martedì 4 dicembre 2018

Corriere 4.12.18
L’intervista a Vincenzo Paglia
«Non si parla più della morte, la colpa è anche di noi cristiani»
di Aldo Cazzullo


L’arcivescovo: il linguaggio clericale non arriva né alle menti né ai cuori
Monsignor Paglia, perché un libro sulla morte si intitola «Vivere per sempre»?
«Perché tutti siamo abitati da un istinto che pretende la continuazione, esige una destinazione, e trova risposta nel risorgere. Siamo mortali, ma non per la morte».
Sartre diceva che siamo una parentesi tra due nulla.
«Sarebbe davvero ingiusto, non solo per la fede ma anche per la ragione. Sarebbe un gigantesco spreco se tutto quello che abbiamo fatto, gli affetti, la famiglia, finissero nel nulla. Ed anche l’etica sarebbe senza senso. Il bisogno di un oltre è insito nel profondo dell’uomo».
Della morte però si parla pochissimo.
«È vero. La morte è uno scandalo. Una domanda che cerchiamo di nascondere. Non vogliamo pensarci, tanto che ci auguriamo di morire all’improvviso, nel sonno, senza prepararci. Anche nella predicazione cristiana si assiste a un occultamento delle cose ultime. Non affrontiamo il tema, o lo facciamo con parole incomprensibili, un gergo clericale scontato e superficiale che non parla più né alla mente né al cuore. Così si finisce nella nebulosa dell’indistinto, nell’illusione della reincarnazione».
Che la Chiesa esclude.
«Noi riconosciamo il valore unico e universale di ciascuno di noi, tutti destinati ad abitare i cieli nuovi e la terra nuova che verranno».
Lei scrive che la vita risorta è anche vita con i sensi.
«Certo. Il cristianesimo va oltre la sopravvivenza platonica dell’anima. Il cristianesimo è amore per la carne, per il corpo, per la creazione. Lo dico a partire da Gesù che dopo la resurrezione parlava, sentiva, toccava, mangiava, odorava... Non sappiamo come, però risorgiamo con il corpo, certo risorto, ma con i sensi. Paolo lanciò questa sfida ad Atene: quei filosofi di formazione socratica che accettavano il discorso sull’immortalità dell’anima, ma non della carne, gli dissero: “Di questo ti sentiremo un’altra volta”. Lo scandalo era troppo forte».
Lei come concepisce la resurrezione della carne?
«È difficile anche solo concepirla. Furono i momenti più difficili anche per gli apostoli: non riuscivano a credere che Gesù fosse risorto. Gesù ci mette quaranta giorni per convincerli. E loro lo vedevano con le sue mani e i suoi piedi ancora bucati dai chiodi. È il senso delle parole del credo cristiano: credo nella resurrezione della carne e nella vita del mondo che verrà».
Poi però ascende al cielo.
«Dove vuole al suo fianco la Madonna. Per Maria si parla della morte molto tardi, comunque si tramanda che si “addormentò” e fu portata con il suo corpo nel cielo, accanto al figlio».
E Lazzaro?
«Lazzaro viene riportato alla vita mortale. Non risorge. È un grande miracolo di Gesù. La sua fama si allargò a tal punto che i capi religiosi decisero da allora di ucciderlo. Gesù però, a differenza di Lazzaro, risorge alla vita eterna, che non conosce più la morte».
E scende nel limbo, a liberare Adamo, Eva e i patriarchi.
Nuova prospettiva
«Abbiamo predicato
un cristianesimo della paura, è il momento della misericordia»
«Nel Credo noi diciamo che Gesù discese agli inferi. L’iconografia orientale la rappresenta con Gesù che trae dal buio della morte Adamo e Eva. È una immagine piena di speranza. Per troppo tempo abbiamo predicato un cristianesimo della paura; ora dobbiamo sottolineare la misericordia, come fa papa Francesco. Anche noi dobbiamo scendere negli inferni di questo mondo. Li dobbiamo svuotare. È il senso di una grande misericordia che salva tutti i disperati, gli eliminati, gli oppressi».
Anche secondo lei l’inferno esiste ma potrebbe essere vuoto?
«L’inferno esiste, è certamente una possibilità. L’inferno è la solitudine assoluta. È la mancanza dell’incontro con Dio. Chi vive l’amore riceve l’immortalità. Chi lo distrugge, distrugge il proprio futuro».
E il paradiso?
«La parola viene dal persiano e significa giardino. Gan, in ebraico: un giardino dove le famiglie dei popoli si ritroveranno in pace».
Ma nell’Antico Testamento, come ha fatto notare il rabbino Di Segni, l’idea dell’aldilà è vaga.
«È vero. In alcuni passaggi si intravede la luce della resurrezione; ad esempio nel martirio dei sette fratelli Maccabei, che subiscono l’ingiustizia suprema della tortura e dell’uccisione per amore di Dio. Lo snodo del cristianesimo è la forza di Dio che resuscita Gesù e con lui tutti coloro che si lasciano toccare dall’amore».
Una vita non solo spirituale?
«No. Una vita risorta, quindi non astratta. Una vita che risorge con il suo corpo, la sua storia, il suo bagaglio di amore. Da quando Dio prende la carne, il paradiso non può più fare a meno della carne, quindi di noi».
Ma c’è un passo dei Vangeli che suona terribile. I sadducei tentano di mettere in difficoltà Gesù chiedendogli di chi sarà moglie nell’aldilà una vedova che ha avuto sette mariti. E lui risponde che nell’aldilà non ci saranno né moglie né marito. Quindi non ci rincontreremo?
«Le parole di Gesù vanno intese nel senso che veniamo liberati non dall’affetto che unisce le persone care, ma dal possesso. Sarà un affetto che non esclude gli altri. È possibile sperimentarlo già in questa vita, quando una famiglia aiuta gli altri, e questi diventano fratelli e sorelle».
Lei da quanto tempo fa il prete?
«Sono entrato in seminario a nove anni, ma già a sette sentivo il desiderio di diventare prete».
Avrà accompagnato nell’ora ultima molte persone. Come si muore?
«Tutti hanno paura della morte, anche i santi. Anche Gesù. Ma tanti muoiono serenamente, se sono accompagnati dall’amore dei loro cari. È una morte confortata. Alcuni parlano anche di una sensazione di luce».
Il cardinale Ruini ha dedicato un capitolo del suo libro «C’è un dopo?» alle esperienze pre-morte, per concludere che non significano nulla: quelle persone non sono morte, quindi della morte non sanno niente.
«È così. C’è una morte biologica, che porta al dissolvimento del corpo, ma non rappresenta la fine; semmai, un passaggio. La morte è il momento del passaggio nel quale ci troviamo davanti a Dio, lo vediamo faccia a faccia. E lo vedremo come un Padre che ci sta aspettando per abbracciarci, per condurci con sé nel paradiso. Non è un Dio che giudica con severità. Ricordo il cardinale Parente, che ha vissuto nella casa dove ora abito. Al momento della morte mi disse: per fortuna, Dio è più misericordioso che giusto».

