Corriere 11.1.19
Memoria
Fenomenologia di Andreotti l’extra-terreno
Cruciale il suo legame con la Santa Sede. La biografia di Massimo Franco
A cent’anni dalla nascita, una ricostruzione attenta e vivace dedicata al leader democristiano (Solferino)
di Antonio Polito
Anche molti convinti avversari politici dell’ex premier tirarono un sospiro di sollievo quando venne assolto
La
vita di Giulio Andreotti, nato cent’anni fa, è intrecciata in modo
inestricabile con quella dell’Italia. Al punto che, quando è stata
portata in un’aula di tribunale per essere processata, la giustizia
degli uomini non è riuscita a sciogliere il nodo.
E il processo
del secolo (scorso), che doveva accertare se il massimo vertice politico
della Repubblica avesse per anni agito agli ordini del massimo vertice
della mafia, «si è concluso nel modo più andreottiano che si potesse
immaginare: con una verità in chiaroscuro, sfuggente, quasi
contraddittoria».
La nuova e aggiornata versione della già
classica biografia di Massimo Franco, che esce ora con il titolo C’era
una volta Andreotti (Solferino), ha il merito di farci capire
l’indissolubilità di quel nodo. Tutti sappiamo che il «divo Giulio» fu
assolto due volte, con sentenza confermata in Cassazione. Ma sappiamo
anche che i procuratori che lo portarono davanti al giudice, in primis
Gian Carlo Caselli, allora capo della Procura di Palermo, negano di
essere usciti sconfitti dal processo. In primo grado — ricordano —
l’assoluzione fu accompagnata dalla vecchia formula «per insufficienza
di prove». Mentre la sentenza d’appello ritenne che il reato di
associazione per delinquere era stato commesso fino alla primavera del
1980, quando non esisteva ancora quello di «associazione mafiosa»; e
perciò prescritto. Accettano un’autocritica solo sulla famosa vicenda
del «bacio» tra Andreotti e Riina: doveva essere l’asso nella manica
dell’accusa e invece si trasformò in un boomerang, togliendole
credibilità.
Dobbiamo dunque augurarci che la discussione sul
centenario dello statista rinunci all’inutile tentazione di riaprire i
processi. E non solo perché un’assoluzione è un’assoluzione è
un’assoluzione, per parafrasare Gertrude Stein. Ma perché il giudizio
storico si è già dimostrato incommensurabile con il giudizio penale. E a
noi oggi interessa solo il primo, l’unico che non sia ancora stato
emesso.
La confusione tra questi due piani è stata invece a lungo
la regola. Beppe Grillo, quando era uno showman, diceva che nel celebre
profilo della schiena di Andreotti si nascondesse la «scatola nera» di
tutti i misteri patrii. «A tratti — scrive Franco — si ha l’impressione
che l’Italia, o almeno un’Italia, abbia sentito la necessità di
processare Andreotti e la Dc per spiegare a se stessa quanto era
accaduto nei decenni precedenti: insomma per trovare una verità
consolatoria, più che per arrivare alla verità». E ha ragione. Ma
perfino tra gli avversari di Andreotti, tra chi pure lo considerava un
politico cinico e senza scrupoli, si avvertì un sospiro di sollievo
quando fu assolto. La prova della sua colpevolezza avrebbe infatti
trasformato cinquant’anni di storia nazionale in una storia criminale. E
questo non poteva permetterselo nessuno che l’avesse vissuta con
dignità e consapevolezza, da qualsiasi parte della barricata militasse.
C’è
un episodio raccontato dall’autore che spiega bene questo sentimento. A
un certo punto i procuratori convocarono tutti gli uomini di scorta di
Andreotti per capire se era possibile che fosse sfuggito al loro
controllo per il tempo necessario a incontrare Riina. «Circa trenta
carabinieri, tutti quelli che l’avevano protetto negli anni, furono
radunati in uno scantinato e interrogati per ore. Ricordavano quel
giorno come un incubo: erano carabinieri che si ritrovavano sospettati
di aver coperto un presunto mafioso che da anni proteggevano anche
contro la mafia». Molti italiani vissero un incubo analogo di fronte
all’enormità delle accuse: quello di aver partecipato a un gigantesco
Truman Show invece che a una vicenda politica aspra, dura, anche sporca,
ma pur sempre vera. Se Andreotti, sette volte presidente del Consiglio,
ventisette volte ministro, parlamentare dal 1946 fino alla morte nel
2013, fosse risultato un pupazzo nelle mani della mafia, anche l’Italia
lo sarebbe stata.
Piuttosto, l’autore ci dà una chiave molto più
interessante per comprendere l’indubbia ed estrema originalità del
personaggio Andreotti nel panorama della Prima Repubblica, una certa
estraneità rispetto al suo stesso partito, e quella financo proterva
indifferenza all’etica del potere e alle malefatte degli amici, che
ostentava spacciandola per sarcasmo e che gli costò ventisette tentativi
di incriminazione davanti all’Inquirente. Sostiene Franco che colui che
noi chiamavamo Belzebù obbediva in realtà nella sua azione politica a
una particolare e, per dir così, superiore ragion di Stato. «Non era uno
statista italiano, ma un grande statista del Vaticano», diceva Cossiga,
«il segretario di Stato permanente della Santa Sede, da Pio XII a
Giovanni Paolo II». E perciò si muoveva nel mondo della guerra fredda
con un’autorità e un peso superiori a quelli del Paese che
rappresentava, ma anche con una sorprendente disinvoltura: «Todo modo
para buscar la voluntad divina». «Più passa il tempo — raccontava Rino
Formica — e più mi convinco che Andreotti è un extra-terreno. Noi
socialisti l’abbiamo sempre giudicato sulla base dei fatti: questo è
bene, questo è male. Non avevamo colto la sua appartenenza a un filone
culturale e di pensiero che ha reso immortale la Chiesa, in cui ci sono
il sacrificio di Cristo, la papessa Giovanna, i Borgia, l’Inquisizione,
la diplomazia».
Se così fosse, diverrebbe essenziale sapere che
giudizio è stato emesso nell’aldilà, dopo l’assoluzione in terra. Nel
frattempo si può leggere questo libro di Massimo Franco, una biografia
di stampo anglosassone per distacco e serenità di giudizio, senza dubbio
la maggiore disponibile su Andreotti.
Lettura tra l’altro
piacevolissima, ricca di aneddoti, episodi, aforismi, alcuni provenienti
dalla inesauribile vena del soggetto medesimo, cui il biografo ha avuto
il privilegio professionale di un accesso diretto e frequente. «Non mi
piacciono le biografie da vivo», gli disse una volta Andreotti. «Però
capisco che ci si occupi della mia vita. In fondo, in un certo senso, io
sono postumo di me stesso».