venerdì 14 dicembre 2018

Santo Natale
«Ucciso il killer dell’attentato a Strasburgo. Cherif Chekatt, 29 anni, è morto durante uno scontro a fuoco con la polizia francese. L'uomo era in fuga da 48 ore. È stato avvistato, ieri sera, in rue du Lazaret, nel quartiere di Neudorf, dopo una segnalazione. La polizia l’ha fermato, lui si è voltato e ha estratto una pistola dalla felpa aprendo il fuoco contro gli agenti, che hanno risposto, uccidendolo. I passanti hanno applaudito i gendarmi».
dal reportage di Marco Imarisio su Corriere della Sera di oggi

La Stampa 14.12.18
Abusi su minori

Per i giudici il cardinale Pell è colpevole
di Salvatore Cernuzio

Se non fosse per il «suppression order» (l’ordine che impedisce qualsiasi copertura mediatica) che il giudice di Melbourne, Peter Kidd, ha imposto sul processo al cardinale George Pell, in Australia la notizia sarebbe già deflagrata come una bomba. Il potente porporato, riconosciuto in Curia come il «ranger australiano» dopo la nomina di Papa Francesco nel 2014 come «ministro dell’Economia» della Santa Sede (ruolo che tuttora mantiene ma dal quale è in congedo da un anno), sembra che sia stato condannato per abusi sessuali su minori. Sembra, perché la secretazione richiesta dal giudice – per non influenzare la sentenza definitiva che arriverà invece il 4 febbraio 2019, né il secondo processo, sempre per abusi, che Pell affronterà l’11 marzo – impedisce di conoscere la natura e l’entità della ordinanza.
Il verdetto a febbraio 
I giornalisti australiani conoscono ogni dettaglio ma non pubblicano nulla, non possono farlo per non incorrere in multe o finire addirittura dietro le sbarre. La notizia di una presunta «condanna», tuttavia, non ha tardato a circolare in queste ore su social e siti internet ultraconservatori in Europa e negli Usa. In Vaticano tutto tace: nessuna conferma né smentita, solo le parole del portavoce Greg Burke che, annunciando l’uscita di scena di Pell dal C9, parlava di un «provvedimento in atto» che la Santa Sede rispetta.
Fonti di Melbourne consultate da La Stampa confermano tuttavia che si tratti di un «verdetto» al quale una giuria di dodici membri è giunta lo scorso 11 dicembre dopo tre giorni di deliberazioni. In esso si riconosce il cardinale «colpevole» di cinque capi d’accusa riguardanti «reati sessuali su minori storici», risalenti cioè anche ad oltre vent’anni fa. Stando alle fonti, quattro riguarderebbero atti osceni e uno la violenza su un adolescente.
Una nuova tappa, quindi, per il «cathedral trial», com’è stato ribattezzato il processo a Pell, caratterizzato sin dall’inizio nel luglio 2017 da una forte pressione di media e di popolo che invocano un provvedimento esemplare contro la Chiesa australiana sfigurata da 1.880 preti pedofili.
Pell per ora è libero su cauzione e nei prossimi giorni subirà a Sydney un’operazione al ginocchio. In questi mesi si è reso quasi invisibile per evitare le accese proteste che gli impedivano di uscire di casa anche solo per andare dal medico o celebrare una messa.

Corriere 14.12.18
La rivista cattolica
di Salvini, attacco a «Famiglia Cristiana»: è ultrasinistra
di G. G. V.


«Famiglia Cristiana non è di sinistra né di destra, ma è nella Chiesa e con la Chiesa e i diritti umani». Il direttore, don Antonio Rizzolo, non si scompone per l’attacco di Salvini. «Ormai è un settimanale di ultrasinistra», ha detto il ministro dell’Interno. Che parla di «ennesima menzogna» a proposito di un articolo nel quale si denuncia la vicenda di una famiglia di migranti — marito ghanese, moglie nigeriana incinta, una bimba di sei mesi — cacciata da un centro di prima accoglienza a Crotone. Il settimanale conferma «punto per punto» e replica: «Gli suggeriamo di leggere il suo cosiddetto decreto sicurezza». Il decreto ha cancellato i permessi di soggiorno umanitari. Salvini sostiene che «non è retroattivo». Però «molte prefetture ne hanno data una interpretazione restrittiva e tante famiglie sono state messe alla porta», spiega don Rizzolo: «Caritas e parrocchie hanno creato una rete per aiutarle, c’è grande confusione. Se il ministro dice che non è così, faccia chiarezza e lo dica alle prefetture».

La Stampa 14.12.18
«Dormire. Sognare. Guarire. Fantascienza? Niente affatto»
I sogni, un’opportunita’à per risanare la nostra vita
di Roselina Salemi


Dormire. Sognare. Guarire. Fantascienza? Niente affatto. Claire Johnson, dirigente dell’Association for the Study of Dreams, sostiene che possiamo usare i nostri film notturni per curarci. Come? Con il sogno lucido. Sogniamo e sappiamo di sognare (qualche volta succede, anche senza volerlo). Con un po’ di esercizio possiamo vivere sensazioni piacevoli o «pilotare» i sogni. In media si fanno sei sogni per notte, oltre 2000 l’anno, cioè 2000 opportunità di risanare la nostra vita. D’altronde gli studiosi calcolano che passiamo sei anni sognando. Chissà quante esperienze entusiasmanti dimentichiamo…
L’esistenza dei «sogni lucidi» è stata dimostrata nel 1975 dallo psicologo inglese Keith Earne, ma solo da poco la tecnologia sta lavorando per produrli sotto controllo. Nel 2014 Ursula Voss ha scoperto che è possibile innescare sogni lucidi in laboratorio applicando una corrente di 40 hertz a un volontario appena entrato nel sonno Rem (difficile ripetere in casa l’esperimento). Esistono già mascherine e app per cellulari come «Sogni» (per iPhone e iPad) tradotta in otto lingue e scaricata da quasi 60.000 persone, ma la Johnson propone 50 classici esercizi per usare concretamente i film interiori. Diventare «onironauti» può migliorare la creatività, aiutare a elaborare il dolore, potenziare la mindfulness, far pace con il proprio passato, persino capire che tipo di relazione abbiamo con mariti, mogli, fidanzati, ex. Si possono avere informazioni sulla salute: in uno studio del 2015 il radiologo americano Larry Burke ha notato che il 94 % dei sogni premonitori trasmetteva un senso di urgenza, l’83 % era più realistico e intenso del solito, il 72 % emanava un segno di minaccia, il 44 % conteneva la parola «cancro» o «tumore ». Evidentemente la mente inconscia coglie segnali impercettibili che indicano un problema e i sogni li trasformano in immagini simboliche.
Quanto alla creatività, non è un mistero che Stephen King abbia sognato le storie dei suoi romanzi, come Paul McCartney alcune delle sue canzoni. L’artista Epic Dewfall, appena cominciava a sognare lucidamente, entrava in una galleria d’arte e si piazzava davanti all’immagine che gli piaceva di più. Poi si svegliava e la disegnava. I sogni si possono usare anche per attenuare l’angoscia (i depressi sognano di più perché hanno parecchia spazzatura emotiva da eliminare): il segreto è raccontarli.
E gli incubi? Mai sottovalutarli. Portano a galla i problemi rimossi, gli aspetti del carattere che abbiamo negato. Possiamo accogliere il messaggio e modificarlo nel sogno: quando ci rendiamo conto che l’esperienza non è reale, riscriviamola cambiando il finale, come se fosse una sceneggiatura. E avremo esorcizzato i nostri personali Freddy Kruger.

La Stampa 14.12.18
Vendite dei giornali meno 40% in 5 anni

Le vendite dei giornali in Italia continuano a diminuire e le copie digitali non compensano l’emorragia. Negli anni 2013-2017, dice l’indagine di R&S Mediobanca sull’editoria, le copie cartacee dei quotidiani sono calate del 40,5% da 3,7 a 2,2 milioni al giorno. Considerate le 335 mila copie digitali, pari al 13% del totale, nel 2017 la diffusione totale si è attestata poco sopra i 2,5 milioni di copie.
Il calo delle vendite in Italia mostra comunque qualche segno di rallentamento. A livello mondiale si osserva un’approssimativa stabilità della diffusione cartacea (appena -0,4% dal 2013) grazie all’Asia in cui la diffusione dei giornali continua a crescere.


il manifesto 14.12.18
Come spiazzare le ombre brune
Emergenza democratica. Il compito dell’antifascismo è di nuovo quello di restituire ruolo e identità nella sfera pubblica agli esclusi. L’estrema destra cresce cambiando di segno al conflitto: orizzontale invece che tra le classi
di Davide Conti


Il riemergere di partiti e movimenti di estrema destra in Europa ed il convergere su di essi di porzioni consistenti di consenso popolare, sia empatico che elettorale, se da un lato ha configurato nella sfera pubblica un processo di «neocittadinanza» di istanze regressive quando non esplicitamente razziste, dall’altro ha finora sostanzialmente prodotto un dibattito sul tema del «ritorno del fascismo» che sembra avere come unico approdo quello di esorcizzare, attraverso la demonizzazione del sintomo, l’individuazione delle cause sostanziali che hanno determinato il fenomeno ed il suo manifestarsi.
SIANO ESSE di natura sociale (la crisi economica e la questione dei flussi migratori) o politico-valoriale (crisi dell’impianto ideale della politica) le linee di frattura entro cui è stato possibile per le forze dell’estrema destra incistare le comunità contemporanee sembrano far capo alle nozioni tanto della disgregazione quanto dei raggiunti limiti espansivi del sistema di riproduzione della ricchezza nelle società «mature».
I termini disgreganti emersi in rapida sequenza in questi ultimi anni in seno alla comunità internazionale hanno portato alla consunzione di sistemi politici consolidati ed alla fine materiale di forze e partiti politici che avevano caratterizzato il primo quindicennio della società globale post-89.
OGGI LE CANCELLERIE di tutta Europa, e con esse la stessa Unione, attraversano una crisi strutturale. In tutti i paesi pur nelle differenze di eredità storica e composizione politico-sociale sono emersi corpi di rappresentanza regressiva, di estrema destra e non solo, capaci di propagandare una divisione della società su base categoriale (migranti/cittadini; occupati/disoccupati; uomini/donne; garantiti/precari) e di distorcere le forme del conflitto, spostandolo dalle sue fisiologiche linee verticali (la contrapposizione tra classi subalterne e ceti dirigenti che ha garantito in termini storici il progresso) a quelle orizzontali che artificiosamente ne rovesciano il senso contrapponendo gruppi sociali nelle stesse condizioni e con gli stessi interessi e problemi.
Su questo terreno si colloca la necessità dell’antifascismo nella società contemporanea, non solo come valore o paradigma ideale ma come nesso di relazione storica con ciò che esso materialmente rappresentò in termini di risposta internazionale al movimento politico fascista. L’antifascismo rappresentò in Europa ed in modo peculiare in Italia una teoria dello Stato che, incarnata in una lotta reale delle giovani generazioni, fu capace di informare alla radice la rifondazione costituzionale dei paesi e delle società del continente.
Dopo l’esperienza internazionale della lotta antifascista tutti gli assetti politico-istituzionali post-bellici fecero i conti con l’eredità della Resistenza il cui portato valoriale e di diritti riformulò inclusivamente il perimetro delle cittadinanze e delle uguaglianze, a partire da quelle delle donne e delle classi popolari.
INSIEME ALLE GRANDI VISIONI politiche e ideali come il «Manifesto di Ventotene» l’antifascismo espresse, come ci ha insegnato Claudio Pavone, una nuova «moralità» che divenne patrimonio delle classi popolari al punto di farne un tratto connaturato alla loro identità sociale nonché saldato alla trasmissione della propria memoria storica individuale e collettiva. Al termine di decenni in cui quegli stessi ceti popolari si sono visti relegati nelle periferie urbane, culturali, sociali e politiche della società; hanno dovuto scontare sulla pelle le sofferenze e le umiliazioni della crisi economica; hanno assistito alla cancellazione dei loro diritti e quindi delle radici storiche da cui essi provenivano, il compito dell’antifascismo sembra di nuovo essere quello di restituire ruolo e identità nella sfera pubblica a quella parte così ampia della popolazione che oggi la cosiddetta «classe dirigente», ovvero i principali responsabili dei processi disgregativi, non esita a rappresentare come espressione di insane e primitive manifestazioni di populismo e sovranismo plebeo.
È IN QUESTA TEMPERIE che l’antifascismo diviene un programma. Ancora una volta chiaro e unitario, storicamente fondato, socialmente inclusivo, politicamente e orgogliosamente schierato. Di nuovo, come sempre, indispensabile.

il manifesto 14.12.18
L’antifascismo oggi. Libertà d’espressione, antirazzismo, diritti sociali
L'appuntamento. Un’anticipazione dell'intervento del presidnte della Federazione internazionale dei resistenti che sarà ospite del convegno internazionale organizzato a Roma dall'Anpi dal titolo "Essere antifasctsi oggi in Europa"
Vilmos Hanti,
Presidente della Fir, Federazione internazionale dei resistenti