Repubblica 4.12.18
Yehoshua e la banalità del male oscuro
La quotidianeità di un uomo che non vuole arrendersi al declino e le tensioni di una società che vive una guerra permanente
di Michela Marzano


Il grande scrittore israeliano che sarà ospite a Roma a “Più libri più liberi”, la fiera in programma da domani, torna con un nuovo romanzo. Dove racconta una coppia, la demenza senile di lui e, sullo sfondo, il conflitto con la Palestina
Come ci si comporta di fronte all’ineluttabile e progressiva perdita di sé? Cosa resta di noi nel momento in cui la razionalità e la logica vengono meno? Quando Zvi Luria, un ingegnere in pensione di 73 anni, e sua moglie Dina, una pediatra ancora in attività, escono dallo studio del neurologo consultato perché Zvi ha cominciato a smarrire la memoria, sono entrambi spaventati. « Non dire demenza, si infuria lei. Il medico ti ha avvertito di non farlo. Allora cosa devo dire?
Disorientamento, smarrimento, confusione.
Troveremo altri termini » .
Nessuno dei due, però, ha voglia di abbattersi. Certo, c’è un’atrofia del lobo centrale, come spiega loro il medico.
Ma siccome nessuna patologia segue regole precise, meno che mai quelle della corteccia cerebrale, è bene che l’anziano ingegnere si mantenga attivo: « La velocità di un eventuale processo degenerativo dipende anche da lei, da come combatterà contro la malattia » . Basta questo, a Dina, per trovare la forza di reagire e suggerire a Zvi di ricominciare a lavorare.
Perché non dare una mano al giovane Assael Maimoni che occupa il posto che per anni aveva occupato il marito?
Perché non far fruttare l’esperienza accumulatasi nel corso degli anni e non diventare assistente volontario?
Inizia così una strana e commovente collaborazione tra il giovane ingegnere e l’anziano capodivisione per la progettazione di una strada segreta nel deserto di Negev che porterà Zvi a difendere contro ogni logica economica e politica la costruzione di un tunnel nel cratere Ramon.
Sulla collina dove dovrebbe passare la strada vive infatti una famiglia di rifugiati palestinesi, e l’unico modo per garantirne l’incolumità è evitare appunto di spianare la collina.
Il tunnel, l’ultimo romanzo dello scrittore israeliano Abraham B. Yehoshua ( Einaudi, traduzione di Alessandra Shomroni) — noto in Italia non solo per la potenza della scrittura, ma anche per il costante impegno a favore di una convivenza pacifica tra israeliani e palestinesi — riesce a intrecciare in maniera magistrale la questione della perdita della memoria con quella dell’identità collettiva, la storia intima di una coppia costretta a fare i conti con la vecchiaia e la malattia con la storia politica e sociale di una comunità complessa e dilaniata.
Chi ha dimestichezza con la demenza senile sa bene che non c’è nulla da fare per bloccare l’inesorabile processo della malattia. Sa che, nonostante tutta la buona volontà, il cervello pian piano si spegne. Conosce soprattutto l’angoscia e la paura delle persone care, che non accettano che chi è accanto a loro non sia più la stessa persona di prima.
Ma sa anche che la demenza, allentando le catene del controllo, fa talvolta emergere tratti della personalità fino ad allora tenuti nascosti — « Lei non mi fa paura, signor Luria, al contrario » , dirà Maimoni quando Zvi ammetterà di essere malato. « La demenza di un ingegnere della sua esperienza potrebbe dimostrarsi liberatoria, creativa » .
Anche quando la memoria è definitivamente compromessa, l’umanità di chi è malato resta intatta.
Anzi, talvolta si accentua quell’empatia profonda che, spesso senza motivo, ci lega gli uni agli altri.
In un va- e- vieni continuo tra la quotidianità di un uomo che non vuole arrendersi al declino — si fa tatuare sul braccio i numeri del codice antifurto della macchina per poter continuare a utilizzarla, ma guida in maniera spericolata e un giorno la patente gli viene definitivamente ritirata; si sforza di ricordare i nomi e i luoghi, ma quando una sera un tassista gli chiede l’indirizzo di casa, risponde amareggiato che ricorda solo di abitare in una via intitolata a un grande rabbino — e le tensioni di una società che non riesce a riappacificarsi e vive in uno stato di guerra permanente, Yehoshua costruisce un ritratto esemplare delle contraddizioni dell’esistenza umana.
Ecco allora che accanto all’esigenza politica di progettare una strada segreta per poi costruire una stazione di radioascolto — « La prossima guerra consisterà soprattutto nell’intercettare le comunicazioni del nemico, per essere sicuri che il nemico non ci stia ascoltando » — emerge il dramma di una famiglia di rifugiati che, avendo lasciato il proprio villaggio nel distretto di Jenin, non è più palestinese ma non è ancora israeliana: « Sono gente senza identità. Per questo hanno bisogno di un tunnel » . Accanto al bisogno di razionalizzare le spese per la strada spianando la collina dove abitano i profughi, emerge la pietà di un uomo che, proprio perché demente, difende a spada tratta la costruzione del tunnel: « Solo un ingegnere senescente e affetto da demenza si azzarderebbe a cercare di convincere i rappresentanti del ministero della Difesa a finanziare un simile progetto » .
« Non contare su di me » , dirà un giorno Zvi a sua moglie, stanco di dover combattere contro l’inesorabilità della malattia. « Sto andando a fondo, sono confuso, non so nemmeno che giorno sia oggi » . Ma è proprio grazie a lui che, alla fine, verrà approvato il progetto del tunnel.
È proprio grazie alla sua demenza che, messa da parte la razionalità e la logica, la famiglia di rifugiati potrà continuare a vivere sulla collina nel deserto di Negev.

