al
Parlamento e alla sua maggioranza il potere di approvare le proposte del
governo, all’opposizione il compito di controllare la maggioranza, ai
singoli parlamentari la funzione di conoscere e deliberare.
L’equilibrio, questa volta, è stato rotto — ha detto la Corte — ma non
in maniera manifesta e grave.
Se la Corte avesse dichiarato
ammissibile il ricorso (che apriva la via a più risposte, ma era anche
carente nell’individuare il vizio della procedura), si sarebbero
dischiuse due strade. Il governo avrebbe potuto subito ripresentare il
disegno di legge di Bilancio al Senato, facendolo approvare nelle forme
rituali: il vizio era infatti solo di procedura, sanabile. Oppure, si
sarebbe potuto aspettare la decisione della Corte nel merito, che
avrebbe richiesto due o tre mesi, lasciando il Bilancio 2019 «sub
judice», con le conseguenze politiche che si possono immaginare per il
Paese e per la Corte. Quest’ultima ha quindi saggiamente e arditamente
preso un’altra strada, quella di mettere insieme una decisione di
inammissibilità per l’oggi e di fondatezza per il futuro, affermando
chiaramente che il disegno di legge di Bilancio, a partire dall’anno
prossimo, deve essere approvato con le procedure indicate dall’articolo
72 della Costituzione.
La Corte, in terzo luogo, ha colto
l’occasione per porre coraggiosamente un argine alle aberrazioni di
alcune procedure parlamentari, ristabilendo l’equilibrio costituzionale
tra singolo parlamentare e assemblea, e tra maggioranza e opposizione.
L’ha fatto con una decisione che ha importanti effetti di sistema,
perché ha stabilito che il funzionamento interno delle assemblee
parlamentari (i cosiddetti «interna corporis») non sono sottratti al
controllo della Corte quando vi siano manifeste e gravi violazioni della
Costituzione (questa volta non vi erano, per diversi motivi). Lo
strumento per assicurare il controllo è l’apertura del ricorso ai
singoli parlamentari (infatti, in questo caso, sono stati privati della
possibilità di esaminare il disegno di legge non solo i senatori
dell’opposizione, ma anche quelli della maggioranza).
Finora, la
Corte costituzionale aveva detto che le Camere debbono trovare i
correttivi nel loro interno. D’ora in poi, mille parlamentari possono
rivolgersi alla Corte se vi sono gravi e manifeste violazioni delle loro
prerogative. Viene così ristabilito l’equilibrio dei poteri, sia
impedendo al governo di sfruttare la questione di fiducia con i
cosiddetti maxiemendamenti che bloccano o strozzano l’esame parlamentare
(è quindi rafforzato il Parlamento), sia impedendo alla maggioranza
parlamentare e alle stesse opposizioni di ridurre l’area delle
prerogative dei singoli parlamentari, e quindi ridando voce ai «peones» e
limitando la «tirannide della maggioranza» lamentata fin dai tempi di
Madison e di Tocqueville. Non ci sono più aree immuni dal sindacato
costituzionale.
Uno dei maggiori costituzionalisti tedeschi, nel
paragonare la Corte costituzionale italiana a quella tedesca, in un
saggio recente, non ancora pubblicato, ha fatto l’elogio dell’approccio
minimalista della nostra Corte citando la seconda lettera ai Corinzi di
Paolo di Tarso, dove è scritto che «la forza si manifesta pienamente
nella debolezza». Con la decisione raggiunta il 10 gennaio scorso, la
Corte fa un grande passo avanti, dando l’impressione di restare ferma.
Riporta quello che appariva come un conflitto politico nell’alveo del
diritto. Amplia il proprio sindacato all’attività interna del
Parlamento, quando vi siano violazioni gravi e manifeste della
Costituzione. Mette le basi per il riconoscimento di uno statuto
dell’opposizione. Rende più visibile la dialettica tra maggioranza e
opposizione, e tra singolo parlamentare e assemblea. Fa fare un passo
avanti alla incerta democrazia italiana.