Settantaquattro anni dopo la vittoria antifascista nella Seconda guerra mondiale le posizioni unitarie finalizzate a sconfiggere il fascismo si sono indebolite per diverse ragioni.
LA PIÙ IMPORTANTE è che con il crollo dell’Unione Sovietica, il mondo è diventato unipolare e davanti ai nostri occhi ha svelato un nuovo tipo di potenza egemone il cui unico scopo è la conquista del capitale, spesso senza considerare le persone e gli interessi dei popoli.
Oggi i beni del mondo sono concentrati in una ristretta cerchia e il numero di persone escluse è in aumento in modo significativo. La moderna tecnologia, il mondo di internet offrono ancora più possibilità a chi è al potere di controllare e manipolare le masse. E di creare dei ghetti virtuali.
In molte società vediamo che non c’è nessuna democrazia, o lo stato attuale della democrazia non garantisce più il diritto all’uguaglianza e i diritti delle minoranze. Camuffate con gli abiti della democrazia, si sviluppano in realtà in molti paesi condizioni favorevoli alla crescita di nuovi fascismi. Questi nuovi regimi tirannici falsificano i fatti storici, attaccano gli eroi antifascisti della Seconda guerra mondiale, con l’obiettivo di fornire le basi per il diffondersi delle tesi fasciste tra le persone. Dai tempi di Goebbels sappiamo quanto i media possano influenzare il pensiero delle persone. «La stampa è una grande tastiera su cui il governo può scrivere ciò che vuole», sosteneva il gerarca nazista. E oggi, in molti sistemi autocratici, la stampa è controllata dal governo, così che l’incitamento alle idee fasciste diventa ancora più facile: come un coltello che passa nel burro.
SIAMO INOLTRE CONSAPEVOLI che lo strumento più importante di cui si nutre la crescita del fascismo è la ricerca di capri espiatori cui addossare la responsabilità per le circostanze sociali ed economiche intollerabili in cui si vive. Oggi questo ruolo è interpretato dagli «immigrati» che arrivano nell’Unione europea.
Con il passare degli anni, tra noi ci sono sempre meno combattenti della resistenza antifascista che hanno combattuto durante la Seconda guerra mondiale. Ed il loro ruolo di trasmissione e mantenimento del pensiero antifascista nella società è diminuito proporzionalmente. Le nuove generazioni non hanno alcuna esperienza di prima mano del terrore fascista e nazista dell’epoca. E anche per questo sono più facilmente succubi del diffondersi del nuovo fascismo.
Perciò, di fronte a questa terribile situazione, cosa possono fare persone, comunità, organizzazioni per rafforzare i valori antifascisti? Dobbiamo proclamare che oggi ciascuno è un antifascista le cui parole e azioni rappresentano l’umanità intera, la lotta per l’uguaglianza e la tolleranza. Dobbiamo sostenere quei progetti economici che forniscono accesso ai beni materiali e dobbiamo negare tutte le autocrazie che privano i popoli della loro quota legittima di beni. Possiamo essere antifascisti ovunque sul luogo di lavoro, all’interno della cerchia dei nostri amici e in famiglia.
POSSIAMO RENDERE il nostro sforzo comune più fruttuoso se raccogliamo intorno a noi tutte le organizzazioni antifasciste in una vera comunità. È anche importante sostenere e finanziare tutte le organizzazioni, gli artisti, i politici e qualsiasi altra personalità che con orgoglio rappresentino i valori dell’antifascismo. Solo le democrazie vere possono fornire protezione contro i nuovi fascismi. Di conseguenza, gli antifascisti hanno un ruolo nella realizzazione e nella difesa delle democrazie vere dove sono presenti i nostri valori di antifascisti.
Secondo la testimonianza della Storia, il fascismo si sviluppò in quelle nazioni nelle quali i populisti di destra ebbero la possibilità di rovesciare l’ordine dello stato democratico.
Oggi lo scopo principale di queste stesse forze è di trasformare l’Unione europea in Stati-nazione dove possono prendere di nuovo il potere. Al centro delle prossime elezioni per il Parlamento europeo c’è la necessità di sapere se possiamo impedire l’espansione delle forze di estrema destra. È pertanto necessario sostenere le forze progressiste d’Europa. La posta è alta.
NON DOBBIAMO LASCIARE che i neofascisti guadagnino terreno. Se ottenessero l’accesso agli strumenti economici e amministrativi della Ue li userebbero per distruggere la nostra civiltà. La Fir offre un quadro forte e unitario per una comunità antifascista europea ed internazionale. E questo giustifica il supporto personale di ogni antifascista. Lasciatemi concludere con una frase storica: «No pasaran!».
*Presidente della Fir, Federazione internazionale dei resistenti
Antifascisti da tutta Europa in convegno a Roma
Oggi e domani presso Palazzo Merulana di Roma (via Merulana 121) si svolge il convegno internazionale «Essere antifascisti oggi in Europa. Emergenza democratica: una risposta unitaria e popolare a vecchi e nuovi fascismi», promosso dall’Anpi. L’obiettivo dell’iniziativa, a cui prendono parte i rappresentanti di organizzazioni antifasciste e di associazioni partigiane di 14 paesi, è la costruzione di una rete antifascista europea. Il convegno, che inizierà alle 14.30, sarà introdotto da Aldo Tortorella e concluso dalla Presidente dell’Anpi, Carla Nespolo.

Il Fatto 14.12.18
I segreti “sovranisti” che hanno portato il vicepremier in Israele
Il leader della Lega vede Netanyahu: la visita preparata dal fedelissimo Picchi e dall’ex Pdl Fiamma Nirenstein

di Wanda Marra

Erano mesi, per non dire anni, che Matteo Salvini preparava una sua visita solenne in Israele. Ansia di legittimazione, come fu per un altro leader di un’altra destra, Gianfranco Fini. Della quale, nonostante le differenze, soprattutto di origine, la Lega sta raccogliendo l’eredità. Anche nel senso di raccogliere le istanze neofasciste o post-fasciste. E poi il tentativo di aprire nuove interlocuzioni in un Paese per il quale da sempre passano affari importanti. Ad oggi, Salvini non ha un Marco Carrai, come fu per Matteo Renzi, ovvero una sorta di ambasciatore a tutto tondo in quel Paese. Ma ci sta lavorando.
E così nella due giorni appena conclusa ha stretto un rapporto di ferro con il premier Benjamin Netanyahu, che lo ha accolto e lo ha sdoganato. Perché tra i due è in atto una strategia comune: Nethanyahu andrà alla cerimonia di insediamento del presidente brasiliano Bolsonaro, che ha promesso che sposterà l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Salvini, che anche dovrebbe presenziare, ha detto che, sulla stessa questione, sta “riflettendo”. E non a caso non ha incontrato nessuno dell’Anp: “Bibi” lo sta usando come piede di porco per sfaldare il fronte nell’Unione Europea. E lui si presta.
Forte di un altro rapporto, che ha contribuito a preparare la visita, sia pure nell’ombra: quello con Fiamma Nirenstein, che il premier israeliano nel 2015 aveva voluto ambasciatrice (un anno dopo lei aveva rinunciato all’incarico). Giornalista ed ex parlamentare Pdl, è sempre stata al centro di polemiche per le sue posizioni di destra. Proprio quelle alle quali il ministro dell’Interno sta dando cittadinanza. In un editoriale, il quotidiano Haaretz ha detto che Salvini sarebbe dovuto essere definito “persona non grata”. E il presidente della repubblica Rivlin non ha voluto vederlo. Aprire le porte di Israele a un Ministro che soffia su razzismo e xenofobia, oltre ad accompagnarsi all’estrema destra, non era scontato. Però, non hanno disdegnato di incontrarlo neanche il ministro della Giustizia, Ayelet Shaked e il ministro della Pubblica Sicurezza, Gilad Erdan.
Tra i grandi burattinai anche Steve Bannon: Trump pur avendolo allontanato, ha seguito in maniera quasi pedissequa le “prescrizioni” del suo ex stratega di riferimento, incluso il trasferimento dell’ambasciata statunitense in Israele a Gerusalemme, come gli avrebbe suggerito proprio Bannon. Il quale si definisce “orgoglioso di essere un sionista cristiano“.
E chi è che ha organizzato il viaggio del ministro, facendone uno preparatorio all’inizio di novembre? Il viceministro leghista Guglielmo Picchi, che agisce da ministro degli Esteri parallelo. Tra i suoi incontri, il viceministro per la Diplomazia pubblica, Michael Oren, ex ambasciatore di Israele a Washington, che non andava d’accordo con Obama ma si è lasciato andare a entusiasmi pubblici per Trump. Tutto torna, visto che fu lo stesso Picchi a portare Salvini da Trump nel 2016. Lo stesso anno cui risale la prima visita in Israele dell’allora solo leader del Carroccio: allora con lui c’erano Lorenzo Fontana e Giancarlo Giorgetti. Il primo oggi è iltessitore dell’alleanza sovranista, il secondo ha sempre svolto una funzione di raccordo tra la Lega e gli ambienti istituzionali più tradizionali, anche all’estero.
Non stupisce, data la delicatezza della missione, la presenza di una delegazione composta da ben 8 persone. Degna però di un presidente del Consiglio. Quattro comunicatori: Matteo Pandini, il portavoce, ormai sua ombra, Luca Morisi e Andrea Paganella, gli uomini che curano “La Bestia”, ovvero il sistema per sfondare sui social e Daniele Bertana, che è l’addetto alle foto e ai video. L’unico che è andato con Salvini al confine con il Libano a vedere le zone militari. E poi, il consigliere diplomatico, Stefano Beltrame, il capo del cerimoniale, Ilaria Tortelli, il consigliere di Palazzo Chigi, Claudio D’Amico e un altro funzionario del Viminale. Un incontro preparato a vari livelli, con non poche complicazioni: per esempio le regole d’ingaggio per l’incontro con Netanyahu sono cambiate decine di volte. Prima era chiuso ai giornalisti, poi aperto e c’è stata una lunga discussione sull’uso degli smartphone.
Tra le cose che hanno fatto più discutere le dichiarazioni di Salvini su Hezbollah, definiti “terroristi islamici”, mentre sono i padroni del Libano, dove i soldati italiani partecipano alla missione Unifil. Chi ha lavorato alla visita racconta che si è trattato in realtà di un messaggio cifrato al fronte europeo, contro l’Iran, loro alleato, dopo che Trump ha annunciato il ritiro dall’accordo sul nucleare iraniano. Dietro le quinte della visita, ci sarebbe pure Avigdor Lieberman, ex ministro della Difesa, che invocò la guerra contro l’Iran e l’attacco al Libano contro Hezbollah.

Il Fatto 14.12.18
Salvini, il ministro di Tutto e i 60 milioni di baionette
di Antonio Padellaro


“Chiedo a voi il mandato di andare a trattare con l’Ue, non come ministro, non come governo, ma a nome di 60 milioni di italiani”. Questa frase non è stata pronunciata dal nuovo presidente della Repubblica italiana, Matteo Salvini, eletto direttamente dal popolo con voto plebiscitario. E neppure dal generale Matteo Salvini, capo della giunta militare che ha sciolto il Parlamento e imposto la legge marziale. E neppure da tale Matteo Salvini, senza fissa dimora, fermato dagli agenti del vicino commissariato mentre molestava i passanti con frasi sconnesse.
No, queste affermazioni appartengono al Matteo Salvini vicepremier e ministro degli Interni, rivolte a migliaia di militanti della Lega accorsi plaudenti, sabato a piazza del Popolo. Senza però che abbiano destato reazioni percepibili oltre il Pincio e via del Corso. Silenzio a Palazzo Chigi, dove nessuno ha obiettato che forse quel mandato sarebbe di stretta competenza del presidente del Consiglio (anche perché il compito di negoziare con l’Europa era stato appositamente affidato a lui dai due vicepremier). Però, come da Contratto, Giuseppe Conte non ha fiatato. Del resto, è dalla nascita del governo gialloverde che Salvini ricopre a giorni alterni tutte le principali funzioni dell’esecutivo, senza che nessuno abbia avuto alcunché da obiettare. Ministro degli Interni (dove peraltro non si vede spesso). Ma anche ministro dello Sviluppo economico: tavolata al Viminale per dire sì alle grandi opere. Ma anche ministro degli Esteri: visite ufficiali nel Qatar e in Israele, consultazioni permanenti con il gruppo di Visegrad, ospite gradito al Cremlino, in attesa di recarsi da Donald Trump alla Casa Bianca. Ma anche ministro della Difesa: l’accusa di terrorismo agli Hezbollah. Ma anche ministro delle Infrastrutture: fosse per lui la Torino-Lione dovrebbe essere già in funzione e chissenefrega dei No Tav. In attesa di occupare Sanità, Pubblica Istruzione e Beni culturali (per lo Sport ha già provveduto il fido sottosegretario Giancarlo Giorgetti commissariando il Coni), Salvini sta sperimentando una nuova figura istituzionale. Quella del premier demoscopico, convinto di rappresentare non più il 17% dei voti ottenuti il 4 marzo, ma (almeno) il doppio. Come da sondaggi. Consenso che, se anche un giorno si realizzasse, arriverebbe a coprire dieci dei 60 milioni di baionette immaginati dal novello duce.
Forte di questo voto virtuale, il Matteo onnicomprensivo impone la sua maldestra invadenza, a cominciare dall’ufficio affidatogli: il tweet mattutino per attribuirsi l’operazione (ancora in corso) della Procura di Torino contro la mafia nigeriana, resta un unicum ineguagliabile. Senza contare i contraccolpi internazionali delle sue pericolose alzate d’ingegno, degne dell’ispettore Clouseau. La frase sugli “Hezbollah terroristi”, che ha creato un comprensibile allarme nel contingente italiano in Libano, impegnato da anni in una delicatissima missione, è contenuto nel solito insensato tweet. Che si apre con un ilare: “Saluto da Tel Aviv, Amici”, che perfino Toninelli avrebbe ritenuto del tutto idiota. Resta il fatto che, a parte qualche velata protesta di Luigi Di Maio a proposito delle concertazioni domenicali del cosiddetto “capitano”, le salvinate, che in altri tempi avrebbero già provocato una crisi di governo, continuano a imperversare senza che nessuno imponga un alt. Non i Cinquestelle, evidentemente timorosi di una rottura con la Lega, che potrebbe presto precipitare in elezioni anticipate. E figuriamoci il povero Conte che, volato in missione a Bruxelles, più che le condizioni non negoziabili di Juncker dovrà temere le improvvide pensate dell’eccitato ministro.