La Stampa 4.12.18
“Basta immigrazione e femminismo”
Così i populisti Vox scalano la Spagna
di Francesco Olivo


Nella piazza della Merced di Huelva ci sono mille persone, bandiere spagnole, cori nazionalisti e appelli alle radici profonde: «Noi siamo quelli di Isabella la Cattolica, della Reconquista contro gli arabi». La platea esulta. «In città non vedevamo folle così da tempo», commentano preoccupati alcuni impiegati pubblici in un bar a pochi metri dal palco.
L’estrema destra è arrivata anche qui, in questo angolo di Andalusia, affacciato sull’oceano Atlantico, davanti alle coste marocchine, oltre (fuor di metafora) le colonne d’Ercole. Si chiama Vox l’ultima sfida del populismo in salsa nazionalista e ha contagiato anche la Spagna, terra fino a ieri immune dal contagio sovranista. Nello storico granaio di voti dei socialisti, al potere senza interruzioni da 36 anni, per la prima volta la sinistra andrà all’opposizione. Non si tratta solo di una rivoluzione regionale, proprio perché, ecco l’altro dato inedito, nel parlamento locale debutteranno i deputati che si collocheranno alla destra del Partito Popolare. Scenario mai visto dal ritorno della democrazia, proprio nei giorni in cui si celebrano i 40 anni della costituzione. E la sconfitta in Andalusia, dove potrebbe governare il Pp appoggiato da Ciudadanos e Vox, rischia di costringere Pedro Sánchez a convocare elezioni anticipate, anche a brevissima scadenza.
Alle regionali di domenica scorsa Vox ha preso l’11%, percentuale decisiva per entrare non solo nelle aule parlamentari, ma forse anche al potere in Andalusia, la regione più grande di Spagna. La sinistra grida all’antifascismo, ma lo choc è enorme. Per rendere l’idea bastano questi dati: Vox è passata dai 18 mila voti del 2015 ai 395.000 del 2018. «Se superano il 10% in Andalusia, a Madrid possono fare molto di più» è il commento più diffuso nelle sedi dei partiti tradizionali, passata la nottata più difficile. E i prossimi appuntamenti , a maggio si vota per regionali, comunali ed europee, consentono di immaginare che quella di Siviglia sia la prima scossa di un terremoto già visto altrove.
Il fenomeno si notava da alcuni mesi, per lo meno da quando, nell’ottobre scorso, il movimento guidato dal basco Santiago Abascal, ex consigliere comunale del Partito Popolare, era riuscito a portare 10 mila tifosi nel palazzo dello Sport di Vistalegre a Madrid. Nella sede sulla calle de Diego de León due settimane fa c’era la fila di giovani: «Possiamo dare una mano?».
La campagna andalusa, il primo banco di prova per il governo Sánchez, però dava altri segnali chiari: l’entusiasmo per il nuovo movimento saliva e contagiava i tanti delusi della destra tradizionale. Le piazze si riempivano e le urne anche. Solo due settimane fa un sondaggio del Cis, l’Istat spagnolo, prevedeva: «Vox prenderà un seggio». Lo spoglio racconta ben altra realtà: i seggi sono 12. All’estero c’è chi li guarda con simpatia: Marine Le Pen ha esultato via Twitter, soddisfazione condivisa dall’ex stratega di Trump, Steve Bannon.
Il successo dell’estrema destra spagnola si basa su tre grandi temi, il primo è comune al resto d’Europa, il rifiuto dell’immigrazione, che sta toccando la Spagna come mai. Le altri due chiavi sono la reazione alle spinte indipendentiste in Catalogna (e nei Paesi Baschi) e il fastidio sempre più evidente contro le politiche di genere. Per appurarlo basta ascoltare i comizi, leggere il programma («via le autonomie regionali» è uno dei punti cardine) e analizzare le biografie dei candidati, uno fra tutti quelle del capolista andaluso, un giudice fermamente ostile alle leggi contro la violenza machista: «Hanno criminalizzato metà della popolazione (i maschi ndr), va bene proteggere mia moglie e le mie figlie, ma i miei figli maschi non devono essere travolti da accuse false», urla Abascal alla piazza di Huelva. Quello della «dittatura del femminismo», come la chiamano di Vox è un tema centrale del discorso dell’estrema destra, una sfida a un governo che ha più donne che uomini e che proprio al femminismo fa riferimento con orgoglio.
Ieri è stato il momento della festa, ma a Huelva lo sapevano già: «Con questi avremmo a che fare per molto tempo».

Repubblica 4.12.18
Il fondatore di Vox e il boom in Andalusia
Abascal, il leader machista della Spagna lancia l’ultradestra “senza complessi”
I 12 seggi conquistati nella regione aprono la strada a un patto con il Pp e Ciudadanos
Il suo partito vuole migranti deportati e moschee chiuse
di Alessandro Oppes


In uno spot passato quasi inosservato di una campagna elettorale costata appena 150mila euro si vede Santiago Abascal, in sella a un cavallo, che annuncia fiducioso: «La nostra reconquista parte dall’Andalusia». Alla cintura la sua immancabile Smith&Wesson («prima per proteggere mio padre, ora mio figlio»), il leader dell’ultradestra di Vox si propone di rilanciare l’opera portata a compimento nel 1492 dai Re Cattolici con l’espulsione dei musulmani dalle terre di al-Andalus. Nel suo programma c’è la chiusura delle frontiere, la costruzione di muri a Ceuta e Melilla (ci sono già, ma evidentemente li vuole più alti e più sicuri), la deportazione dei migranti irregolari e anche di quelli che risiedono legalmente in territorio spagnolo, se hanno commesso reati gravi. E vuole pure la chiusura di tutte le moschee finanziate dal fondamentalismo. Ma quello dell’immigrazione è solo uno dei punti del piano d’azione xenofobo, razzista e anti-islamico di un movimento nato per sdoganare vecchi slogan franchisti come “Dio, Patria e famiglia” o con il progetto di ricostruire “una Spagna grande e unita”. Per il momento, il suo primo grande successo l’ha ottenuto con l’exploit in parte inatteso alle regionali andaluse, che grazie alla conquista di 12 seggi fa diventare Vox l’elemento cardine di una maggioranza di destra insieme al Pp e Ciudadanos. Un inedito assoluto visto che, con il loro tracollo (sono passati da 47 a 33 seggi) i socialisti di Susana Díaz sono sospinti all’opposizione dopo 36 anni di governo della Regione.
Il carburante per alimentare la crescita di Vox è venuto dalla sfida indipendentista catalana, che ha consentito al partito di fare le prove generali portando in piazza un mare di bandiere rojigualdas, simbolo della nazione spagnola. Prima del trauma del referendum di un anno fa, la piccola formazione nata da un litigio interno al Partito Popolare (Abascal, dirigente regionale basco, se ne andò sbattendo la porta dopo 20 anni di militanza perché era stato emarginato) poteva contare su ben magre performance: dallo 0,45% delle europee del 2014 – anno di nascita della formazione – allo 0,2 delle politiche di giugno 2016. In quell’occasione, i media si occuparono di Abascal solo il giorno in cui venne arrestato a Gibilterra per aver manifestato sventolando una bandiera spagnola.
Chi aveva letto il suo libro “Non mi arrendo” sapeva però che, nonostante le sconfitte umilianti, l’intraprendente politico basco avrebbe atteso paziente il momento propizio per vendicarsi della derechita cobarde, la “viltà” dei suoi ex compagni di cordata del Pp, a suo dire incapaci di applicare una politica conservatrice «senza complessi». La destra autentica, e anche nostalgica, Santiago Abascal – oggi 42enne l’ha conosciuta da vicino sin da piccolo. Nonno sindaco franchista ad Amurrio, provincia di Álava, padre dirigente nel Paese Basco di Alianza Popular, la formazione creata in piena Transizione da Manuel Fraga, ex ministro della dittatura, che poi passò a chiamarsi Partido Popular. La tessera del Pp, così, Abascal se la ritrovò in tasca in modo quasi automatico, iscritto “d’ufficio” dal padre al compimento dei 18 anni d’età. E le cose andarono relativamente bene finché al timone della formazione c’era un “vero” conservatore come José María Aznar, mentre a Madrid comandava Esperanza Aguirre, la “lady di ferro” spagnola, che lo prese sotto la sua ala protettrice, assegnandogli dubbie prebende con la nomina alla guida di una fondazione senza dipendenti e senza attività ma con una sovvenzione di 183mila euro.
Il giorno in cui, incompreso, decise di lasciare il partito (era il novembre del 2013) rinfacciò in una dura lettera a Rajoy di aver «tradito le idee e i valori» del Pp.
Idee che ha poi rielaborato in chiave patriottica, ultracattolica e machista per dare corpo al programma di Vox: si oppone all’aborto, alla legge sulla memoria storica e a quella sulla violenza di genere. Tralascia solo il tema del divorzio, perché lui stesso ha divorziato dalla prima moglie. Progetti che, con la crisi catalana ancora rovente e di fronte alla prospettiva dell’esumazione dei resti di Franco dal Valle de los Caídos, hanno mandato in visibilio due mesi fa i 10mila sostenitori accorsi al suo primo bagno di folla. Non a caso, organizzato nel palazzo di Vistalegre a Madrid, da sempre terreno inviolato della sinistra. Così è partita la sfida. Abascal la affronta con fiducia, ancor più da quando ha visto il suo figlioletto, durante una manifestazione a favore dei terroristi dell’Eta incarcerati, urlare: “Viva España!”. Senza complessi.

