Corriere 13.1.19
Elzeviro Torna Furio Jesi, con inediti
La Germania e i suoi miti avvelenati
di Donatella Di Cesare
Singolare
destino, quello di Furio Jesi, intellettuale poliedrico, egittologo e
antichista, germanista e storico delle religioni, così presto
dimenticato dopo la sua morte prematura, avvenuta nel 1980, quando non
aveva ancora quarant’anni. Eppure a lui si devono libri attualissimi che
vale la pena rileggere. Ad esempio la raccolta Cultura di destra, che
contiene pagine su Giosue Carducci, Gabriele d’Annunzio, Luigi
Pirandello, Julius Evola, sull’antisemitismo e sul neofascismo, uscita
qualche anno fa, nel 2011, dalla casa editrice nottetempo, che ora
pubblica la nuova edizione (con testi inediti) di un’opera
originalissima del 1967: Germania segreta. Miti nella cultura tedesca
del ’900 (pagine 384, e 18). L’ha curata Andrea Cavalletti che ha
scritto un saggio introduttivo.
Ebreo torinese, esponente di
quella intellighenzia di sinistra che sembra oggi scomparsa o messa a
tacere, Jesi è stato quasi ossessionato dall’inquietante domanda sulla
tradizione tedesca e sulle origini del nazismo. In che modo da quella
cultura, che lui amava e ammirava, è scaturita la religione della morte
che ha alimentato il dodicennio nero? Jesi interroga scrittori,
intellettuali, filosofi.
Emblematiche sono le parti dedicate a
Thomas Mann, simbolo della borghesia tedesca e della sua parabola di
complicità, autore di quelle Considerazioni di un impolitico, che
testimoniavano già nel 1918 l’adesione al germanesimo, la polemica
patriottica contro i pacifisti, il rifiuto della democrazia occidentale.
Ma
Thomas Mann si fermò, anche se era già troppo tardi, se non altro per
denunciare quel che accadeva già nella Repubblica di Weimar e per
cercare in quella stessa cultura tedesca le «forze guaritrici». Le cose
andarono diversamente per Gottfried Benn, un «grande poeta», e per
Martin Heidegger, un «grande filosofo» che, oltre tutto, in quanto
sudditi di Hitler, conobbero le mostruosità del nazismo.
È il mito
la chiave di volta dell’ermeneutica di Jesi, amico e per molti versi
allievo del famoso filologo e storico ungherese Károly Kerényi. Il mito è
racconto spontaneo, narrazione condivisa, fino a quell’articolazione
dell’inconscio collettivo di cui parlava Gustav Jung; ma proprio per
questo può diventare anche strumento di propaganda politica, come
avviene nel fascismo europeo. Allora l’irrigidito mito del passato,
viene piegato per rivitalizzare il presente: il suo potere coesivo,
intensificato dai mezzi di comunicazione, spinge le masse alla
sottomissione, fino all’ingresso incauto nel totalitarismo. Così scrive
Jesi: «Nella cultura tedesca degli ultimi cent’anni il mito sembra
essere di volta in volta medicina e veleno, sorgente di rinnovato
umanesimo e strumento di barbarie e di delitto». Sta qui il segreto:
nella vicinanza, quasi intimità, tra le forze misteriose dell’arte e gli
orrori demonici.
Alla luce di questa ermeneutica Jesi può allora
indagare l’esoterismo nazista smascherandolo come «alterazione del
mito». Valga per tutti l’esempio della «Società Thule», a cui
appartenevano Dietrich Eckart e Alfred Rosenberg, ideologi del Terzo
Reich. Si trattava di un gruppo molto attivo in Germania già ai primi
del secolo, il cui nome era ripreso dalla mitica Thule, l’isola
scomparsa nell’estremo Nord, quella civiltà perduta e rimpianta, da cui
un giorno — così nel racconto nazista — sarebbero sorte le potenze
capaci di preconizzare l’uomo nuovo hitleriano. Di affascinanti miti
segreti e pratiche magico-rituali è pieno il nazismo — spiega Jesi, che è
stato tra i primi a indagare anche il mito del sangue.