Repubblica Robinson 2.12.18
Jung Lacan uniti nella lotta
Uno mistico e l’altro logico fondarono scuole opposte. Eppure, grazie alle immagini, alleate in una guerra. Contro la "Iocrazia"
di Massimo Recalcati
Jung
e Lacan sembrano essere agli antipodi: il primo è attratto dalle forze
irrazionali, il secondo dalla logica, dalla topologia, dai grafi, dai
mathemi; il primo è un visionario, figlio della mistica ( religione,
alchimia, mitologia), il secondo uno strutturalista che ha alle spalle
la linguistica di Saussure e l’antropologia di Lévi-Strauss oltre alla
grande stagione dell’illuminismo. Il primo pone l’inconscio come
composto da immagini (innanzitutto archetipiche e collettive); il
secondo lo vede "strutturato come un linguaggio". Ma questi due mondi
così lontani sembrano paradossalmente incrociarsi nel modo di intendere
l’esperienza dell’analisi: in essa non è in gioco una semplice
terapeutica, ma una trasformazione radicale del soggetto ai limiti della
perdita di sé e della depersonalizzazione. Per il mistico Jung e per il
logico Lacan la posta in gioco di una analisi non consiste affatto in
un rafforzamento muscolare dell’Io, in una adesione acritica al regime,
come l’ha ironicamente battezzato Lacan, dell’" Iocrazia", quanto
piuttosto nella sua dissoluzione. Il che significa che la malattia
mentale non ha origine da un deficit dell’Io, ma da un suo sviluppo
ipertrofico.
In questo movimento di avvicinamento paradossale tra
due mondi considerati lontanissimi, una parte decisiva è giocata dal
ruolo attribuito alle immagini. Già Freud aveva riservato una attenzione
nuova all’immagine attribuendole un potere inedito. In gioco non era
più la vitalità esuberante dell’immaginazione romantica, quanto
piuttosto l’immagine come canale che collega la vita della coscienza a
quella dell’inconscio. Per Freud questa era la lezione fondamentale del
sogno: l’apparizione — in una trama narrativa — di immagini il cui
potere consisteva nel raffigurare un desiderio inconscio respinto dalla
coscienza. L’immagine come ponte che mantiene in connessione il
desiderio rimosso alla coscienza che lo rimuove. La sua natura non è
quella di rispondere a un simbolismo ingenuo ( sognare un leone
significa sognare il padre), ma quello di realizzare la " condensazione"
( Verdichtung) di una pluralità di significazioni possibili. È questo
il rapporto stretto che l’immagine onirica intrattiene con il linguaggio
poetico. Non a caso, infatti, nella lingua tedesca poesia si dice
Dichtung. Tuttavia per Freud le immagini restano innanzitutto delle
"mascherature" del desiderio inconscio prodotte dall’azione censoria del
lavoro onirico. È questo il punto dove si aggancia la critica junghiana
e lacaniana: le immagini oniriche non sono maschere, ma luoghi di
rivelazione della verità più profonda del soggetto. In particolare è
Jung a enfatizzare in modo singolare il potere delle immagini.
L’incontro con l’immagine è incontro con il " numinoso", con
l’apparizione di una forza che trascende quella della coscienza. "
L’accesso al numinoso — scrive — è la vera terapia". Solo quando si
arriva " all’esperienza numinosa si è salvati dalla maledizione della
malattia."
L’opzione di fondo di Jung consiste innanzitutto nel
liberare l’immagine dalla sua origine narcisistica. Non si può ridurre
la potenza generatrice dell’immagine all’immagine speculare del proprio
Io. Una cura analitica non consiste nel rafforzare il potere dell’Io, ma
nel suo più radicale svuotamento. In questo il percorso di Jung
interseca quello di Lacan: per entrambi l’esperienza dell’analisi non
consiste in una bonifica delle zone paludose dell’inconscio ma nella
riabilitazione del suo potere. Essa non è un esercizio di padronanza
dell’Io sull’inconscio ma diviene una esperienza, come direbbe
junghianamente Lacan, di " crepuscolo dell’Io". Per questa ragione per
Jung le immagini non sono scorie irrazionali che devono essere
civilizzate dall’azione dell’ideazione razionale, del logos, ma sono
esse stesse logos, manifestazioni potenti della trascendenza della vita
che affondano le loro radici in un sostrato archetipico. Ma in gioco non
è una semplice mistica delle immagini. Il punto etico sul quale sia
Jung e Lacan insistono consiste nel fatto che il soggetto è sempre
tenuto a rispondere alle indicazioni e alle aperture che scaturiscono
dalle immagini dell’inconscio. Non è l’Io che governa le immagini, ma
l’Io ha il dovere etico di accogliere in sé, di lasciarsi guidare dalla
loro forza generatrice. L’immagine indica l’orizzonte di verità al quale
il soggetto nell’analisi deve corrispondere se non vuole cadere
nell’alienazione narcisistica del proprio Io. Perdersi nell’immagine è
dunque un modo per ritrovarsi senza più la pretesa di governare la
potenza inesauribile della vita. In un tempo come il nostro che esalta
la furia devastatrice dell’Iocrazia fare esperienza della perdita di sé
suona come un antidoto anche politico: parafrasando la famosa massima di
Freud ("dove era l’Es deve subentrare l’Io"), si potrebbe dire —
junghianamente — che dove era l’immagine inconscia, il soggetto ha il
compito etico di avvenire.