Repubblica 4.12.18
Intervista a Fernando Savater
“Nasce come risposta reazionaria alla sfida indipendentista”
di A. Op.


L’avanzata dell’ultradestra? È una «risposta alla sfida indipendentista catalana». Che negli ultimi era stata canalizzata attraverso un movimento più moderato come Ciudadanos, mentre «ora si radicalizza». Invita a evitare gli allarmismi Fernando Savater, il più noto filosofo spagnolo.
Sembrava che la Spagna fosse immune all’avanzata dell’ultradestra. Che cosa è successo?
«Sono arrivati al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica una serie di problemi che in parte condividiamo con il resto d’Europa. Il problema (o l’esagerazione del problema) dell’immigrazione unito a una questione interna come la sfida del separatismo in Catalogna. Ed è proprio qui l’origine di questa svolta: non mi preoccupa tanto l’avanzata dell’estrema destra, quanto il fatto che negli ultimi anni ci sia stata un’estrema sinistra che ha favorito con il suo atteggiamento la crescita dell’indipendentismo. Questo ha provocato una reazione che, in parte, è stata incanalata attraverso i canoni tradizionali della politica mentre con questo nuovo movimento ha finito per radicalizzarsi».
Però, dopo l’estromissione di Rajoy dal governo, il Pp guidato ora da Pablo Casado si era spostato ulteriormente verso la destra dello spettro politico. A quanto pare non è stato sufficiente a contenere gli ultranazionalisti.
«Non riesco ancora a vedere l’estrema destra come un problema per la Spagna. Lo è in altri Paesi, come l’Italia dove è arrivata a conquistare posizioni di governo.
La vera emergenza ancora aperta qui è quella del nazionalismo, che non è stata affrontata in maniera efficace da Rajoy. È per questo che ora c’è chi cerca altre vie d’uscita».
Ma non la preoccupa questa irruzione sulla scena di un partito xenofobo e islamofobo?
«Mi sembrano cose che fanno parte della retorica dei partiti. Finora non li abbiamo visti occupare responsabilità di governo. Se un giorno ci arriveranno, vedremo. Ma ricordo anche che cosa si diceva di Podemos quando sorprese tutti con il suo exploit elettorale. C’era chi li accusava di voler applicare in Spagna la politica bolivariana di Maduro, chi sosteneva che fossero finanziati dall’Iran degli ayatollah».
A questo punto il Psoe di Pedro Sánchez si trova in una situazione molto delicata, con un governo di minoranza e l’incertezza sull’opportunità di andare a elezioni anticipate.
«In realtà è quello che aveva promesso quando ottenne il sì alla sua mozione di censura contro Rajoy, che un po’ a tutti sembrava ormai bruciato dagli scandali del Pp. L’appoggio dei nazionalisti baschi e catalani si capiva bene in quel contesto e non c’era niente da obiettore. Ma Sánchez aveva promesso che poi avrebbe convocato le elezioni. Quello che molti non capiscono è che poi abbia continuato a governare con l’appoggio di forze considerate incompatibili con il Psoe».
È per questo che hanno perso in Andalusia?
«Sono stati castigati per la scelta delle alleanze. Il voto in Andalusia è stata la prima occasione per l’elettorato di esprimersi da quando Sánchez è andato al governo. E la risposta è stata chiara».

il manifesto 4.12.18
Andalusia: si rompe l’argine, estrema destra in parlamento
Spagna . È un terremoto politico, crolla il Psoe nella sua roccaforte, male anche il Pp, terzo Ciudadanos che raddoppia e punta alla presidenza. I fascisti di Vox prendono il 10% dei voti e 12 seggi
di Luca Tancredi Barone