La Stampa 14.12.18
Caso mensa
“Il Comune ha discriminatoi bimbi stranieri”
di Emilio Randacio


Comportamento discriminatorio da parte del Comune di Lodi». Il tribunale di Milano accoglie il ricorso dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione e dell’associazione di volontariato Naga. E, sempre il giudice, ordina di «modificare il “Regolamento per l’accesso alle prestazioni sociali agevolate” in modo da consentire ai cittadini non appartenenti all’Unione Europea di presentare la domanda di accesso» alle stesse condizioni degli italiani.
Il giudice Nicola Di Plotti, nel suo provvedimento, spiega come «non esistano principi ricavabili da norme di rango primario che consentano al Comune di introdurre, attraverso lo strumento del Regolamento, diverse modalità di accesso alle prestazioni sociali agevolate» per i cittadini extra Ue. L’amministrazione comunale, invece, ha previsto «specifiche e più gravose procedure poste a carico dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione Europea». Il regolamento comunale, infatti, non prevede l’autocertificazione e per molti stranieri è difficile reperire la documentazione che accerti che non possiedano proprietà nel loro Paese d’origine.
La decisione del sindaco
Si tratta, scrive il Tribunale, «di discriminazione diretta, essendo trattati diversamente soggetti nelle medesime condizioni di partenza e aspiranti alla stessa prestazione sociale agevolata». Un duro colpo per l’amministrazione leghista del comune lodigiano. Lo scandalo scoppia due mesi fa, quando il sindaco Sara Casanova decide un giro di vite sul regolamento delle mense scolastiche. Per ottenere le esenzioni, le famiglie di origine extracomunitaria dovranno produrre certificati del paese d’origine da cui si esclude di avere beni immobili. Iter complesso, soprattutto per via di traduzioni e della necessità delle famiglie coinvolte, di tornare nel proprio paese per ottenere la documentazione richiesta. Iniziano le proteste, soprattutto l’indignazione di molte altre mamme lodigiane, contrarie ad atti discriminatori, come l’esclusione dalla mensa di chi non produce la documentazione richiesta. Ma la denuncia di queste mamme, scatena una vera e propria gara di solidarietà. Sono loro ad accollarsi il prezzo dei servizi per le famiglie escluse. Nel giro di pochi giorni, da tutta Italia arrivano oltre 100 mila euro. Da ieri, non sarà più necessario. Il comune sarà costretto a rivedere il regolamento.

Corriere 14.12.18
«Lodi discrimina i bimbi stranieri»
Il tribunale condanna il Comune: il suo regolamento su mensa e bus viola la legge dello Stato
di Luigi Ferrarella


Milano Non conta la difficoltà o l’impossibilità delle famiglie dei migranti di procurarsi nei Paesi da cui sono fuggiti i documenti richiesti dal Comune di Lodi per far mangiare alla mensa o far salire sullo scuolabus i loro bambini: è invece per un motivo molto più tranciante che il Tribunale di Milano accerta la condotta discriminatoria del Comune leghista e gli ordina di modificare quel suo regolamento n. 28/2017 che solo ai cittadini non appartenenti all’Unione europea imponeva di produrre la certificazione rilasciata dal loro Stato se volevano accedere a prestazioni sociali agevolate; e che dunque introduceva «una discriminazione diretta», cioè «uno specifico adempimento aggiuntivo» che «trattava diversamente soggetti nelle medesime condizioni di partenza e aspiranti alla stessa prestazione sociale agevolata».
Ben più alla radice, infatti, il giudice Nicola Di Plotti indica che un Comune, qualunque Comune, non ha il potere di adottare questa disparità di trattamento, perché «non esistono principi ricavabili da norme di rango primario che consentano al Comune di introdurre, attraverso lo strumento del regolamento, modalità di accesso alla prestazione sociale agevolata diverse da» quelle che la legge dello Stato del dicembre 2013 fissa per i criteri di accesso all’Isee (Indicatore della situazione economica equivalente): legge che è speciale (e dunque prevale) rispetto al regolamento del 2000 (di natura secondaria) invocato dal Comune in tema di documentazione amministrativa.
La sentenza
Non si possono prevedere requisiti diversi tra cittadini dell’Ue e extraeuropei
Se dunque per l’Isee la legge prevede «autodichiarazioni del richiedente» poi controllate dallo Stato, e «non contiene discipline differenziate tra cittadini Ue e extra Ue», allora anche il Comune leghista deve rassegnarsi a tenere conto «dell’esistenza di un principio di parità tra tutti i potenziali interessati all’accesso alle prestazioni sociali agevolate», e «della possibilità riservata esclusivamente ad organi statali di meglio determinare le modalità di controllo sul reale possesso dei requisiti». Come rimedio, il Tribunale ordina al Comune di modificare il regolamento «in modo da consentire ai cittadini non appartenenti all’Ue di presentare la domanda di accesso a prestazioni sociali agevolate mediante Isee alle stesse condizioni previste in generale per i cittadini italiani e Ue». E condanna il Comune a 5.000 euro di spese processuali alle associazioni Asgi e Naga ricorrenti con i legali Alberto Guariso e Livio Neri.
A Lodi, se tace la sindaca Sara Casanova da due giorni a casa dopo aver partorito una bimba, l’assessore ai servizi sociali Sueellen Belloni, nel «rispettare la sentenza e valutare con il nostro legale cosa fare», rivendica: «Non chiedo scusa a nessuno. Non mi devo vergognare di nulla. Non abbiamo escluso nessuno dalla mensa». «Distrutta ma felice» si dice Michela Sfondrini, uno dei simboli del Coordinamento Uguali Doveri, mentre a «panettone e spumante sullo scalone del Comune» festeggia Stefano Caserini, consigliere della lista civica «110&Lodi» che 14 mesi fa si oppose alla delibera. «Come Lega non cambiamo idea e andiamo avanti», insiste il deputato e segretario della Lega Lombarda, Paolo Grimoldi. «Salvini chieda scusa — ribatte l’ex ministro pd Graziano Delrio — perché la condotta discriminatoria del sindaco leghista è anche colpa della sua propaganda xenofoba».

Repubblica 14.12.18
Il Pd verso le primarie
L’ossessione di Renzi
di Piero Ignazi


Dopo nove mesi di incomprensibili esitazioni il Pd approda finalmente alla scelta del segretario. E lo fa attraverso la solita, frusta, procedura delle primarie aperte. In tutto questo frangente il Pd non ha trovato il tempo di discutere il merito di questo meccanismo. Non ha compreso quanto questa modalità di selezione del leader scardini dalle fondamenta l’idea stessa di partito e, in aggiunta, della democrazia delegata- rappresentativa nel suo complesso. Ma ormai è tardi, e la corsa è cominciata. Con un disturbatore in pista, Matteo Renzi. Dall’alto – o dal basso – dei suoi clamorosi insuccessi l’ex-segretario continua a pontificare su quello che deve essere fatto per « salvare l’Italia » . Ovviamente il Pd, questo Pd senza la sua guida, non può nulla. In fondo cosa ne è senza il suo leader “ naturale”? Un misero accrocco di dirigenti che cercano una poltrona, una palude di iscritti afasici, un ricettacolo di nostalgici dispersi nel nuovo mondo. Al di là della sua gente non c’era nessuno che valesse la pena di essere salvato. Come gridò in una Leopolda qualche anno fa «non lasceremo che questi (i non-renziani) si riprendano il partito perché sono persone che non sanno dove mettere il gettone nell’iPhone ». Renzi ha sempre lavorato con un obiettivo ben chiaro: conquistare il partito per fare terra bruciata degli avversari. E c’è riuscito spingendo ad uscire, con insulti e dileggi, gran parte dei suoi oppositori ( che peraltro non hanno avuto la forza di resistere in attesa della rivincita). Il dominio incontrastato sul Pd negli anni della sua segreteria si trasforma ora, nella sua narrazione in un puro stile da “piagnone” fiorentino, in un calvario di trabocchetti e stilettate alle sue spalle da parte delle minoranze. Una ricostruzione allucinante per chi abbia un minimo di senso della realtà. Basterebbe ricordare lo svolgimento simil-castrista delle direzioni del partito dove, dopo l’intervento fiume del leader maximo, agli altri toccavano 5 minuti , in modo che tutto finisse presto. Che fatica deve essere stato ascoltarli per così tanto tempo. Adesso che l’opera di distruzione del Pd è completata, Renzi ha le mani libere. Non c’è niente di male, né di inedito, che un ex-segretario prenda un’altra strada: del resto, addirittura Bersani se n’è andato dalla Ditta. Ma Renzi non sbatte la porta, rimane con un piede dentro e uno fuori. In effetti, non ha ancora trovato il casus belli per giustificare politicamente la sua dipartita. L’idea di dar vita a un movimento anti-populista ed europeista non è certo in contrasto con le prospettive politico- ideali di tutti i concorrenti alla segreteria. E quindi traccheggia: vado o non vado? Ma la spinta verso nuovi lidi è molto forte perché al fondo c’è un problema del potere. Renzi non sopporta di essere secondo a Roma.
Necessita di poter disporre a piacimento di un proprio gruppo di fedeli, che lo seguano e non facciano tante storie. Che senso ha stare in minoranza nel Pd? Del resto, lo statuto delle sue fondazioni, Big Bang prima e Open poi, casseforti economiche e relazionali dell’ascesa del leader fiorentino, recitava , testualmente, che lo scopo dell’associazione era quello di «supporta(re) le attività e le iniziative di Matteo Renzi, fornendo un contributo finanziario, organizzativo e di idee alle attività di rinnovamento della politica italiana, in particolare quelle articolate intorno alla figura di Renzi » . Chi ha condotto la propria (fortunata) ascesa politica con tali veicoli di promozione personale male si adatta a perseguire progetti collettivi, a confronto con altri, discutendo e mediando. Molto meglio una propria “squadra” (come diceva Berlusconi). Il modello della République en Marche di Macron si attagliava perfettamente a Renzi, soprattutto per l’impostazione personalistica e verticistica di quel partito più che per le sue politiche. Ora, forse, affiora qualche perplessità. Ad ogni modo, l’ex segretario è in via di uscita dal Pd per la semplice ragione che non può più controllarlo come un tempo. Per questo, se ne rimangono ceneri non piangerà di certo. Anzi.

il manifesto 14.12.18
«Saremo maggioranza? Ma restiamo un sindacato conflittuale»
Le voci del congresso di Riccione. I metalmeccanici: Maurizio Landini da sempre uno di noi, la sua corsa è una corsa collettiva
di Massimo Franchi


RICCIONE Per chi da più di un decennio è stato in minoranza, sentirsi potenziale maggioranza è una sensazione strana, che riporta alle origini. Girando per il congresso della Fiom di Riccione e pensando a quanto successe nella vicina Rimini nel 2014, si ha la sensazione che siano passati secoli. Nelle pause, nei corridoi, a pranzo, è tutto un parlare di quello che sta succedendo in Cgil: «Hai sentito l’ultima? Colla si candida», «Vanno alla conta», «Maurizio deve stare attento, non deve fidarsi».
L’OTTIMISMO PERÒ PREVALE: «Vedrai che ce la facciamo», «Basta anche un voto in più ed è fatta». E c’è perfino chi chiede informazioni alla stessa Susanna Camusso, arrivata ieri. Parlerà oggi. Quattro anni fa il suo discorso fu fischiato. Oggi sembra a casa.
LA CORSA di Maurizio Landini verso la guida della Cgil è una corsa collettiva. Ognuno dei 790 delegati la vive come propria, come una forma di riscatto «per quello che abbiamo passato», commenta Francesco Percuoco, ex di Pomigliano dopo essersi rivisto nei filmati proiettati sul mega schermo che ricordano i giorni del referendum di Marchionne, della vittoria alla Corte Costituzione e il ritorno in fabbrica. «La discriminazione non è finita: siamo tornati a 400 iscritti, un risultato eccezionale. Ma fare uno sciopero è ancora difficile- ricorda dal palco Stefano Birotti – . Il casino è nato a Pomigliano e a Pomigliano deve finire, dobbiamo ringraziare Maurizio che c’è stato vicino fin dall’inizio. Incrociamo le dita e da buoni napoletani facciamo gli scongiuri», conclude tra gli applausi.
L’IDEA DI UNA FIOM come «sindacato indipendente» di Claudio Sabatini rivive nelle lotte dei e per i migranti, nell’ascolto di chi lotta nei Cas e negli Sprar, chi accoglie, chi denuncia la situazione di Riace e nella vicina «tendopoli piena di 4mila schiavi» di San Ferdinando a Reggio Calabria.
E ANDANDO ANCORA A RITROSO, Bruno Trentin, segretario della Fiom prima che della Cgil, l’ultimo finora a farlo nell’ormai lontano 1988 quando diceva: «C’è bisogno che il sindacato dia credibilità e certezze ai lavoratori e che lanci ai giovani che vogliono cimentarsi con questa prova il messaggio che il nostro non è un mestiere come un altro, ma può essere una ragione di vita».
LA FIOM CHE NACQUE molto prima della Cgil – il 16 gennaio 1901 – e che fu la sua principale categoria fino al superamento del terziario sull’industria – ora quasi doppiata per numero di iscritti dalla Filcams del commercio e turismo – è vicina a tornare in maggioranza – anche se c’è chi sostiene che «è sempre stata maggioritaria» – e ad avere un proprio leader a testa della confederazione.
SE COSÌ SARÀ, IL MERITO è da attribuire alla lotta cominciata a Pomigliano che, “grazie” soprattutto a Renzi, ha portato la Cgil a decidere di cambiare, di riunificarsi, di dar vita alla Carta dei diritti per rendere tutti i lavoratori uguali a prescindere dal contratto. E a lanciare la battaglia contro il Jobs act e i primi referendum abrogativi della sua storia.
Ma come ha sottolineato Francesca Re David – che di Landini è stata una sorta di ministro degli esteri – la lotta dei metalmeccanici non è finita, a prescindere da quello che succederà a Bari a fine gennaio, al congresso. La nuova sfida è arrivare ad un contratto unitario in Fca e ad un nuovo contratto nazionale – fra sei mesi partiranno le piattaforme – che sia ancora più innovativo e garantisca un aumento salariale più forte.
L’ALTRA SFIDA riguarda il rapporto col governo gialloverde. I tanti delegati italiani neri denunciano il «razzismo strisciante» e, al netto dei voti a Lega e M5s di parecchi operai, c’è chi, come Dario Salvetti da Firenze, sottolinea che «se fra noi c’è qualcuno che vota Lega è un problema».
QUANTO AL M5S il rapporto sta diventando ugualmente critico. La richiesta a Di Maio di ripristinare l’art. 18 dello statuto dei lavoratori viene ora superata dall’attualità degli effetti del Decreto Dignità. La riduzione della durata massima dei contratti a tempo e del numero dei rinnovi sta portando «molte aziende a chiedere di derogare al bacino dei precari (non prendi altri lavoratori, devi stabilizzare quelli che hai) o ai contratti di prossimità». Il tutto porta a guardare ai vicini d’Oltralpe. «Senza tornare al conflitto anche qui arriveranno i gillet gialli e non dovremo sorprenderci», chiude Salvetti. Un «conflitto» evocato anche da Vittorio De Martino, segretario del Piemonte, ex delegato Fiat. Insomma, la Fiom sarà anche in maggioranza, ma rimane un sindacato conflittuale.

