Corriere 12.1.19
Le promesse, i paradossi
Numeri reali (e propaganda) sui migranti
di Goffredo Buccini
Il
ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ha un serio problema con i
rimpatri: pochi e assai costosi. C’è poi un’altra preoccupazione che va
ad aggravare la situazione: le espulsioni dai centri di accoglienza.
Immigrati che non partono e immigrati che escono dai centri. Un mix che
rischia di deflagrare.
S e un alieno fosse sceso tra noi nella
settimana che si va concludendo, non sarebbe stato facile spiegargli
come mai una comunità di 500 milioni di umani denominata Europa si sia
azzuffata per venti giorni prima di salvare 49 poveretti sballottati tra
i marosi a un miglio dalla costa. La verità, indigesta non solo per
l’alieno, è che all’avvicinarsi del 26 maggio, data delle prossime
elezioni nell’Unione, i numeri perdono il loro legame col reale,
diventando simboli. E lo sono più che mai nella terra maggiormente
esposta alle migrazioni, la nostra Italia. Perché su di essi ha giocato
la propria fiche politica l’uomo forte del governo gialloverde, Matteo
Salvini.
Dai numeri conviene dunque ripartire. Il più discusso è
130 mila. È noto che, secondo le proiezioni dell’Ispi, tale sarebbe da
noi l’aumento dei clandestini nei prossimi due anni per effetto della
legge sulla sicurezza voluta dal vicepremier leghista. L’Istituto per
gli studi di politica internazionale calcola 72 mila nuovi irregolari
per l’arretrato delle commissioni prefettizie, 32 mila per il mancato
rinnovo dei permessi umanitari e 27 mila mancati rimpatri di chi ha già
perso il requisito. L’effetto, partendo da un dato della fondazione Ismu
(491.000 irregolari in Italia a fine 2017) porterebbe il numero degli
«invisibili» a 620 mila. Basandosi invece sulla stima della Commissione
parlamentare per le periferie (600 mila già sul territorio) si
arriverebbe alla cifra mostruosa di 730 mila. Si dirà: alcuni vanno via.
Pochi, in realtà, perché le frontiere restano bloccate. L’Ispi può
sbagliare, certo, ma opera da 90 anni in tutto il mondo.
Il
rischio insomma c’è, a medio termine: un terribile cortocircuito (o,
come sostiene Piero Sansonetti sul Dubbio , una clamorosa eterogenesi
dei fini) di cui prima o poi gli elettori potrebbero chiedere conto.
Salvini deve muoversi su un sentiero stretto puntando a un all in tra le
Europee di maggio ed eventuali politiche anticipate, prima che la luna
di miele fotografata dai sondaggi gli si trasformi in fiele.
Al
momento alleati involontari del ministro degli Interni sono, per
paradosso, i sindaci più legati a un certo populismo di sinistra,
Leoluca Orlando e Luigi de Magistris, che prospettano una ribellione
alla legge dello Stato ricollocando così la questione su un piano tutto
ideologico sul quale Salvini non ha difficoltà a invocare — oltre che il
diritto — la volontà popolare (sei italiani su dieci sono d’accordo con
le sue misure, con buona pace di Maurizio Martina che vorrebbe
addirittura vedere scolpito in un referendum questo verdetto così
pesante per la sinistra classica). Seguendo uno schema che Francois
Furet spiegò assai bene nel suo «Passato di un’illusione» sugli
estremismi del Novecento, la sinistra più ideologizzata continua a fare
inconsapevole sponda al ministro che, in difficoltà per la manovra
economica, ha avuto il prezioso salvagente di un ritorno della questione
migratoria al centro del dibattito pubblico (il massimo regalo politico
potrebbe a questo punto essere per lui una sentenza della Consulta
avversa alla sua legge, effetto dell’annunciato ricorso di alcuni
governatori pd). Solo un bagno di realtà può spostare un’opinione
pubblica ancora assai irritata dalla mancanza di sicurezza che si
percepisce nelle nostre periferie (la sinistra dovrebbe tenere a mente,
quanto all’effettività di certe percezioni, il noto teorema di William
Thomas secondo cui «se gli uomini definiscono reali certe situazioni,
esse saranno reali nelle loro conseguenze»). Salvini ha un gigantesco
problema con i rimpatri, pochi e assai costosi, che, combinati con le
espulsioni dai centri d’accoglienza, rischiano di creare un mix sempre
più esplosivo. Al di là delle polemiche, si procede a un ritmo di circa
20 rimpatri al giorno: lui ne aveva garantiti cinque volte tanto in
campagna elettorale. Di questo passo, per rimandare indietro 600 mila
irregolari, come promesso prima del 4 marzo, ci vorrebbero 82 anni
(mancano gli accordi bilaterali, ottenerli richiede un lungo, oscuro
lavoro diplomatico che può fare solo il ministro degli Esteri Moavero,
finora nell’angolo). Molto dell’attuale dibattito di bandiera serve
insomma a distogliere l’attenzione. Anche la vicenda dei profughi di Sea
Watch e Sea Eye: 49 disperati per i quali si sono proclamati i porti
chiusi, mentre — dati del Viminale — tra il 27 e il 30 dicembre sono
sbarcati in 160 (porti aperti per costoro), 359 nel mese di dicembre
intero, 3.253 dalla crisi della Diciotti. Per alzare i toni, si sceglie
sempre lo stesso megafono.
Ancora una volta in aiuto del ministro
vengono i suoi ipotetici avversari: l’Europa, in questo caso. La
grottesca paralisi che i nostri partner hanno esibito tanto a lungo
sulla sorte di quei 49 umani dimostra sempre più l’assunto salviniano
secondo cui erano tutti buoni finché l’Italia si caricava tutti i
migranti. Nemmeno i più astuti spin doctor sovranisti potrebbero
desiderare per Salvini spot così efficaci, da qui al prossimo maggio.