BARCELLONA La Spagna si è allineata all’Europa. A quattro giorni dal 40esimo anniversario della costituzione che chiuse più di 40 anni di dittatura franchista, un partito di destra estrema è entrato per la prima volta in un parlamento. Fino a domenica, la Spagna era stata uno dei pochissimi paesi in Europa ad aver arginato i rigurgiti fascisti. Invece il terremoto politico dei risultati in Andalusia, governata da 40 anni dai socialisti, in cui finora il Pp aveva fatto da recinto di contenzione alla destra più estrema, ha stravolto il quadro.
IL PARTITO SOCIALISTA ha ricevuto poco più di un voto su 4 (il 28%, e solo 33 seggi su 109), secondo classificato il Pp, col 21% dei voti (26 seggi) – entrambi i partiti crollano rispetto alle precedenti elezioni. Terzo classificato Ciudadanos, che più che raddoppia i suoi voti e suoi rappresentanti: 18% e 21 seggi. Quarto, Adelante Andalusia, la coalizione di Podemos e Izquierda unida, che assieme guadagnano tre seggi in meno di Izquierda Unida e Podemos separatamente nel 2015: oggi ha solo il 16% dei voti e 17 seggi. Ma la vera e grande novità è lo strepitoso risultato di Vox, un partito di estrema destra finora con appoggio aneddotico: guadagna ben il 10% dei voti e 12 seggi. Calcolatrice alla mano, non solo le destre hanno una chiara maggioranza dei seggi, ma né l’opzione socialisti-Ciudadanos, riedizione dell’ultima alleanza, è possibile, né tantomeno l’improbabile alleanza fra la presidente uscente Susana Díaz e Teresa Rodríguez di Podemos. A meno di miracoli, Susana Díaz e i socialisti hanno perso la propria roccaforte, uno schiaffo psicologico che ha lasciato afasici tutti i principali esponenti governativi.
LE RAGIONI sono molte, e ci sarà tempo per riflettere: ma è chiaro che un ostacolo è stata proprio la potentissima Díaz, che aveva già compromesso la sua figura ostacolando la scalata di Sánchez alla segreteria socialista, oltre ai numerosi casi di corruzione legati allo stile partito-padrone che il Psoe ha in quella regione, oltre naturalmente alla disoccupazione, che in Andalusia continua altissima, e all’afflusso massiccio di migranti dal sud che le strutture locali non sono in grado di gestire. A tutto si aggiunge un astensionismo record: hanno votato solo il 58,6% degli aventi diritto: 4% meno che tre anni fa, mai così pochi.
NATURALMENTE Ciudadanos è in visibilio: hanno proposto che il loro candidato diventi presidente, così come ha fatto il Pp, il cui segretario nazionale Pablo Casado ha cantato vittoria, nonostante la storica débâcle in termini di voti. E l’opzione di alleanza con Vox non la scarta nessuno dei due: al contrario. Casado, che ha puntato il partito molto più a destra del suo predecessore Rajoy, ha rivendicato la legittimità dei negoziati con Vox (dopo averne per settimane difeso le idee). E naturalmente Vox, sorpresa dal risultato spettacolare, non vuole sprecare l’occasione mantenendo pubblicamente molto basse le sue richieste pur di essere ufficialmente sdoganata. Se davvero le tre destre si metteranno d’accordo, saranno loro i kingmaker.
D’ALTRA PARTE, Susana Díaz sembra avere i giorni contati: dalla sede socialista di Madrid, che ha deciso di entrare direttamente nei negoziati, le indicano la porta: ma non è detto che getti la spugna.
Sulla carta esisterebbe un’opzione per tenere i fascisti lontani dal governo: se il Psoe accettasse di cedere la presidenza a Ciudadanos (cosa che per il momento i socialisti scartano) e Adelante Andalusia prestasse un paio di voti anche in termini di astensione, questa potrebbe essere una via d’uscita per evitare l’incubo di assessori Vox. Ma per ora l’ipotesi è astratta. E da Vox parlano già di «riconquista», citando il termine con cui si ricorda il processo storico che portò i cristiani a cacciare gli arabi proprio da Al Andalus – l’attuale Andalusia.
LE REAZIONI a livello nazionale non si sono fatte attendere: Pedro Sánchez ha perso qualsiasi incentivo a sciogliere le camere, così come il Pp, che ora teme davvero di essere fagocitato da Ciudadanos. Alberto Garzón di Izquierda Unida ha chiesto ai partiti catalani di appoggiare la finanziaria di Sánchez per evitare di cadere nelle braccia di Vox e ieri ha definito la situazione «grave e allarmante». Pablo Iglesias domenica sera ha parlato della necessità di «un fronte antifascista» con tutti i partiti che avevano votato la mozione di censura.

il manifesto 4.12.18
Vox, nostalgici, nazionalisti, contro le donne e gli immigrati
Spagna. Cresce l'onda nera con un balzo inaspettato: dai 250mila voti alle europee 2013 ai 400mila delle regionali andaluse di domenica
Santiago Abascal, leader di Vox, in campagna elettorale
di Luca Tancredi Barone


BARCELLONA A scorrere la lista dei nuovi deputati autonomici (regionali) di Vox, è chiaro che i primi a essere increduli del risultato siano loro stessi. A parte il capolista, un ex giudice di famiglia sospeso nel 2011 per abuso d’ufficio per aver modificato il regime di visita di un bambino senza nessun criterio, gli altri 11 neoeletti (4 donne) sono praticamente sconosciuti, fatte salve alcune sporadiche comparsate sui media e sui social. I classici candidati raccattati qua e là (molti ex militari) per riempire quella che doveva essere una lista di bandiera.
L’unica faccia riconoscibile di un partito nato solo cinque anni fa è quella del bellicoso segretario Santiago Abascal, 42 anni, sociologo, ex consigliere basco del Pp, con un pedigree di tutto rispetto: il nonno fu sindaco durante il franchismo e il padre un esponente del partito post franchista, Alianza Popular (da cui poi nacque l’attuale Pp). Lui stesso entrò nel Pp a 18 anni e ci rimase fino al 2013. Quell’anno alle europee Vox raccolse 250mila voti, 1,57% del totale: in Andalusia domenica ne ha raccolti 400mila.
A parte l’unità di Spagna (sottointeso: contro l’indipendentismo catalano), le idee che difende Vox passano per l’abolizione delle autonomie regionali, previste dalla costituzione – proprio ora che sono entrate nello scacchiere politico grazie alle elezioni regionali – a favore di una ricentralizzazione soprattutto in ambito educativo e sanitario; per l’abolizione della legge per la protezione delle donne contro la violenza machista, sopprimendo «gli organisti femministi radicali» e promovendo la creazione di un ministero per la «famiglia naturale»; ovviamente, no all’immigrazione, con criminalizzazione dei migranti (ma con un’apertura alle nazionalità che «condividono la lingue e importanti legami culturali con la Spagna»); protezione della tauromachia e della caccia e divieto per le scuole a impartire insegnamenti di educazione civica o sessuale senza il consenso dei genitori; abbassamento delle imposte con flat tax al 21%, lotta alla corruzione, e abolizione dell’indulto; chiusura delle moschee, lotta contro lo jiadismo, chiusura dello spazio Schengen, muro a Ceuta e Melilla, e naturalmente l’immancabile riconquista di Gibilterra. Il tutto passando per un «piano integrale di conoscenza, diffusione e protezione dell’identità nazionale e del contributo spagnolo alla civiltà e alla storia universale, con speciale enfasi alle gesta e alle imprese dei nostri eroi nazionali».
Nonostante questo, e gli appoggi internazionali (Marine Le Pen è stata fra i primi a congratularsi per i risultati di domenica) Abascal rifiuta l’etichetta di «ultra». Ma l’accento antifemminista, antiLgbt, antieuropeo, autoritario, xenofobo e confessionale collocano Vox nella linea già tristemente tracciata in Francia, Germania, Inghilterra, Ungheria, per non parlare dell’Italia. Non è un caso che Vox abbia acquistato visibilità contemporaneamente alla crisi catalana, per la quale la risposta è stata giudiziaria e repressiva e non politica, o quando il governo Sánchez ha detto di voler togliere i resti di Franco dal monumento nazionale. Mentre Abascal garantisce che saranno «determinanti» in tutta la Spagna, si guarda con timore alle elezioni municipali, regionali ed europee di maggio.