il manifesto 14.12.18
La natura sociale di un crollo che l’Istat non vede
di Tonino Perna


Da quando è iniziata la Lunga Recessione, l’Istat constata il distacco crescente, in termini di reddito pro-capite, tra il Mezzogiorno e il resto del nostro paese. Ma i dati raccontano solo una parte della realtà.
E non sempre ci permettono di capire che cosa sta avvenendo nella vita quotidiana della popolazione meridionale. Alcune cifre dovrebbero essere integrate, altre debbono essere lette correttamente, con tutti i loro limiti. Per esempio, il reddito pro-capite se non lo esprimiamo in termini di potere d’acquisto non comprendiamo il reale divario in termini di ricchezza e povertà delle famiglie. Una famiglia operaia monoreddito che vive in un paesino delle aree interne del Sud, che è proprietaria di casa con un pezzetto di terra con orto e animali, ha una serie di legami sociali che consentono di usufruire di servizi alla persona gratuiti, e ha certamente un potere d’acquisto nettamente superiore a una famiglia operaia delle grandi città del Nord. Quello di cui soffre è la mancanza di un lavoro qualificato per i figli, di scuole e trasporti che funzionino, di servizi socio-sanitari efficienti. Il più grande danno al Sud durante questi dieci anni di crisi l’ha fatto lo Stato bloccando il turn over nella pubblica amministrazione, con una perdita di oltre 250mila posti di lavoro, e il taglio netto agli investimenti pubblici nelle infrastrutture che servono (altro che Ponte sullo Stretto per la cui progettazione/promozione sono stati spesi centinaia di milioni). Rispetto al 2007 il Mezzogiorno odierno ha subìto un netto arretramento nell’offerta dei servizi socio-sanitari, nei trasporti locali, nelle scuole che sono a rischio e fatiscenti, nelle università che hanno perso mediamente il 30 per cento degli iscritti.
L’emigrazione, soprattutto giovanile, è ripresa a ritmi che non si erano mai visti, nemmeno nei primi decenni successivi alla seconda guerra mondiale. L’Istat parla di un milione di meridionali che negli ultimi venti anni sono emigrati nel Centro-Nord. Ma, si tratta di una cifra che sottovaluta decisamente il fenomeno: l’Istat guarda ai cambi di residenza, ma centinaia di migliaia di giovani meridionali hanno abbandonato il Sud senza cambiare la residenza. In diverse ricerche sul campo emerge un fenomeno migratorio ben più ampio e sconvolgente: possiamo stimare che due giovani su tre negli ultimi dieci anni hanno abbandonato il Mezzogiorno almeno una volta, e oltre la metà definitivamente. Alcuni, dopo il fallimento nell’esperienza migratoria sono rientrati a testa bassa e sono andati a rimpolpare l’esercito dei neet (not employement, education, training), altri vanno e vengono non solo verso il Nord I’Italia, ma verso il Nord Europa e persino l’Australia (l’emigrazione verso il quinto continente è la vera novità di questi ultimi anni).
Quello che, soprattutto, l’Istat non ci racconta è come è cambiato il rapporto tra i migranti e le famiglie di provenienza. Mentre negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso erano i migranti meridionali che mantenevano le famiglie di origine con le rimesse (oltre a concorrere a salvare la nostra bilancia dei pagamenti), oggi sono molte volte le famiglie meridionali che mantengono i figli nel Nord Italia o all’estero, non solo per studiare o specializzarsi, ma anche perché con i lavoretti non si sopravvive in questi territori. E sono le stesse famiglie, soprattutto a livello di ceto medio, che spingono i figli, fin dalle scuole medie superiori, a pensare di lasciare le terre del Sud perché, come si dice da queste parte«qui non c’è niente da prendere». Ed è questa la nota più triste che nessuna statistica potrà mai quantificare: la cifra che diventa un necrologio, la morte della speranza di una terra dove una volta i giovani gridavano «lottare per restare, restare per lottare».

Repubblica 14.12.18
E ora si apre uno scenario stile Tsipras
di Stefano Folli


Qualcosa è cambiato nelle ultime ore. In un certo senso si è aperto nel nostro paese lo scenario Tsipras: dal nome del premier greco che cominciò da incendiario, contestatore frontale delle regole europee, e adesso governa nel segno dell’ortodossia. Come si ricorderà, la trasformazione avvenne a cavallo di un referendum, convocato per dire “no” alle richieste dell’Unione, stravinto su tale presupposto, ma in seguito completamente disatteso da chi lo aveva indetto in cerca di un alibi.
Non siamo a quel punto e la coppia Salvini-Di Maio ha ancora un tratto di strada da fare prima di tramutarsi nella versione nostrana del trasformista di Atene. Tuttavia il punto di non ritorno è stato sfiorato quando il presidente del Consiglio ha accettato di fissare il deficit al 2 per cento (in verità 2,04, un dettaglio su cui si ironizza senza risparmio) presentandolo come un gran successo.
Questo “compromesso tra due debolezze”, come lo ha definito Romano Prodi — la debolezza del governo italiano e quella della Commissione Juncker — è un atto di realismo, ma anche l’addio alla velleità giallo-verde di rappresentare un’alternativa radicale, anzi quasi rivoluzionaria, all’Europa di Angela Merkel o, se si vuole, del vecchio patto privilegiato franco-tedesco.
Ciò non significa che l’assetto dell’Unione sia oggi solido come ai tempi d’oro. Al contrario, l’Europa anti-nazionalista ha subito di recente vari colpi che hanno incrinato le vecchie certezze. I disordini in Francia si sono rivelati più seri del previsto, al punto che potrebbero proseguire anche dopo il discorso molto cedevole del presidente Macron: ed è un segnale che nessuno può sottovalutare. Peraltro, per quanto fragile, l’Europa è ancora in grado di obbligare Salvini e Di Maio a smentire se stessi sulla manovra. E lo fa proclamando non senza brutalità, vedi Moscovici, che l’Italia è diversa dalla Francia e non può aspettarsi lo stesso trattamento riservato a Parigi. Che sia un errore politico esaltare questa disparità, è un pensiero che non lo tocca.
In ogni caso, il risultato del braccio di ferro con l’Unione è un’Italia che torna a discutere di decimali proprio come accadeva con i governi del passato. La novità giallo-verde, che avrebbe dovuto ribaltare tutto e puntare alla crescita economica, si è arenata proprio quando gli indici indicano un inizio di recessione. In base alla retorica “sovranista” qui sarebbe dovuta partire la sfida finale al modello europeo, compresa la moneta unica. Viceversa Salvini tace, lasciando che sia Di Maio a esporsi in favore di Conte, e va ad Atene a veder giocare il Milan. Anche questo fa parte del “percorso Tsipras”: riposte le velleità rivoluzionarie, si cerca il modo di stare nell’Unione in attesa che dalle elezioni, chissà, emerga un equilibrio meno sfavorevole ai nazionalisti.
Per Salvini è più agevole procedere a questa conversione perché i suoi elettori non sono, o non sono più, ostili all’Europa: invece sono sensibili ai temi dell’immigrazione e della sicurezza in stile “legge e ordine”. Per Di Maio invece fare il “governativo” è un’impresa complicata. Può riuscirci fintanto che non si scoprirà il mezzo “bluff” del reddito di cittadinanza, quasi impossibile con le scarse risorse a disposizione. Per questo egli si difende e difende Conte con decisione. Ma l’ora della verità si avvicina. Forse non è un caso che dall’America Latina Di Battista abbia riesumato i toni da barricata. Fino all’elogio dannunziano dei “gilet gialli” e della loro estetica sovversiva. Una tenaglia pensata per soffocare un passo alla volta l’ala ministeriale.

Il Fatto 14.12.18
“Siamo i gilet tedeschi, con noi i delusi Spd dimenticati da Linke”
S. Wagenknecht - Capogruppo della sinistra e fondatrice di Alziamoci: “Già 160 mila iscritti”
di Uski Audino


Sono passati cento giorni dalla nascita del movimento Alzarsi e in Germania si torna a parlare di lei: Sarah Wagenknecht, co-capogruppo della Linke al Parlamento e una dei fondatori di Aufstehen. A far tornare a parlare di lei anche le recenti dichiarazioni a sostegno dei Gilet gialli francesi, definite “scandalose” dalla cancelliera Angela Merkel, e l’avvicinarsi delle elezioni europee, che riaprono il capitolo di una possibile spaccatura della Linke.
“La richiesta dei Gilet gialli è del tutto giustificata”, aveva detto a fine novembre Wagenknecht e in un incontro con la stampa estera a Berlino, lo ripete: “La Francia prova che non bisogna essere un partito per cambiare la politica” e “questo è anche il desiderio del nostro movimento”, spiega. “Se si guarda a quello che accade lì, si vede che le persone che scendono in strada sono le stesse che negli ultimi anni non hanno più avuto voce in politica”. È chiaro “che la politica deve lasciarsi cambiare” e “per questo si impegna il nostro movimento”. Alla domanda se la Francia sia un modello replicabile in Germania, risponde che “lì è più facile perché hanno da sempre una tradizione rivoluzionaria che continua a vivere” e che spera che “cresca in Germania la pressione nelle strade”.
“L’idea del movimento è nata quando abbiamo avvertito che nella società tedesca c’è una maggioranza che vuole una politica più sociale – salario minimo più alto, pensioni migliori, tassa sul patrimonio – e al tempo stesso non c’è una maggioranza politica che si impegni per questo”, sostiene Wagenknecht. “Il desiderio è raggiungere le persone che gli altri non riescono più a raggiungere”, prosegue la deputata. L’idea sembra aver funzionato “in un modo che ci ha sopraffatti”, prosegue con orgoglio la moglie del fondatore della Linke, Oskar Lafontaine, parlando dei 167 mila iscritti. “Abbiamo notato che l’80% delle persone che hanno manifestato interesse per noi sono senza partito” e “sono ambienti che prima raggiungeva l’Spd”. Tra loro ci sono anche elettori del partito di destra Alternative für Deutschland?, le chiedono. “Non abbiamo elettori dell’Afd ma persone che alle ultime elezioni hanno votato Afd”.
Se Alziamoci vuole pescare nel bacino della destra, come si pone con la sinistra della Linke? “Non vogliamo fare concorrenza agli altri partiti ma vogliamo contribuire a portare i partiti più a sinistra”. Da tempo è noto, però, che all’interno del partito convivono non proprio pacificamente due anime, rappresentate dalla presidente, Katja Kipping, e da lei. “Sul piano personale posso dire che da capogruppo al Bundestag non posso portare avanti un progetto che faccia concorrenza alla Linke”.
Eppure il tabloid Bild crede poco a questa versione, tanto che ieri titolava: “Perché sul partito di Wagenknecht pende la minaccia di una spaccatura” sostenendo la tesi della concorrenza elettorale alla Linke. Interpretazioni a parte, le ambiguità restano. “La Linke è nata per raggiungere gli ambienti che non raggiungeva più l’Spd”, dice la deputata. Nel tempo poi “ci siamo sforzati sempre di meno, secondo la mia valutazione, di raggiungere queste persone, come partito” ammette, “raggiungiamo bene l’ambiente universitario, ma non riusciamo più a parlare nella lingua di quelli a cui va male davvero e non prendiamo abbastanza sul serio i loro problemi e le loro preoccupazioni”. Il nuovo movimento è quindi un modo di fare pressione dall’esterno sulla Linke per ritrovare lo spirito delle origini? Al momento “vogliamo promuovere il dibattito interno”. Affermazione che dalla bocca di una sindacalista suona minacciosa.

