Repubblica Robinson 2.12.18
Checi fa Clee nel Libro Rosso
Criticò Picasso e probabilmente non si sarebbe mai definito artista Eppure le sue opere parlano all’arte del 900
di Melania Mazzucco
Fra
il 1913 e il 1930 Carl Gustav Jung ha illuminato, con certosina perizia
ispirata all’arte medievale della miniatura, un misterioso manoscritto,
il racconto di un viaggio interiore che è insieme testo psicologico e
poetico: il Liber Novus, o Libro rosso. Dopo la rottura con Freud, aveva
intrapreso la sperimentazione su sé stesso, che chiamò il suo "
confronto con l’inconscio", con lo scopo di tradurre le emozioni e le
fantasie in immagini: le conoscenze derivate da quell’autoesame
avrebbero contribuito a fondare la psicologia analitica. Il Libro rosso è
rimasto inedito fino al 2009. Le sue affascinanti illustrazioni sono
state una rivelazione ed esposte perciò in tutto il mondo (in Italia le
abbiamo scoperte alla Biennale di Venezia del 2013). Ma non esauriscono
la ricchissima produzione visiva di Jung come dimostra L’arte di C. G.
Jung, che ora esce in Italia per Bollati Boringhieri.
Il titolo
interroga subito. Queste opere sono arte? Jung avrebbe risposto di no.
Sono il frutto dell’"immaginazione attiva", che permette alle immagini
dell’inconscio di affiorare. Sono talismani, sogni, forme astratte che
rappresentano archetipi, figure orfiche, idee filosofiche e anche, come
nel caso di un busto femminile, la sua propria anima. Le interpretava
unicamente in chiave psicologica. Ma la loro qualità ha rivelato che
nella sua villa di Küsnacht, sul lago di Zurigo, quasi in segreto, Jung
dedicava una porzione non trascurabile del suo tempo a dipingere le
immagini interiori generate dalla sua psiche — a guazzo, ad acquerello,
su carta o pergamena.
Ai paesaggi dipinti fra il 1895 e il 1905 —
atmosferici, onirici, privi di ogni presenza umana o animale — seguono
infatti, fino alla morte, avvenuta nel 1961, decine di astratti mandala e
cosmogonie, simboli come stelle, sfere, uova, immagini stilizzate di
serpenti, alberi, divinità personali. Jung non era un dilettante. Come
osserva Jill Mellik nel libro, sbalordisce la sua competenza tecnica, la
capacità di manipolare superfici, colori, prospettiva, ombre.
Usava
pigmenti preziosi, pennelli dalle setole finissime di zibellino e i
codici dell’arte figurativa di ogni epoca e continente. In effetti
l’arte lo affascinava fin da bambino: nei suoi Ricordi ha raccontato che
quando viveva nella canonica del padre, pastore protestante di
Kleinhüningen, trascorreva ore a fissare la copia di un quadro della
scuola di Guido Reni appesa sulla parete di una camera buia: " la sola
cosa bella che conoscessi". Cresciuto a Basilea, il cui Kunstmuseum
raccoglie un’eccezionale collezione di pittura, Jung ha frequentato
musei tutta la vita. E nel corso dei viaggi effettuati tra il 1924 e il
1937 si avvicinò all’arte indiana, orientale e africana. Inoltre il suo
paese, la Svizzera, patria di Böcklin, Klee e Giacometti, rifugio di
Segantini e Kokoschka, è stata crogiolo dell’arte del XX secolo e
incubatrice di molte avanguardie, dal simbolismo fino al dadaismo.
Tuttavia,
apparentemente, Jung non raccolse la sfida dell’arte contemporanea. Non
lo interessava la sua caratteristica principale, " la disgregazione
dell’oggetto", perché al contrario mirava ai processi legati all’unione
degli opposti, e nel 1932 un suo aguzzo articolo sull’arte di Picasso (
la paragonò a quella dei suoi pazienti schizoidi) scatenò una tale
furente incomprensione che decise in futuro di astenersi da ogni
ulteriore commento.
Eppure, al di là della esibita
incompatibilità, il suo lavoro sui colori puri, sulle forme, sui simboli
e sulle astrazioni era non solo in sintonia ma anche in sincronia con
le ricerche artistiche dei suoi contemporanei. Nel 1911 Kandinskij
pubblicava Lo spirituale dell’arte,
teorizzava l’influsso dei
colori sull’anima e poneva le fondamenta dell’arte astratta e poco dopo
Jung inaugurava il Libro rosso; in seguito, mentre lui s’immergeva nelle
rappresentazioni dei misteri alchemici, dimostrandone l’affinità con le
immagini oniriche, Klee rifiutava l’imitazione e sosteneva che l’arte è
un ricordo dell’origine e deve rendere visibile l’interno occulto delle
cose.
E i parallelismi si riverberano: le pratiche surrealiste
attingono allo stesso deposito sotterraneo dell’immaginazione attiva,
gli inquietanti idoli feticcio scolpiti da Jung rimano con le sculture
ispirate dall’arte tribale; il suo barbuto dio pagano Filemone ricorda
le figurine arcaiche di Chagall, i bruchi e i mostri le fantasie di
Redon e Miró, e così via... Del resto, proprio Filemone gli aveva
rivelato che i pensieri sono dotati di vita propria, come animali nella
foresta, uomini in una stanza o uccelli nell’aria e Jung aveva concluso
che " c’è in me qualcosa che può fare affermazioni per me sconosciute e
incomprensibili, o che possono persino essere rivolte contro di me".
Anche le sue immagini sono dotate di vita propria e, quasi contro la sua
volontà, Jung è stato un sommo artista.