il manifesto 4.12.18
Donne migranti, le più colpite dal decreto Salvini
Diritti. I movimenti e i centri anti-violenza denunciano gli effetti specifici della misura da un punto di vista di genere. Le donne richiedenti asilo in Italia sono quadruplicate negli ultimi tre anni.
di Shendi Veli


Le implicazioni del decreto sicurezza, approvato dalle camere nei giorni scorsi, sono rilevanti per chiunque, ma in modo particolare per le donne. A farlo presente è Dire, la rete dei centri anti-violenza, con un comunicato stampa. Ma sul tema si è espresso anche Non Una di Meno, movimento nato contro la violenza di genere, con una scheda illustrativa sugli aspetti più problematici della misura.
L’ELEMENTO PIÙ CONTESTATO è l’eliminazione della protezione umanitaria. A differenza dell’asilo politico, accordato quasi esclusivamente in base al paese di provenienza, la protezione considerava la condizione individuale del richiedente, e veniva solitamente concessa a chi scappava da catastrofi naturali, discriminazioni, estrema povertà o situazioni di violenza. Per molte donne vittime di tratta ottenere la protezione umanitaria era il primo passo per uscire dalla condizione di schiavitù. «Le donne incinte o con bimbi nati da stupri buttate in mezzo a una strada smascherano definitivamente quell’apparente schierarsi al fianco delle donne con provvedimenti roboanti quanto elusivi tipo il Codice rosso, che di fatto interviene su misure già ampiamente previste dal Codice ma disapplicate nei fatti» afferma la rete Dire.
ALTRA NOVITÀ DEL DECRETO Salvini è l’aumento da 3 a 6 mesi del tempo massimo di permanenza nei Cpr (Centri per il Rimpatrio) per chi perde o non ottiene il permesso di soggiorno. In queste strutture, spesso denunciate per le pessime condizioni igenico sanitarie e la privazione di libertà, sono recluse molte donne. Le migranti, infatti, più soggette a contratti di lavoro a tempo o al lavoro nero, sono le più esposte al rischio di non vedersi rinnovare il permesso. Nel Cpr di Ponte Galeria, vicino Roma, lo scorso 13 Novembre è morta per un malore una donna, Natalia.
SANCITA NEL DECRETO anche la lotta alle occupazioni abitative. Un approccio che senza un investimento strutturale nell’housing sociale, rischia di lasciare migliaia di persone per strada. «Le donne, in particolare le madri single, trovano spesso nelle occupazioni l’unica soluzione praticabile all’emergenza abitativa, soprattutto quando costrette ad allontanarsi da un partner violento» spiega Enrica Rigo, Non Una di Meno – Roma.
INOLTRE LE NUOVE NORME sulla cittadinanza rivedono in senso restrittivo quelle vigenti, in particolare allungano i tempi di acquisizione della cittadinanza attraverso il matrimonio, rendendo l’iter burocratico dell’integrazione più difficile. Anche questa misura colpisce soprattutto le donne straniere che, stando alle statistiche Istat, sono il quadruplo rispetto agli uomini nei matrimoni misti.
«LA MASCOLINITÀ DEI MURI come la chiama Wendy Brown» dice Enrica Rigo, docente di Diritto dell’immigrazione e della cittadinanza a Roma Tre «sembra riflettere anche una presunta mascolinità di ciò da cui questi muri dovrebbero difendere, la realtà è che il decreto Salvini colpisce in primis le donne e i minori, non solo perchè soggetti più vulnerabili come spesso si usa dire, ma perchè soggetti coinvolti nel lavoro riproduttivo e di cura, e per questo più ricattabili».
NEGATO ANCHE IL DIRITTO ad avere una residenza per i richiedenti asilo. «Questa misura è gravissima, in particolare per le donne richiedenti, spesso vittime di tratta, che nei centri antiviolenza hanno finora trovato un sostegno concreto per dare una svolta alla propria vita» si legge nel comunicato della rete Dire. «La marea femminista» aggiunge Enrica Rigo «fa sua la battaglia per la libertà di movimento, siamo al fianco delle donne che attraversano i confini per fuggire dalla violenza e dallo sfruttamento».

Corriere 4.12.18
«Noi, maggioranza senza potere»
Le donne e l’idea di un nuovo soggetto politico
di Monica Ricci Sargentini