La Stampa 14.12.18
Sopravvissuta alla strage a scuola guida il movimento contro le armi

Emma González è una sopravvissuta. Quando il suo ex compagno di scuola, è entrato nell’istituto di Parkland uccidendo 17 ragazzi, lei è riuscita a scappare. Per dare un senso a questa mostruosità, Emma e il collega Jaclyn Corin hanno organizzato una marcia che, nel suo genere, è entrata nella storia americana: la March For Our Lives (la marcia per le nostre vite) ha riempito le strade di Washington con l’obiettivo di contrastare la vendita di armi negli Stati Uniti. I due ragazzi hanno ricevuto i complimenti di Barack Obama.

il manifesto 14.12.18
Ungheria in piazza contro la nuova «legge schiavitù»
Visegrad. Voluta dal premier Orbán alza fino a 400 le ore di straordinario annue. I sindacati: «Un regalo alle aziende tedesche dell’auto»
di Massimo Congiu


BUDAPEST «Orbán vai via», grida un giovane guardato a vista dalla polizia. «Dimissioni», gli fa eco un uomo accanto a lui. Per il secondo giorno consecutivo gli ungheresi sono tornati a riempire le strade di Budapest. Lavoratori e studenti uniti per chiedere libertà nel lavoro e libertà accademica. A muoverli è l’approvazione avvenuta mercoledì della legge sugli straordinari con 130 voti a favore, 52 quelli contrari, delle modifiche al Codice del Lavoro che portano il tetto degli straordinari a 400 ore annue. L’opposizione si è impegnata fino alla fine per bloccare il voto nell’aula parlamentare, fuori i sindacati manifestavano dando luogo a blocchi stradali per protesta contro una legge che definiscono «schiavista».
DUE GIORNI fa le manifestazioni di dissenso davanti al Parlamento sono durate a lungo, caratterizzate da frequenti tensioni fra dimostranti e poliziotti schierati in tenuta antisommossa intorno all’edificio dell’Assemblea nazionale. Ieri sono arrivati sul posto numerosi studenti già impegnati, nelle scorse settimane, in una lunga mobilitazione a favore della libertà di studio e di ricerca nelle università e contro la chiusura della Ceu (l’università fondata da George Soros) a Budapest. Sindacati e studenti hanno così solidarizzato e fatto causa comune contro un governo che accusano di voler rendere schiavi il mondo del lavoro e quello universitario.
Ieri anche i partiti di opposizione sono scesi in piazza con le bandiere di Lmp, Momentum, Párbeszéd Magyarországért (Dialogo per l’Ungheria) e anche di Jobbik. Presente Bernadett Szél, candidata al ruolo di primo ministro nelle file dell’Lmp e ora deputata indipendente al parlamento che accusa il partito del premier di fregiarsi del merito di essere la sola forza politica impegnata a fare il bene del paese. «Anche noi siamo ungheresi, non solo Orbán, anche noi, non solo il partito Fidesz», – ha detto rispondendo alle domande di militanti e giornalisti».
LA MAGGIORANZA dei presenti è comunque costituita da lavoratori e studenti che dal parlamento si sono mossi in corteo verso Buda, passando per il ponte Margherita, seguiti da agenti in tenuta antisommossa. Una serata fredda, riscaldata dall’entusiasmo dei manifestanti che sfilano portando in prima fila uno striscione con su scritto «Studenti liberi, lavoratori liberi». «Non saremo schiavi» e ancora «Orbán vai via» gli slogan gridati all’unisono. A protestare giovani e meno giovani, studentesse universitarie intente a far rimbombare il suono dei loro tamburi e signore strette nei cappotti cappotto che hanno chiesto ai poliziotti: «Cosa venite a fare?». Sì, perché la sera precedente gli agenti con tanto di casco, manganello e spray urticante messo sovente in azione, nei momenti più tesi, erano stati accusati di essere dalla parte del potere. «La polizia ungherese è con loro», scandiva la folla in un’aria che puzzava di lacrimogeni. Diversi manifestanti si erano avvicinati ai poliziotti dicendo «siete lavoratori come noi, dovreste capirci invece di difendere questo sistema».
A BUDAPEST è stato così in queste ultime due sere: luci di Natale splendenti in modo particolare nel centro cittadino e urla e fischi a piazza Kossuth e dintorni contro il governo e la sua politica già così poco propensa al dialogo sociale. La legge sugli straordinari è per il governo uno strumento con cui fare gli interessi dell’economia ungherese. L’esecutivo sostiene, insomma, la flessibilità del lavoro e la definisce necessaria per venire incontro alle esigenze di imprenditori, investitori e grandi aziende straniere. Tra queste ultime vi sono la Opel, la Mercedes e l’Audi che concorrono in modo significativo alla crescita economica del paese. Per i sindacati, in realtà, questa legge è una risposta alla sempre più evidente carenza di manodopera in Ungheria, problema dovuto all’emigrazione. Gli esperti fanno notare che, negli ultimi anni, diverse centinaia di migliaia di lavoratori hanno lasciato il paese per destinazioni migliori dal punto di vista delle retribuzioni. Alcune fonti parlano addirittura di circa 600 mila persone (il 16% degli occupati) espatriate seguendo un flusso iniziato nel 2009 e diretto soprattutto in Germania e Gran Bretagna. A questo va aggiunta una tendenza demografica negativa che rende ancora più complicata la situazione.
L’aumento degli straordinari comporterebbe una settimana lavorativa di sei giorni o oltre dieci ore giornaliere per cinque giorni. Gli straordinari sono facoltativi, almeno formalmente. Di fatto i sindacalisti fanno notare che di questi tempi i lavoratori non possono rifiutarsi di rispondere affermativamente alle richieste dei datori di lavoro, soprattutto per paura di perdere il posto. In altre parole, il sistema disegnato in questo modo dal governo viene visto dai critici come ricattatorio. Contro di esso lavoratori e studenti promettono una lunga mobilitazione e i sindacati non escludono di arrivare nei prossimi giorni alla proclamazione di uno sciopero generale. Proteste che, almeno in apparenza, non sembrano scalfire le certezze del governo: «le manifestazion di piazza non ci indurranno a ritirare la legge», ha spiegato ieri il ministro Gergely Gulyas, secondo il quale tra i manifestanti ci sarebbero state persone vicine al magnate americano George Soros.

Il Fatto 14.12.18
L’ultima di Orbán: lavoro oggi, straordinari tra 3 anni. L’Ungheria scende in piazza
Operai e studenti contro l’emendamento. Il premier pensa a svuotare la Corte suprema
di Roberta Zunini


“Più diritti meno Orbán” gridavano nei giorni scorsi per le strade di Budapest gli studenti universitari assieme ai lavoratori ungheresi riuniti dai sindacati davanti al Parlamento dove si stava discutendo la controversa riforma del codice del lavoro. Sia gli universitari preoccupati per le future condizioni di lavoro, sia chi già lavora però ha ottenuto l’esatto contrario: “Più Orbàn meno diritti”.
Il Parlamento ungherese, dove il partito di destra Fidesz del premier Orbán sovranista e ammiratore di Putin ha la maggioranza, alla fine non ha ascoltato le richieste di coloro che protestavano e ha approvato il discusso emendamento che aumenta gli straordinari annui dei dipendenti dalle attuali 250 a 400 ore. L’emendamento presenta inoltre un’altra fregatura sonora, per usare un eufemismo, ai danni dei lavoratori: consente di rinviare il pagamento degli straordinari in casi oggettivi (tecnici o organizzativi) fino a tre anni.
Anche se le forze dell’ordine hanno più volte disperso i manifestanti, questi sono ritornati poco dopo più numerosi, ma non solo il ministro del Lavoro Gulyas ha detto che il governo non arretrerà. È stato lo stesso Orbán a far sentire la propria inflessibile voce sottolineando che chi contesta non ha capito il senso del provvedimento. A suo parere si tratta di una innovazione favorevole non solo alle imprese, data la crescente difficoltà a trovare sufficiente manodopera a fronte di una crescita economica stimata per quest’anno al 4 per cento, bensí è positiva anche per i lavoratori “perché chi vuole lavorare di piú per avere piú soldi adesso può farlo”. Secondo i sindacati, i lavoratori sono troppo deboli per opporsi alle richieste delle aziende, a fronte di un continuo aumento della produzione soprattutto nelle grandi imprese. Orbán sta preparando nel frattempo anche un mutamento istituzionale: è pronta la legge per creare una nuova Corte suprema non indipendente bensí agli ordini del ministero della Giustizia, e con competenze allargate rispetto a quella già esistente, specie per le accuse di corruzione, questioni fiscali, presunti abusi della polizia e conto di risultati elettorali. Dando prova di voler trasformare la democrazia ungherese in un guscio vuoto.

Repubblica 14.12.18
Intervista ad Ana Brnabi, premier serba
“Il Kosovo rinunci all’esercito, minaccia la pace nei Balcani”
di Andrea Tarquini


«L’annuncio di Pristina di creare un suo esercito è la maggiore singola minaccia alla pace nei Balcani». Ce lo dice la premier serba Ana Brnabi?.
Come risponde la Serbia alle iniziative del Kosovo?
«Per noi la stabilità regionale è premessa di pace ma anche di prosperità economica. Abbiamo fatto molto negli ultimi 4 anni, specie sotto Vucic. Crescita al 4,5% nei primi 10 mesi, disoccupazione ai minimi record, debito pubblico al 56% del pil. Ma senza stabilità regionale non svilupperemo il nostro potenziale. Siamo pragmatici, cerchiamo un compromesso. Il presidente ha iniziato un dialogo con Pristina, che però ha alzato al 100% i dazi sull’import serbo e bosniaco. Siamo molto grati che Ue, Usa, Onu abbiano condannato questo passo: danneggia in Kosovo sia gli albanesi per tenore di vita sia i serbi quanto a diritti umani. Spero che prevalga la ragione e che il dialogo continui».
Oggi Pristina vota per creare un suo esercito, come reagite?
«Questo annuncio è la maggiore singola minaccia alla pace nei Balcani, e ci preoccupa estremamente. Un esercito del Kosovo non violerebbe solo tutti gli accordi internazionali, ma la stessa Costituzione del Kosovo. Spero che prevalga la ragione e, insisto, sono molto grata a Ue e Nato per le prese di posizione, come quella del segretario generale Stoltenberg: avrebbe conseguenze per l’integrazione euro-atlantica, ha detto. Occorre l’impegno di tutti i nostri partner per soluzioni pacifiche. Haradinaj (premier kosovaro, ndr) ha detto che l’esercito del Kosovo servirebbe per difendere l’Iraq, è ridicolo. Faccio appello a Haradinaj, Thaci e Veselj (premier presidente e presidente del Parlamento, ndr) a ripensarci».
Pace o compromesso con scambi di territori?
«Dopo questo enorme passo indietro è molto difficile pensare a negoziati. Ne siamo così lontani da doverci concentrare sui diritti umani. Le feste si avvicinano e i serbi del Kosovo affrontano penuria di alimentari, riscaldamento e medicine. E in Europa, nel 21mo secolo, dal 21 novembre non possono leggere media nella loro lingua. Pristina sta silurando tutte le intese del processo di pace di Berlino, tornano alle pericolose abitudini del 19mo secolo. Spero che ci ripensino».
Pace vuol dire con o senza riconoscimento reciproco?
«La Serbia vuole una normalizzazione, un compromesso. La richiesta di Pristina di riconoscere l’indipendenza è un ultimatum. Non accadrà mai.
Devono sforzarsi di capire anche la posizione serba. Modifiche di frontiera non aprirebbero il vaso di Pandora: fu già aperto dieci anni fa con la decisione unilaterale di Pristina (indipendenza) presa senza referendum. Il Kosovo non è mai stato come Croazia, Bosnia, Slovenia, Montenegro, non era una repubblica yugoslava, è sempre stato parte della Serbia. Le frontiere si possono rivedere ma non secondo linee etniche: la Serbia è il paese più multietnico d’Europa con oltre 15 lingue ufficiali. Occorrono leader coraggiosi, capaci anche di prendere decisioni impopolari a casa. Vucic vuole negoziare, nonostante 80 serbi su cento siano contro. Senza coraggio la pace resterà fragile».
La situazione rischia di andare fuori controllo?
«Siamo preoccupati dalle decisioni unilaterali di Pristina sui dazi e sull’esercito. Gioco pericoloso: basta un piccolo incidente per accendere un incendio».
Come vanno le relazioni col nuovo governo italiano?
«L’Italia é uno tra i nostri partner strategici. Siamo molto soddisfatti della disapprovazione italiana per le decisioni di Pristina. Abbiamo bisogno di partner cosí affidabili».
La Serbia è criticata per la politica verso i media e invitata a fare di più per la loro libertà, cosa risponde?
«La libertà dei media è centrale in ogni moderna democrazia e la critica costruttiva dei media è il miglior correttivo per ogni governo. La mia opinione è che i media serbi sono liberi e possono criticarci».

