lunedì 3 dicembre 2018

Repubblica Robinson 2.12.18
Checi fa Clee nel Libro Rosso
Criticò Picasso e probabilmente non si sarebbe mai definito artista Eppure le sue opere parlano all’arte del 900
di Melania Mazzucco


Fra il 1913 e il 1930 Carl Gustav Jung ha illuminato, con certosina perizia ispirata all’arte medievale della miniatura, un misterioso manoscritto, il racconto di un viaggio interiore che è insieme testo psicologico e poetico: il Liber Novus, o Libro rosso. Dopo la rottura con Freud, aveva intrapreso la sperimentazione su sé stesso, che chiamò il suo " confronto con l’inconscio", con lo scopo di tradurre le emozioni e le fantasie in immagini: le conoscenze derivate da quell’autoesame avrebbero contribuito a fondare la psicologia analitica. Il Libro rosso è rimasto inedito fino al 2009. Le sue affascinanti illustrazioni sono state una rivelazione ed esposte perciò in tutto il mondo (in Italia le abbiamo scoperte alla Biennale di Venezia del 2013). Ma non esauriscono la ricchissima produzione visiva di Jung come dimostra L’arte di C. G. Jung, che ora esce in Italia per Bollati Boringhieri.
Il titolo interroga subito. Queste opere sono arte? Jung avrebbe risposto di no. Sono il frutto dell’"immaginazione attiva", che permette alle immagini dell’inconscio di affiorare. Sono talismani, sogni, forme astratte che rappresentano archetipi, figure orfiche, idee filosofiche e anche, come nel caso di un busto femminile, la sua propria anima. Le interpretava unicamente in chiave psicologica. Ma la loro qualità ha rivelato che nella sua villa di Küsnacht, sul lago di Zurigo, quasi in segreto, Jung dedicava una porzione non trascurabile del suo tempo a dipingere le immagini interiori generate dalla sua psiche — a guazzo, ad acquerello, su carta o pergamena.
Ai paesaggi dipinti fra il 1895 e il 1905 — atmosferici, onirici, privi di ogni presenza umana o animale — seguono infatti, fino alla morte, avvenuta nel 1961, decine di astratti mandala e cosmogonie, simboli come stelle, sfere, uova, immagini stilizzate di serpenti, alberi, divinità personali. Jung non era un dilettante. Come osserva Jill Mellik nel libro, sbalordisce la sua competenza tecnica, la capacità di manipolare superfici, colori, prospettiva, ombre.
Usava pigmenti preziosi, pennelli dalle setole finissime di zibellino e i codici dell’arte figurativa di ogni epoca e continente. In effetti l’arte lo affascinava fin da bambino: nei suoi Ricordi ha raccontato che quando viveva nella canonica del padre, pastore protestante di Kleinhüningen, trascorreva ore a fissare la copia di un quadro della scuola di Guido Reni appesa sulla parete di una camera buia: " la sola cosa bella che conoscessi". Cresciuto a Basilea, il cui Kunstmuseum raccoglie un’eccezionale collezione di pittura, Jung ha frequentato musei tutta la vita. E nel corso dei viaggi effettuati tra il 1924 e il 1937 si avvicinò all’arte indiana, orientale e africana. Inoltre il suo paese, la Svizzera, patria di Böcklin, Klee e Giacometti, rifugio di Segantini e Kokoschka, è stata crogiolo dell’arte del XX secolo e incubatrice di molte avanguardie, dal simbolismo fino al dadaismo.
Tuttavia, apparentemente, Jung non raccolse la sfida dell’arte contemporanea. Non lo interessava la sua caratteristica principale, " la disgregazione dell’oggetto", perché al contrario mirava ai processi legati all’unione degli opposti, e nel 1932 un suo aguzzo articolo sull’arte di Picasso ( la paragonò a quella dei suoi pazienti schizoidi) scatenò una tale furente incomprensione che decise in futuro di astenersi da ogni ulteriore commento.
Eppure, al di là della esibita incompatibilità, il suo lavoro sui colori puri, sulle forme, sui simboli e sulle astrazioni era non solo in sintonia ma anche in sincronia con le ricerche artistiche dei suoi contemporanei. Nel 1911 Kandinskij pubblicava Lo spirituale dell’arte,
teorizzava l’influsso dei colori sull’anima e poneva le fondamenta dell’arte astratta e poco dopo Jung inaugurava il Libro rosso; in seguito, mentre lui s’immergeva nelle rappresentazioni dei misteri alchemici, dimostrandone l’affinità con le immagini oniriche, Klee rifiutava l’imitazione e sosteneva che l’arte è un ricordo dell’origine e deve rendere visibile l’interno occulto delle cose.
E i parallelismi si riverberano: le pratiche surrealiste attingono allo stesso deposito sotterraneo dell’immaginazione attiva, gli inquietanti idoli feticcio scolpiti da Jung rimano con le sculture ispirate dall’arte tribale; il suo barbuto dio pagano Filemone ricorda le figurine arcaiche di Chagall, i bruchi e i mostri le fantasie di Redon e Miró, e così via... Del resto, proprio Filemone gli aveva rivelato che i pensieri sono dotati di vita propria, come animali nella foresta, uomini in una stanza o uccelli nell’aria e Jung aveva concluso che " c’è in me qualcosa che può fare affermazioni per me sconosciute e incomprensibili, o che possono persino essere rivolte contro di me". Anche le sue immagini sono dotate di vita propria e, quasi contro la sua volontà, Jung è stato un sommo artista.