Le donne in Italia sono il 51,3% della popolazione, eppure il loro potere è ridotto al minimo. Sui giornali le firme delle editorialiste si contano sulla punta delle dita. La politica ormai parla solo al maschile, soprattutto a sinistra. Le donne sono sparite, messe in un angolo a guardare. E lo stesso accade nel mondo del lavoro dove sono sommerse da una scansione dei tempi maschile ben rappresentata dalle riunioni interminabili cui partecipano. Come uscire dall’angolo? Se lo sono chieste diverse femministe in un’affollata e molto sentita assemblea sabato scorso alla Casa Internazionale delle Donne di Roma. «La civiltà è nella mani delle donne. Oggi più che mai: facciamoci avanti» il titolo dell’incontro che si proponeva di «ragionare della miseria di una politica sempre più misogina».
«Abbiamo un’enorme potenza ma non abbiamo governo — dice Alessandra Bocchetti, una delle figure fondanti del femminismo italiano —. C’è ancora chi vorrebbe convincerci che siamo aggiuntive, non indispensabili. Siamo stufe di essere trattate da minoranza quando siamo la maggioranza».
L’idea è di cogliere lo slancio del movimento MeToo per buttarsi alle spalle l’icona della donna vittima e rilanciare la differenza femminile che può portare a un cambiamento positivo nella società. «Tutto quello che era femminista — dice Daniela Dioguardi dell’Udi — è stato masticato dal patriarcato e ci è tornato contro. L’affido condiviso, per esempio, è nato dal nostro desiderio di condividere la genitorialità ed è stato tramutato da Pillon in un’arma contro le madri. Con lo slogan “né puttane né madonne” non intendevamo certo rendere la prostituzione un lavoro né abbiamo mai pensato all’autodeterminazione come a un commercio di pezzi di corpo femminile». «Gli uomini non sono consapevoli della differenza — dice la presidente di Arcilesbica Cristina Gramolini — pensano che essere uomo e essere donna sia la stessa cosa. I maschi trovano nella prostituzione soddisfazione, tutto il sesso è buon sesso».
Nella sala Carla Lonzi parlano anche le nuove generazioni. Martina Caselli, 29 anni, dei collettivi Dipende da noi donne, detta l’agenda delle questioni: «Siamo contro la tratta e la prostituzione, contro la mercificazione del corpo, contro le mistificazioni queer, è difficile chiamarsi femministe se si pensa che le donne non esistano». Arianna di Vitto, 30 anni, del gruppo RadFem Italia, denuncia l’occupazione maschile in Non Una di Meno: «È come se il patriarcato si fosse camuffato da femminista».
Tutte chiedono azioni da tradursi nella nascita di un nuovo soggetto politico. C’è chi pensa già alle europee come Roberta Gasparetti della Rete delle donne per la rivoluzione gentile: «Parliamo alla maggioranza delle italiane, possiamo contare». «Nominiamo la differenza, proponiamo un nuovo patto» dice Gramolini. «Sfidiamo il politicamente corretto e cominciamo a dire la verità su come sono organizzati i luoghi di lavoro, sulle politiche del biomercato — è la proposta di Marina Terragni che ha appena pubblicato il libro Gli uomini ci rubano tutto —. È il salto quantico che produrrebbe la rivolta come la intendeva Carla Lonzi, cioè del tutto incruenta, per riportare nel giusto ordine, a camminare sulle proprie gambe, tutto ciò che è stato rovesciato e che non cammina più».

il manifesto 4.12.18
I caratteri originari di una trasformazione
«Storia dell’immigrazione straniera in Italia» di Michele Colucci, per Carocci. Il libro verrà presentato oggi
di Michele Nani


«Crisi della storia»: l’espressione circola da anni, sintetizzando gli smarrimenti scientifici della ricerca, la perdita di peso politico-culturale delle discipline e la de-alfabetizzazione di massa alla critica storica. Molti processi concreti contribuiscono alla percezione di una «crisi», ma la rappresentazione unificante sarebbe forse da mettere in discussione. Ad esempio ricordando che anche la «crisi della storia» ha una sua lunga storia: ripercorrerla illuminerebbe le trasformazioni delle società europee. Oppure, ponendosi una semplice domanda: quale «storia» è in crisi?
L’ultimo libro di Michele Colucci, una sintesi della Storia dell’immigrazione straniera in Italia. Dal 1945 ai nostri giorni (Carocci, pp. 243, euro 18; il volume verrà presentato oggi, alle 17, alla biblioteca Ariostea di Ferrara, poi il 7 al teatro Bellini di Napoli e il 13 all’università di RomaTre), conferma che c’è ancora bisogno dello sguardo storico e che la storia è essenziale per leggere il presente.
PUÒ SEMBRARE incredibile, ma fino ad oggi, quando l’8,5% della popolazione residente è straniera (oltre 5 milioni, senza considerare le centinaia di migliaia di acquisizioni di cittadinanza), non esisteva una ricostruzione generale delle vicende di immigrati e immigrate in Italia. La scienze sociali italiane, demografia e sociologia su tutte, si sono impegnate in un importante lavoro di analisi, ma spesso confinato al presente o al suo immediato retroterra.
LA STORIOGRAFIA contemporaneistica ne ha spesso accettato uno dei presupposti: l’immigrazione in Italia sarebbe fenomeno «recente» e a lungo trascurabile. Il volume smentisce questi ed altri luoghi comuni e colma finalmente una lacuna, nel migliore dei modi, setacciando la bibliografia esistente e presentando sobriamente dati e interpretazioni, per risalire fino al 1945 alla ricerca di continuità e rotture nell’esperienza della migrazione verso il Belpaese.
IN QUESTO LIBRO ricchissimo, il lettore troverà le matrici prime delle politiche migratorie: l’esperienza dei profughi post-bellici, il diritto d’asilo in Costituzione, la ripartizione di competenze istituzionali e la formazione di una percezione durevole. I primi flussi, di studenti, ex-sudditi coloniali, lavoratori jugoslavi e domestiche, evidenziano l’incapacità di predisporre politiche che considerino le migrazioni un dato strutturale.
I «caratteri originari» dell’immigrazione in Italia sono l’intreccio fra determinanti economiche e politiche, la molteplicità di provenienze e destinazioni, la forte mobilità, l’istruzione e la presenza femminile. Molti sono condivisi con i paesi mediterranei, non solo della sponda europea. Lacune e ambiguità giuridiche si sono ripetutamente tradotte nella discrezionalità dell’intervento pubblico, che ha delegato al mercato del lavoro – e a soggetti ecclesiastici e sindacali – l’integrazione, salvo poi riconoscerla attraverso periodiche sanatorie.
DAL QUADRIENNIO 1989-1992 si è imposta una svolta e l’immigrazione è da allora al centro del dibattito, inserita nelle cornici europee (e nell’allargamento dell’Unione). Da allora si è registrato un rapido aumento dei flussi, indeboliti solo dalla crisi economica e dalle precarizzazione dell’ultimo decennio. Lo sguardo storico evidenzia il costante «emergenzialismo» degli interventi, che penalizza e complica le migrazioni ordinarie.
Questa Storia dell’immigrazione è un libro prezioso, facilmente leggibile perché ben scritto: dunque da leggere e far leggere nelle scuole e nelle università, ma utile anche agli operatori, istituzionali e non, delle politiche migratorie e, naturalmente, agli stessi immigrati e nuovi cittadini, che troverebbero in queste pagine riconosciuto il loro attivo protagonismo nelle trasformazioni della società italiana nell’ultimo mezzo secolo.
SCHEDA
Il libro Storia dell’immigrazione straniera in Italia di Michele Colucci verrà presentato: martedì 4 dicembre, ore 17: Biblioteca Ariostea Ferrara (con l’arcivescovo Gian Carlo Perego, Alfredo Alietti e Michele Nani); venerdì 7 dicembre, ore 16:30: teatro Bellini di Napoli (con Najhi Ahmed, Enrico Pugliese e Hillary Sedu); giovedì 13 dicembre, ore 9:15: Università di RomaTre (via Ostiense 234), con Gaetano Sabatini e Francesco Dandolo