il manifesto 14.12.18
Fiammata dell’Intifada in Cisgiordania
Territori occupati. Due soldati e quattro palestinesi sono stati uccisi nel giro di poche ore. Netanyahu minaccia di non rispettare più la tregua a Gaza. Più di tutto annuncia il via libera alla legalizzazione di altri insediamenti coloniali.
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Benyamin Netanyahu fa di tutto per nascondere sotto il tappeto la questione palestinese. Farla scomparire, pensa, significa non doverla affrontare. Una strategia inutile perché l’occupazione dei Territori che dura da 51 anni era e resta una delle ragioni centrali di crisi e guerre in Medio Oriente. La dimostrazione si è avuta tra mercoledì notte e ieri sera. La Cisgiordania occupata è stata teatro di attacchi armati in cui sono rimasti uccisi due soldati, di incursioni dell’esercito che si sono concluse con l’uccisione di due palestinesi ricercati, di coloni israeliani che hanno preso a sassate le auto palestinesi in molte località. La tensione ha raggiunto anche Gerusalemme Est dove un palestinese ha accoltellato e ferito due agenti di polizia prima di essere ucciso.
In questi casi i media parlano subito di una «nuova Intifada». Ma è prematuro sostenerlo. Gli sviluppi si capiranno già oggi, giorno di preghiere islamiche sulla Spianata delle moschee di Gerusalemme, scena frequente di proteste palestinesi. Certo è che da lungo tempo non si registravano in Cisgiordania giornate come quella di ieri, con Ramallah, epicentro della fiammata, circondata da ingenti forze militari israeliane come nella seconda Intifada, nel 2000.
La giornata era cominciata con l’esercito che ha annunciato l’uccisione di due palestinesi. Il primo Saleh Barghouthi a Surda, un villaggio a qualche chilometro da Ramallah. Secondo i servizi segreti israeliani l’uomo, un taxista, avrebbe partecipato all’attacco a raffiche di mitra compiuto domenica contro una fermata dell’autobus nei pressi dell’insediamento coloniale di Ofra. Diversi israeliani erano rimasti feriti, tra i quali una donna incinta. I medici non sono riusciti a salvare il figlio. Barghouti, afferma l’esercito israeliano, è stato ucciso quando ha tentato la fuga. I palestinesi sostengono che l’uomo sarebbe stato arrestato e giustiziato dai militari. Poche ore dopo a Nablus è stato ucciso Ashraf Naalwa, che all’inizio di ottobre aveva colpito a morte due israeliani nella zona industriale della colonia Barkan. I militari gli davano la caccia da più di due mesi. In quelle stesse ore a Gerusalemme, Majd Mteir, del campo profughi di Qalandiya, ha accoltellato e ferito in modo leggero due agenti di polizia che hanno reagito uccidendolo sul posto. Alcuni testimoni affermano che Mteir è rimasto a terra sanguinante, senza alcun soccorso, per 40 minuti prima di morire.
Sulla scia di una notte insaguinata, ieri verso le 11 due uomini hanno attaccato a colpi d’arma da fuoco un gruppo di soldati e coloni israeliani all’avamposto coloniale di Givat Asaf, ad est di Ramallah, uccidendo due militari, Yuval Mor Yosef e Yosef Cohen, e ferendo almeno altre due persone. L’attacco è stato rivendicato dal movimento islamico Hamas. Poi ad al Bireh il fuoco dei soldati israeliani ha ucciso il 58enne Hamdan al Arda. In un primo momento Israele aveva riferito dell’intenzione dell’uomo di investire con la sua automobile alcuni militari. Poi in serata è emerso che non si era trattato di un attacco e che i soldati hanno ucciso una persona che non aveva fatto nulla.
«Vogliono sradicarci dalla nostra terra ma non ci riusciranno», ha commentato ieri Netanyahu mentre sotto la sua residenza a Gerusalemme migliaia di israeliani scandivano slogan di protesta e chiedevano le sue dimissioni. Come era prevedibile il premier ha annunciato di voler legalizzare migliaia di abitazioni costruite dai coloni in Cisgiordania su terre di proprietà palestinese. 82 nuove case inoltre saranno costruite nella colonia di Ofra. Netanyahu ha anche lanciato un avvertimento ad Hamas: non rispetterà la tregua a Gaza se proseguiranno gli attacchi in Cisgiordania. Netanyahu non ha avuto parole per il 22enne palestinese Mohammed Khabali ucciso il 4 dicembre durante un raid israeliano a Tulkarem. Per il portavoce militare Khabali è stato colpito mentre partecipava agli scontri con i soldati entrati nella città palestinese. Ma un filmato pubblicato ieri dal centro per i diritti umani Betselem, conferma come non vi fossero nemmeno in corso degli scontri quando è stata colpito il palestinese che era lontano molto lontano e non partecipava alle proteste.

La Stampa 14.12.18
Israele di nuovo sotto attacco
Dieci attentati in un mese
di Giordano Stabile


Due soldati uccisi a colpi di arma da fuoco vicino all’insediamento di Ofra, due accoltellati nella Città vecchia di Gerusalemme, la morte di un bambino nato prematuro dopo che la madre incinta era stata ferita in un agguato domenica sera. Quella di ieri è stata una giornata di sangue, dopo una notte di battaglia attorno a Ramallah, che aveva portato i militari israeliani a uccidere due degli attentatori degli ultimi attacchi. Un risultato che però ha visto la reazione immediata dei militanti palestinesi, non si capisce fino a che punto organizzati in una rete, o lupi solitari in cerca di vendetta. In ogni caso l’Intifada strisciante in Cisgiordania ha subito una tremenda accelerazione, dopo che per tre anni gli attacchi si erano succeduti in maniera sporadica. Nell’ultimo mese sono stati invece dieci, e gli analisti temono un cambio di strategia di Hamas che, anche se non rivendica mai direttamente gli attentati, sarebbe il regista dell’ondata di violenza.
L’accelerazione è cominciata con l’attacco, domenica, a una fermata dell’autobus davanti all’insediamento di Ofra, poco distante da Gerusalemme e Ramallah. Colpi di arma da fuoco da un auto in corsa che hanno lasciato a terra sette feriti, due gravi, compreso Amichai Ish-Ran e sua moglie Sarah, incinta. Per Israele, che festeggiava l’ultimo giorno dell’Hanukah, la celebrazione delle luci, è stato uno choc. E’ cominciata una gigantesca caccia all’uomo, che ha portato i soldati israeliani fin nel centro di Ramallah, dove ha sede l’Autorità nazionale palestinese, a setacciare locali e perfino la sede dell’agenzia palestinese Wafa. La caccia è finita nella notte fra mercoledì e ieri, quando i militari hanno trovato e ucciso l’autore, legato ad Hamas. Il figlio di Sarah era però già morto.
Prima dell’alba di ieri un altro blitz portava all’uccisione nel campo profughi di Askar, accanto a Nablus, di una altro sospetto terrorista, autore della strage nella zona industriale di Barkan all’inizio di ottobre. La reazione dei militanti è stata però massiccia. Nella prima mattinata due soldati di pattuglia a Gerusalemme vecchia venivano feriti a coltellate, l’assalitore ucciso sul posto. Poi l’attacco più grave, all’incrocio di Givat Asaf sulla superstrada 60, ancora vicino all’insediamento di Ofra. Un palestinese ha bloccato la sua auto, è sceso e ha sparato sui soldati di guardia. Due sono rimasti uccisi. Il killer è fuggito a piedi. Infine, al check-point di Be El una palestinese ha investito un soldato, ed è stato ferito gravemente.
Il premier Benjamin Netanyahu ha promesso «che chiunque ha commesso l’attacco pagherà, i nostri nemici sanno che li troveremo». Anche il presidente palestinese Abu Mazen è intervenuto per «respingere la violenza, nella convinzione che entrambe le parti ne paghino il prezzo». E’ partita una nuova caccia all’uomo, ma la spirale in Cisgiordania preoccupa. Da ottobre, nota l’analista militare Amos Harel, ci sono stati dai quattro agli otto attacchi al mese, una media superata di molto nella prima metà di dicembre. I servizi interni, lo Shin Bet, temono di trovarsi di fronte a una fenomeno «ibrido», un misto fra i lupi solitari protagonisti dell’Intifada «dei coltelli» cominciata nell’ottobre 2015, e una rete organizzata come quella della Seconda Intifada. Un rete fatta di micro cellule, che non presuppone un’affiliazione dichiarata, e si basa soprattutto sui legami famigliari come supporto. Una minaccia di un nuovo tipo che richiede una nuova strategia di contrasto.

il manifesto 14.12.18
Manuela D’Avila, lampi di sinistra brasiliana nel ciclone Bolsonaro
L'intervista. «Se abbiamo perso è per le nostre incapacità, non solo per la forza della destra. Ma l’autocritica ora va fatta con la prassi». Candidata alla vicepresidenza con Haddad, l’astro nascente del PCdoB analizza la sconfitta e racconta il regime che verrà. «Stiamo vivendo una crisi strutturale in cui il capitalismo ha sempre meno bisogno della democrazia e tutto si sposta sulla disputa per le risorse naturali»
intervista di Claudia Fanti


Per molti Manuela D’Avila sarebbe stata un’ottima vicepresidente del Brasile. Astro nascente della sinistra brasiliana insieme a Guilherme Boulos del Psol, l’appena 37enne deputata federale di Porto Alegre, lanciata dal suo partito, il PCdoB (Partito Comunista del Brasile) come pre-candidata alla presidenza, aveva rinunciato in agosto a una candidatura propria optando per una coalizione con il Pt, di cui il PCdoB è sempre stato alleato. Sostenitrice della necessità di un’alleanza tra tutti i candidati progressisti, Manuela avrebbe dovuto presentarsi in coppia con Lula, che l’aveva scelta preferendola a molti altri nomi.
Ma il sogno della sinistra di un «Brasile felice di nuovo» ha lasciato spazio al peggiore degli incubi. Dalle dichiarazioni di guerra di Bolsonaro – contro la sinistra, i senza terra, gli indigeni, l’ambiente – alla sottomissione già annunciata agli interessi degli Stati uniti, per finire con l’incompetenza e l’improvvisazione di cui sta già dando prova la futura compagine governativa, tutto indica che i prossimi quattro anni saranno per il Brasile uno dei periodi più oscuri della sua storia.
Ne abbiamo parlato con Manuela D’Avila, la giovane candidata alla vicepresidenza in coppia con Fernando Haddad, in visita in Italia su invito di Rifondazione comunista, che per lei ha organizzato due incontri pubblici: uno a Napoli, che si è svolto ieri con la partecipazione del sindaco Luigi de Magistris, e uno a Roma, che si terrà oggi alle 18 alla Casa Internazionale delle Donne, con la presenza di Luigi Ferrajoli e dell’europarlamentare Eleonora Forenza.
Tra annunci, smentite e scandali vari, iniziano a sorgere i primi dubbi sulla tenuta del prossimo governo. Riuscirà il governo Bolsonaro a restare in piedi per quattro anni?
All’interno del futuro governo è facile cogliere già molte contraddizioni tra le varie anime della destra, insieme alla mancanza di uno spazio di dialogo e a una tendenza a penalizzare il potere legislativo. E tutto ciò potrebbe tradursi in un inasprimento del discorso del presidente contro le forze progressiste. Perché, nella misura in cui faticherà a conservare la compattezza interna, avrà bisogno di tenere uniti gli alleati attorno a quella che è stata la sua principale bandiera elettorale: l’odio contro la sinistra e i movimenti popolari.
I primi passi di quella che non a caso è stata chiamata «armata Bolsoleone» sono risultati disastrosi per l’immagine del Brasile. Cosa pensa delle nomine dei ministri da parte del presidente eletto?
La presenza di militari nel governo supera quella di qualsiasi altro periodo della storia brasiliana. Ma il discorso d’odio viene maggiormente da altri settori. Ho l’impressione che le persone, concentrandosi di più sulla forte componente militare del governo, trascurino il carattere violento e autoritario degli altri ministri. Abbiamo per esempio un ministro dell’Ambiente, Ricardo Salles, che ha definito «irrilevante» la questione del riscaldamento globale, indicando «l’uso del fucile» come forma di soluzione dei conflitti con la sinistra e con i senza terra. Abbiamo una ministra della Donna, della famiglia e dei diritti umani, la pastora evangelica Damares Alves, che propone una riforma della legislazione sull’aborto per obbligare a partorire le donne vittime di violenza sessuale, in un Paese in cui si registra uno stupro ogni 11 minuti. Abbiamo, ancora, una ministra dell’Agricoltura, Tereza Cristina, già a capo della potente bancada ruralista, nota per la difesa incondizionata degli interessi dei latifondisti, e un ministro degli Esteri ammiratore di Trump, Ernesto Araújo, che ha annunciato l’uscita del Brasile dal Patto globale sulle migrazioni. E parliamo di un paese che ospita più italiani di quanti ve ne siano a Roma e più libanesi che il Libano.
Lo scandalo delle transazioni sospette sul conto dell’ex autista di Flávio Bolsonaro, Fabrício Queiroz – compreso un versamento di 24mila reais a favore della moglie del futuro presidente -, coinvolge in pieno tutta la famiglia dell’ex capitano. Anche in questo caso l’organo giudiziario guarderà da un’altra parte?
Per avere un’idea delle proporzioni dello scandalo, basti pensare che il denaro passato per il conto di Fabrício Queiroz supera il prezzo dell’immobile attribuito a Lula per il quale l’ex presidente è stato condannato. E in questo caso parliamo dell’autista del figlio del presidente eletto, che per di più vive in una casa povera di Rio. Oltretutto, l’organismo di controllo finanziario disponeva di queste informazioni prima che si svolgessero le elezioni presidenziali, ma è soltanto ora che le ha rese pubbliche. Ha adottato, cioè, una linea opposta a quella seguita dal giudice Sérgio Moro, il quale ha divulgato le denunce rivolte contro Lula dal suo ex ministro dell’Economia Antonio Palocci a meno di una settimana dal primo turno. Del resto, la nomina di Moro a ministro della Giustizia è la conferma della tendenza in atto alla giudiziarizzazione della politica.
Come si spiega che dopo 13 anni di governo del Pt il popolo abbia finito per votare Bolsonaro? Non significa forse che a livello di formazione politica e di organizzazione della classe lavoratrice la sinistra ha sbagliato qualcosa?
Noi siamo stati sconfitti sul piano della narrazione relativa alle responsabilità della crisi economica. È a partire dalle manifestazioni di protesta del 2013 che l’élite brasiliana ha iniziato a imporre, dietro la bandiera della lotta alla corruzione, un discorso fortemente conservatore e antidemocratico. E malgrado Dilma abbia vinto le presidenziali nel 2014, l’opposizione le ha di fatto impedito di governare, bocciando tutte le misure dirette a condurre il paese fuori dalla recessione, che era dovuta alla crisi economica internazionale. Finché, nel 2016, non è riuscita a rovesciarla e a dare vita a un governo che, a colpi di riforme ultraneoliberiste, non ha fatto altro che aggravare la crisi. Ma sempre sulla base di una versione che ha scaricato la colpa della recessione sulla sinistra e sul governo Dilma, anziché sulla crisi del capitalismo globale.
Ma c’è spazio anche per un’autocritica?
Se abbiamo perso, non è solo per la forza della destra, ma anche per le nostre incapacità, a partire dall’errore di non aver puntato su forme di comunicazione diretta con la popolazione. Ma l’idea che l’autocritica debba essere fatta in sala riunioni e scritta su carta è anti-rivoluzionaria. La sinistra fa autocritica a livello di prassi. Nel nostro programma abbiamo già esposto successi ed errori. Ma ricondurre l’impeachment agli errori della sinistra significa disconoscere come opera il capitalismo, come si organizzano le élite e come al centro del processo politico ci sia quella cosa chiamata lotta di classe. Stiamo vivendo una crisi strutturale in cui il capitalismo ha sempre meno bisogno della democrazia e tutto si sposta sulla disputa per le risorse naturali. Perché tanta attenzione sul Venezuela? Perché possiede enormi giacimenti di petrolio e condivide la frontiera con il Brasile lungo la regione amazzonica, ricca di acqua, biodiversità, ricchezze minerarie.
Quali sfide attendono la sinistra?
In Parlamento, l’opposizione sarà chiamata a contrastare le misure che adotterà il governo, a partire dalla privatizzazione delle risorse strategiche del nostro paese. Ma, allo stesso tempo, il nostro sforzo dovrà essere diretto a costruire un fronte ampio, e non solo di sinistra, in difesa della democrazia. Perché, con un presidente che annuncia una persecuzione formale delle organizzazioni di sinistra e una serie di ministri impegnati a portare avanti un discorso pieno d’odio contro le forze progressiste e a considerare omicidi come quello di Marielle Franco come «cose della vita», non sono solo le conquiste sociali ottenute negli ultimi anni a essere minacciate, ma lo stesso tessuto democratico del paese.

La Stampa 14.12.18
In missione con gli archeologi italiani per salvare le antichità del Maghreb
di Nicola Pinna


Non è solo un lavoro di piccozza e cazzuola. Smuovono la terra e allo stesso tempo fanno un’opera ben più difficile, gli archeologi e gli storici italiani. Nel Nord Africa scombussolato da rivolte, governi instabili e integralisti, la missione scientifica ha un secondo obiettivo, che in realtà è perfettamente complementare al primo. «Salvare il patrimonio culturale, proteggerlo e valorizzarlo è un’operazione diplomatica, di cooperazione. Non solo di scavo e studio», ripetono come un mantra gli esperti.
Nella Tunisia che si è pentita della primavera araba, la bandiera italiana non si è mai ammainata: «Sono andati via i francesi e tutti gli altri, ma gli italiani non ci hanno abbandonato», dice Bechir, uno dei custodi del parco archeologico di Dougga, una città fondata nell’VIII secolo avanti Cristo e che dista da Tunisi quasi due ore di macchina: «Dietro a questo cancello c’è l’ultimo reperto che gli amici italiani ci hanno consegnato, un’importante iscrizione del periodo romano. Un altro tesoro portato alla luce da loro».
Nella Libia in fiamme
In Libia l’equipe dell’Università di Macerata ha fatto i bagagli in fretta e furia tre giorni prima del bombardamento del 2011, ma il lavoro non si è mai fermato.
«Anche a distanza continuiamo a occuparci dei siti che avevamo preso in carico - racconta Maria Antonietta Rizzo, docente di Etruscologia e antichità italiche - Insieme ai colleghi di Napoli, Roma, Urbino, Chieti, Catania e Palermo, e con l’aiuto prezioso dei libici, seguiamo quotidianamente i restauri e la conservazione. Attenti che nulla, in un momento così a rischio, venga compromesso. Intanto, proprio in queste settimane un gruppo sta tentando di tornare a Tripoli per concludere quel lavoro iniziato nel 1962».
Qualcuno la considera una missione di pace senza militari e di certo c’è che il grande lavoro degli studiosi italiani contribuisce a salvaguardare lo sterminato patrimonio che racconta delle vecchie province romane e parecchio della nostra storia.
L’asse italo-tunisino
Attilio Mastino, ex rettore a Sassari, è considerato uno dei massimi esperti delle vicende più antiche dell’Africa: «In Tunisia le nostre missioni scientifiche sono partite nel 1983. Ora, nonostante le note vicende politiche, continuiamo a lavorare: a Cartagine, ma anche nei siti di Uchi Maius, Neapolis, Althiburos, Uthina e Thignica. Da quando gli assetti politici sono cambiati, non facciamo solo ricerca sul campo ma puntiamo a far crescere la consapevolezza del valore del patrimonio tra le autorità locali».
«Noi siamo molto grati e anzi partecipiamo con entusiasmo, nonostante le poche risorse - risponde Faouzi Mahfoudh, direttore dell’Istituto nazionale del patrimonio di Tunisi - La cooperazione è una garanzia per la storia e un’opportunità per i nostri studiosi». La Farnesina sostiene economicamente la grande parte della ricerca scientifica all’estero e l’Istituto italiano di cultura è il raccordo tra le università in campo e le autorità locali. Diplomazia applicata alla cultura, che nella Tunisia post-rivoluzione è opera dalla direttrice dell’Istituto Maria Vittoria Longhi. E finanziata anche da fondazioni e altri istituti.
A iniziare dalla Scuola italiana di archeologia di Cartagine, che proprio a Tunisi ha riunito centinaia di archeologici, storici ed epigrafisti per fare il punto sulle ultime ricerche e scrivere le nuove pagine di un libro infinito.
«La scuola è diventata punto di raccordo e coordinamento di tutti gli studiosi impegnati nella ricostruzione della storia africana - sottolinea con orgoglio Sergio Ribicchini, che dal 1976 ha lavorato da queste parti per conto del Cnr - Di questa grande comunità scientifica fanno parte 170 esperti di tutta Italia, ma anche molti altri provenienti dall’estero».
Gli scavi intanto continuano a riservare sorprese. A Uchi Maius, una città monumentale riscoperta nei primi anni Ottanta a sud ovest della capitale, l’equipe del professor Marco Milanese ha deciso di fare un tipo di ricerca inedita. «Quasi sempre si sceglie di ritrovare ciò che resta dei fasti più antichi, quelli dell’epoca romano, trascurando i periodi successi. Di quelle epoche, infatti, tanto è andato perduto. Ecco, noi abbiamo preferito concentrarci sullo studio della vita di Uchi Maius ai tempi della colonizzazione araba e berbera. Da questo lavoro si vede con chiarezza come fosse cambiato lo scenario urbano: dalla città perfetta e sfarzosa alla successiva ruralizzazione».
A Neapolis, l’area archeologica vicina alla città di Nabeul, nella penisola del Capo Bon, i quartieri, il porto, il teatro e le industrie dell’antica città romana sono completamente sott’acqua. E i sub-archeologi hanno ricostruito con precisione l’assetto di un insediamento esteso circa 20 ettari. Dal 2009 hanno lavorato qui più di 100 ricercatori italiani, coordinati dai professori Raimondo Zucca e Piergiorgio Spanu, ma anche molti tunisini, guidati da Mounir Fantar, un figlio d’arte che il mondo accademico considera una specie di autorità.
«Il successo delle missioni italo-africane è semplice da spiegare - sostiene Fantar - Il primo aspetto è che abbiamo nel sangue una storia comune, il secondo è che anche in un lavoro scientifico si riesce a valorizzare l’aspetto umano. E per questo speriamo che i vostri archeologi continuino a lavorare con noi».

Repubblica 14.12.18
La vera storia del “nonno” di Frankenstein
di Michele Mari


William Godwin era il padre di Mary Shelley. Ma anche l’autore di “Caleb Williams”, un romanzo quasi dimenticato, ora ristampato, che anticipa le atmosfere del capolavoro della figlia uscito duecento anni fa
“Nonno di Frankenstein”, nel senso che la futura Mary Shelley era sua figlia, William Godwin (1756-1836) costituisce un curioso caso di perbenismo radicale. Rappresentante dell’alta società inglese e cultore delle sue “buone maniere”, avverso a ogni forma di violenza, Godwin sognava un mondo senza governi e senza prigioni, un mondo pacificamente anarchico in cui l’uomo, debitamente educato, sapesse autoregolarsi secondo le sue quasi illimitate potenzialità.
A questa utopia dedicò tutta la vita, con saggi, articoli, conferenze e diversi romanzi, il primo dei quali è senz’altro il più bello. Apparso nel 1794, subito dopo un ponderoso saggio che denunciava gli abusi del sistema giudiziario britannico, Caleb Williams (ripubblicato ora da Theoria, traduzione di Romina Bicicchi) vogliono mettere il lettore di fronte all’orrore e all’angoscia che nascono da questi abusi, e lo fanno con uno stile in parte ancora settecentesco, fatto di digressioni e di commenti, in parte già romantico, con una spiccata propensione per l’incubo e il raccapriccio.
Caleb Williams, per quasi mezzo romanzo, non esiste: è semplicemente la voce narrante, che si affida oltretutto a narratori di secondo grado. Qui i protagonisti, talmente opposti l’uno all’altro e però magneticamente e fatalmente attratti l’uno dall’altro come le due anime di un doppio, sono l’impeccabile Falkland e il vilain Tyrrel, due proprietari terrieri che sfruttano ogni occasione per farsi la guerra e provocarsi. Arrogante, violento, facinoroso, Tyrrel getta sul lastrico i propri fittavoli, corrompe, calunnia, rovina le reputazioni e le persone, fa morire di crepacuore e di consunzione la giovane cugina da lui promessa in sposa a uno dei propri sgherri, insomma è un mostro, la cui unica nota di umanità consiste nel patire morbosamente la propria inferiorità antropologica rispetto a un angelo di bontà e di stile come Falkland, l’unico che sappia tenergli testa e confonderlo con le proprie buone maniere, appunto.
Buono ma non stupido, Falkland, che in cuor suo sa di essere atteso dall’unica soluzione possibile: un duello all’ultimo sangue. Fin qui, nel suo contrasto manicheo, il romanzo ha più del romance che del novel, ma le cose cambiano improvvisamente: Falkland viene poco decorosamente malmenato in pubblico dal suo rivale, che poche ore dopo è trovato morto.
Sfumata la possibilità di una solenne vendetta, Falkland, oltretutto sospettato del vile assassinio, incomincia un lungo viaggio nella pazzia: il senso dell’onore, in lui quasi una forma d’arte, lo tormenta e lo stravolge, trasformandolo a poco a poco in un demone ossessionato. Così questo gentiluomo che sembrava uscito dal Libro del Cortegiano di Baldassar Castiglione e che, come Don Chisciotte, aveva letto troppi romanzi cavallereschi, diventa una specie di capitano Achab, solitario, misantropo, arso dal di dentro, più simile a uno spettro che a un uomo: «lui, che era vissuto di grandiose e sublimi fantasie, sembrava che ora non avesse altre visioni se non di angoscia e disperazione».
E Caleb? Al servizio di Falkland fin da ragazzo, Caleb commette la leggerezza di indagare nel passato del padrone, che dopo essersi ammantato nei propri misteri decide di accontentarlo nel modo più perfido: gli svela tutto (cosa che noi non faremo) a patto di legarlo a sé per la vita e per la morte. Schiacciato dal peso della rivelazione, Caleb cercherà di licenziarsi, poi di fuggire, ma sempre la lunga mano di Falkland (che nella seconda parte del libro assurge a gigantesco demiurgo del male, alla maniera del Vathek di Bedford o del Melmoth di Maturin) lo raggiunge e lo punisce, facendolo imprigionare sotto false accuse. Incomincia così il calvario del narratore, che evade ingegnosamente dalle prigioni solo per essere nuovamente incarcerato in condizioni peggiori. Il suo destino, è sempre più evidente, non è separabile da quello del suo persecutore («tutte le vicende della mia vita sono indissolubilmente legate alla sua storia: per colpa delle sue sventure, la mia felicità, la mia reputazione e la mia esistenza sono state irrimediabilmente distrutte»), anche perché entrambi sono dominati da un senso altissimo della “reputazione”, idolo fantastico che ha snaturato Falkland e che, nella speranza di poterne provare l’innocenza e il buon nome, aveva spinto l’adorante Caleb all’opera di investigazione. Così, quando nel finale Caleb ha la possibilità di ristabilire la propria reputazione ai danni di quella di Falkland, fa un passo avanti e due indietro, ritratta e si contraddice, e assumendo sul proprio capo tutte le nefandezze di Falkland entra volontariamente nel ruolo non solo del colpevole ma anche dell’infame. Vittima e carnefice hanno confuso i loro ruoli per sempre, in ossequio alla pulsione masochistica che scorre sotto tutto il romanzo.
Romanzo gotico, certo; antesignano del giallo moderno; variazione rousseauiana sui mali procurati all’individuo dalla società: tutto vero, a patto di saper cogliere, nel sorriso di Rousseau, il ghigno del marchese de Sade (l’ultimo decennio del ’700 del resto è il suo decennio). Da qui alla smorfia della creatura di Frankenstein il passo non è poi tanto lungo.

Repubblica 14.12.18
Perché la parola istituzione non fa più rima con Stato
di Roberto Esposito


A un secolo dalla prima uscita, torna “L’ordinamento giuridico” di Santi Romano
Acento anni esatti di distanza dalla sua prima stesura, l’editore Quodlibet ripubblica L’ordinamento giuridico di Santi Romano (1875-1947), a cura di Mariano Croce. Considerato uno dei più grandi testi giuridici novecenteschi, il libro di Romano fu riedito nel 1946 da Sansoni in un’edizione ormai introvabile e tradotto in tedesco, francese, spagnolo, inglese e brasiliano. Ma a segnalarne l’assoluto rilievo è stato Carl Schmitt che, in un saggio del 1934 su I tre tipi di pensiero giuridico – normativista, decisionista e istituzionalista – lo colloca alle origini di quest’ultimo. Anziché la norma o la decisione, l’istituzionalismo pone al centro dell’orizzonte giuridico quello che Schmitt definisce «ordinamento concreto» o, appunto, «istituzione». Ma qual è la novità dirompente che questo approccio al diritto comporta?
Per capirlo dobbiamo sottrarci all’abitudine mentale inveterata che ci porta a ricondurre ogni istituzione nell’orbita dello Stato: lo Stato come unica, o almeno la prima delle istituzioni, contenente tutte le altre.
È proprio questo presupposto che Santi Romano contesta. Fin dal saggio del 1909, intitolato Lo Stato moderno e la sua crisi, egli riconosce con straordinaria preveggenza le crepe che si vanno aprendo nella macchina statale, intesa come sede unica del potere politico e della produzione di diritto.
Nonostante il consolidamento della democrazia, testimoniato dall’allargamento del suffragio elettorale, già agli inizi del Novecento lo Stato liberale comincia a perdere il monopolio delle decisioni politiche e delle norme giuridiche. Sia al suo interno che all’esterno crescono altri organismi – partiti, sindacati, organizzazioni finanziarie, associazioni civili – che esercitano un peso sempre maggiore, destinato in breve tempo a spezzare la bipolarità esclusiva tra Stato e cittadini. Tra l’uno e gli altri s’insediano ormai una serie di istituzioni che esprimono dinamiche e conflitti sociali a fianco e talora anche oltre l’organismo statale. Diritto e Stato non fanno più rima, come sostiene Widar Cesarini Sforza in un altro libro importante del 1929, Il diritto dei privati, anch’esso adesso ripubblicato da Quodlibet a cura di Michele Spanò. Se il diritto plasma la vita, questa a sua volta produce e trasforma il diritto.
La tesi, assolutamente originale, di Santi Romano è che ogni istituzione ha lo stesso grado di legittimità di quella statale. Da un punto di vista formale – cioè giuridico – lo Stato è un ordinamento portatore di diritto non più di qualsiasi altra organizzazione collettiva, di una congregazione religiosa, una società sportiva o perfino una banda criminale. Naturalmente quest’ultima si colloca fuori dall’ordine legale ed etico, ma senza perdere il proprio carattere di giuridicità interna.
Oltre al fatto – aggiunge Romano – che un’associazione che si proponesse di rivoluzionare uno Stato non conforme ai principi di giustizia «dovrebbe essere giudicata in modo più favorevole che lo Stato stesso». Si può immaginare il peso di dichiarazioni del genere pronunciate non solo da uno dei fondatori del diritto costituzionale italiano, ma anche da colui che, in pieno regime fascista, ha occupato il ruolo di presidente del Consiglio di Stato dal 1929 al 1943. Nominato Senatore del Regno e Accademico dei Lincei, Santi Romano non aderì nel 1944 alla Repubblica Sociale Italiana. Ma ciò non gli evitò, a guerra finita, di essere accusato di aver appoggiato il fascismo e di essere radiato dall’Accademia dei Lincei. Come osserva il curatore nella postfazione, evidentemente Romano sopravvalutò l’autonomia della tecnica giuridica, immaginando di potere gestire il rapporto con un regime che aveva sottomesso completamente il diritto alla politica – alla propria politica. Ma ciò non toglie niente della formidabile attualità del suo saggio. Egli colse, con quasi cento anni di anticipo, non soltanto l’indebolimento dello Stato nei confronti di istituzioni e ordinamenti che sempre più ne sfidano le prerogative esclusive.
Ma anche il ruolo creativo di nuovi ordini normativi che i linguaggi del diritto possono esercitare in una situazione di transizione dall’antico monopolio degli Stati sovrani a una nuova trama di relazioni sociali nazionali e internazionali.

Repubblica 14.12.18
Dall’America alla Cina il futuro è nelle mappe
di Luigi Gaetani


Le carte ci dicono molte cose, ma bisogna saperle scegliere e saperle leggere» avverte Federico Rampini all’inizio della prima puntata di Geostorie, il nuovo programma in onda ogni venerdì fino al 25 gennaio su Rai Storia. Sei episodi ideati e condotti dal corrispondente di Repubblica da New York – il primo andrà in onda stasera alle 22.40 e in replica all’ 1.30 su RaiNews – con un obiettivo ambizioso: proporre al pubblico una lettura dei grandi temi geopolitici con l’ausilio di foto e filmati d’epoca ma anche, e soprattutto, di mappe “parlanti”. Tavole su cui sono segnati i confini politici e gli snodi strategici, ma anche visioni del globo che tengono conto di aspetti come tecnologia, ricchezza, sviluppo demografico.
Ecco che allora, nella prima puntata dedicata agli Stati Uniti, attraverso l’evoluzione delle carte geografiche è possibile ricostruire l’espansione delle originarie Tredici colonie verso Ovest, fino all’emergere, a fine Ottocento, della vocazione imperiale del paese. A riprova del fatto che non può esistere una Storia che non tenga conto della geografia, una ricognizione a volo d’uccello sugli sterminati territori americani serve a farsi un’idea delle immense risorse naturali di una nazione-continente, che ha fondato la propria egemonia prima di tutto sulle caratteristiche del suo territorio e che proprio grazie alla sua posizione geografica – protetta da due oceani – ha potuto facilmente ereditare dalla Gran Bretagna il ruolo di massima potenza marittima globale. Un rapporto, quello con l’antica madrepatria e, più in generale, con il Vecchio continente, ancora oggi “privilegiato”, come dimostra un’altra carta significativa, quella su cui sono indicati, con tante minuscole linee rosse, gli scambi di informazioni attraverso l’Atlantico, fittissimi come ai tempi di Guglielmo Marconi.
Ed è ancora un planisfero, sul quale sono evidenziate le basi strategiche della U.S. Navy – da Napoli fino all’estremo Oriente – a motivare il quesito sul quale è costruita la puntata: l’impero americano sta per finire? Una domanda strettamente legata all’argomento dell’episodio successivo dedicato alla grande potenza emergente, la Cina. Siamo entrati nel secolo del Dragone?
Al centro del planisfero del futuro ci sarà, come vorrebbe la visione confuciana del mondo, Pechino? Si potrebbe rispondere prendendo in prestito (per una volta) il gergo dell’arte divinatoria: il futuro è nelle carte.

Il Fatto 14.12.18
Aranzulla: “Cara Ferragni: voi influencer finirete, ma i miei tutorial no. E adesso fatturo più di 3 milioni all’anno”
Vita da… Aranzulla, l’uomo delle guide on line
di Lorenzo Giarelli


Lavora sul web e fattura milioni di euro, ma guai a chiamarlo influencer. Men che mai youtuber, lui coi video non c’entra nulla. “Scrivo guide semplici per rispondere alle domande della gente sulla tecnologia”. Come si installa una stampante? Come si elimina un messaggio da Whatsapp? Come si recupera una foto cancellata? Qualsiasi domanda informatica scritta con questa formula elementare su Google, restituisce tra i primi risultati il sito Aranzulla.it , creato nel lontano 2002 da Salvatore Aranzulla, che di anni ne ha solo 28 (allora ne aveva solo 12) e che con quell’intuizione è diventato la Bibbia vivente sulle tecnologie per milioni di utenti.
Salvatore Aranzulla, non ci dica che per avere successo adesso basta essere smanettoni e aprire un blog.
Non proprio. Mica è stato facile all’inizio.
E allora ci dica, come è partito?
Devo ringraziare mio cugino Giuseppe, che nel 2000 mi prendeva in giro perché lui aveva un computer in casa e io no. Iniziai a fare i capricci coi miei finché, un paio d’anni dopo, non me ne regalarono uno. Non avevo la più pallida idea di come si utilizzasse.
Ha imparato da solo?
Sì, abitavo a Mirabella Imbaccari, nel mezzo della Sicilia, figurarsi se avevo un tecnico a portata di mano. Risolvevo da solo i problemi al mio computer, poi ho iniziato a aiutare i miei compagni di scuola. Si era sparsa la voce e mi portavano a casa loro con la forza.
Sarebbe stata una vita più movimentata.
Quando ho visto che più persone mi facevano le stesse domande ho iniziato a stampare le risposte e a ri-utilizzarle. Avevo una cartellina con tutte le soluzioni ordinate: non ti funziona la stampante? Ecco a te. Vuoi masterizzare un cd? Un altro foglio. Aranzulla.it è iniziato distribuendo a mano le guide.
Quando arriva internet?
Nel 2002, e aprii subito il sito. Funzionava con una connessione lentissima e appena mi disconnettevo spariva dal web. Ogni volta che accendevo la linea sembrava decollasse un aereo.
In casa sapevano di questa sua passione?
Se ne sono accorti quando è arrivata la bolletta: una volta ci chiesero un importo che era tre volte lo stipendio di mio padre. Fu allora che mi tolsero la connessione, mi comprai un cavetto e usavo internet di nascosto ogni volta che i miei uscivano di casa.
Fin qui è un ragazzo come tanti. Cosa ha reso il suo sito una macchina da soldi?
La prima svolta è nel 2008, quando mi iscrissi al servizio Adsense. Ti permette di inserire un codice nel sito e da quel momento Google può vendere pubblicità nel tuo spazio. Non avevo idea di come sarebbe andata, era difficile quantificare, ma ricordo la sorpresa quando arrivò il primo assegno dall’America: era di quasi tremila dollari.
Non sono pochi, ma oggi su che cifre viaggia?
Adesso fatturo più di 3 milioni all’anno.
Il trucco?
A un certo punto ho smesso di scrivere pensando alle domande che mi ponevo io o che si facevano i miei amici e ho iniziato a analizzare le parole più ricercate dagli utenti sui motori di ricerca. Ho creato un sistema che individua le tendenze su Google: se tra le ricerche frequenti c’è “come scaricare musica da internet” o “come tagliare un video”, questo strumento me lo segnala. E le richieste della gente diventano i miei articoli, che nel titolo riprendono senza giri di parole quelle ricerche.
Oggi quante guide contiene il sito?
Siamo a novemila, lette ogni giorno da circa 700 mila persone. Aranzulla.it è tra i trenta siti più consultati in Italia.
Si ricorda la prima delle novemila?
Credo sia una cosa su come installare la stampante, erano i tempi in cui iniziavano a abbassare i prezzi e allora tutti se la mettevano in casa.
Ora che è milionario scrive ancora consigli per imbranati digitali?
No, da qualche anno ho smesso di scrivere io le guide, ma gestisco il sito, mi occupo dello sviluppo tecnologico, organizzo eventi e coordino i collaboratori esterni, che sono una decina.
E quando Aranzulla non sa fare qualcosa, a chi la chiede?
A volte cerco su Google e compare un vecchio articolo del mio sito, dove trovo la soluzione. Altrimenti chiedo ai miei collaboratori: loro sanno tutto.
Niente cambia in fretta quanto le tecnologie. Ci sarà sempre bisogno di un Aranzulla?
Credo di sì, le persone cercano sempre risposte semplici ai problemi di tutti i giorni. Quello che può cambiare sono i contenuti: fino a qualche anno fa scrivevamo soprattutto di computer, adesso c’è gente che non lo usa neanche più e ci dobbiamo occupare di cellulari, assistenti vocali e cose del genere.
Fa parte di una generazione in cui molti hanno fatto fama e soldi col web. Si sente un influencer?
Io mi baso sui contenuti, non sull’immagine. Ho molti dubbi sulla sostenibilità a lungo termine delle carriere da youtuber e influencer di moda. Hanno un ricavato immediato, ma non apportano un valore aggiunto. E poi operano su piattaforme messe a disposizione da terzi. Dico un paradosso: un giorno Facebook e Instagram possono svegliarsi e decidere di cambiare gli algoritmi o di chiudere il profilo a Chiara Ferragni. Io invece ho un mio sito, posso decidere che farne.
Lei ha solo 28 anni. Idee su che fare da grande? La tv? O magari la politica?
Tutt’altro: ho studiato pasticceria a livello professionale all’Alma di Gualtiero Marchesi. Il mio piatto forte sono le paste di mandorla siciliane, anche se qui a Milano non ho tutta l’attrezzatura per cucinare come vorrei. Ma un giorno chissà, qualche mezza idea ce l’ho.

https://spogli.blogspot.com/2018/12/ucciso-il-killer-dellattentato.html