il manifesto 4.12.18
Netanyahu, un premier sull’orlo di una crisi di nervi
Israele . Il primo ministro israeliano ha reagito con rabbia e rivolgendo accuse pesanti agli organi inquirenti dopo la terza richiesta di incriminazione per corruzione che la polizia ha presentato al procuratore generale Mandelblit
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Benyamin Netanyahu ieri ha provato a mostrarsi calmo e concentrato sull’incontro che avrebbe avuto sull’Iran in serata a Bruxelles con il Segretario di stato americano Mike Pompeo. Ma non ce l’ha fatta a mantenersi freddo. Ad un certo punto è esploso, lasciandosi andare a commenti scomposti contro polizia e magistratura, al limite dell’isteria come ha fatto notare Yossi Verter sul sito di Haaretz. Un segno evidente che la terza richiesta di incriminazione per corruzione contro di lui presentata domenica dalla polizia gli ha fatto capire che le possibilità di cavarsela sono davvero poche.
La carriera politica di Netanyahu, da quasi 10 anni ininterrottamente al potere, potrebbe arrivare al capolinea nel giro di qualche mese. Non perché rischia di perdere le elezioni che si terranno il prossimo anno. I sondaggi, anche con le accuse di corruzione, lo danno sempre in cima alla lista dei politici preferiti dagli israeliani. E non è in bilico per aver incarnato l’ultranazionalismo imbevuto di religione che governa Israele e che esclude un compromesso territoriale con i palestinesi da 51 anni sotto occupazione militare. E neppure perché continua ad insistere, in accordo con l’Amministrazione Trump, sulla possibilità di una guerra all’Iran pur sapendo che avrebbe conseguenze devastanti in Medio oriente. E non sarà la causa della sua caduta la legge antidemocratica che tanto Netanyahu ha voluto su Israele-Stato della nazione ebraica che, nero su bianco, ha tracciato una divisione netta, carica di insidie, tra i cittadini ebrei e quelli arabi. Netanyahu paradossalmente potrebbe farsi da parte perché ha accettato regali costosi da amici miliardari alla ricerca di un occhio di riguardo per i loro investimenti e per aver tentato guadagnarsi i favori di un quotidiano, lo Yediot Ahronot, e di un portale d’informazione, Walla, che di solito lo attaccano.
Il capo della polizia uscente, Roni Alsheich, due giorni fa ha chiesto che il primo ministro sia processato nell’ambito nel cosiddetto “Caso 4000”. È sospettato – in qualità di ministro delle comunicazioni, oltre che premier, negli anni dal 2014 al 2017 – di essere intervenuto per favorire Shaul Elovitch, azionista di maggioranza del gigante delle telecomunicazioni Bezeq e proprietario di Walla, in cambio di una copertura mediatica favorevole per lui e la moglie Sarah (inquisita in un’altra inchiesta). È, più o meno, la stessa ipotesi di reato del “Caso 2000”: Netanyahu avrebbe chiesto al direttore del quotidiano Yediot Ahronot di smettere di attaccarlo in cambio di provvedimenti restrittivi nei confronti del giornale rivale Israel HaYom, che pure è considerato il megafono del governo. Ci sono prove – dice la polizia – «che Netanyahu e quelli più vicini a lui siano intervenuti in modo evidente sui contenuti pubblicati da Walla».
Spetta al Procuratore generale Avichai Mandelblit decidere se andare al processo. Netanyahu con le accuse di «caccia alle streghe» rivolte ieri alla polizia, non si è certo fatto un favore. E disastrose per la sua posizione sono state anche le parole usate da un suo fedelissimo, David Amsalem, che ha parlato di «tentativo di colpo di stato». Mandelblit ha difeso ed elogiato le indagini svolte dalla polizia e ha categoricamente negato di voler prendere tempo in modo da far coincidere la sua decisione con le elezioni. I laburisti, il Meretz e altre forze di opposizione da parte loro chiedono che Netanyahu si dimetta subito. Spiegano che un primo ministro di cui è stata chiesta per tre volte l’incriminazione per corruzione non può rimanere al suo posto.

La Stampa 4.12.18
Mariupol fra blocco navale e la paura dell’assalto russo
“Stanno strozzando la città”
di Giuseppe Agliastro


Prospekt Miru. Viale della Pace. Si chiama così la strada principale di Mariupol. Un nome che si spera sia di buon auspicio, perché Mariupol adesso è una città messa in ginocchio dalla guerra.
Gli ucraini temono che possa essere il prossimo obiettivo di Putin nel caso di una nuova offensiva dei separatisti filorussi: è un centro di grande importanza economica e strategica, il fronte dista pochi chilometri e la sua conquista potrebbe unire la Crimea occupata dalla Russia ai territori del Sud-Est ucraino in mano ai ribelli. Accuse «assolutamente assurde», ribattono dal Cremlino.
Ma a strozzare questa città di mare di 450.000 abitanti e il suo porto - come denunciando in molti - sono adesso il ponte di Crimea e il presunto «blocco navale» provocato dallo scontro tra Mosca e Kiev attorno al Mare d’Azov: un fazzoletto d’acqua chiuso tra la penisola sul Mar Nero, il Donbass in guerra e la Russia meridionale. È proprio sul Mare d’Azov che si affaccia Mariupol, vera porta marittima del Donbass. Da qui l’Ucraina esportava nel mondo carbone, acciaio e cereali. Ma lo scalo è ora ridotto a un deserto di vecchie gru immobili davanti al mare gelato.
Le merci non arrivano più
Dalla collina che domina la baia, un territorio vasto 75 ettari, si vedono sì e no due o tre navi. La colpa è della guerra nel Sud-Est ucraino. Se nel 2013 dal porto di Mariupol transitavano 15,5 milioni di tonnellate di merci, nel 2017 erano appena 6,5. La situazione è però precipitata quest’anno, dopo l’inaugurazione del ponte che unisce la Russia alla Crimea attraversando lo Stretto di Kerch, cioè l’unica via d’accesso al Mare d’Azov.
Secondo il direttore dell’Istituto navale del Mare d’Azov, Aleksandr Lisiy, è proprio il ponte il vero problema. «É alto appena 35 metri - spiega - e molte navi di grande tonnellaggio adesso non possono più raggiungere il nostro porto. Si tratta del 30 o del 40% dei vascelli che prima attraccavano regolarmente a Mariupol».
Il controllo di Kerch
Il controllo del Cremlino sullo Stretto di Kerch è ora virtualmente totale. La dimostrazione si è avuta a fine novembre, durante lo scontro sullo stretto tra le forze navali di Mosca e quelle di Kiev.
Ai russi è bastato piazzare una nave cisterna sotto il ponte per impedire l’accesso al Mare d’Azov non solo ai tre piccoli battelli militari ucraini poi catturati con il loro equipaggio, ma in pratica a qualsiasi imbarcazione. Questo episodio ha scatenato una nuova escalation nella crisi tra Russia e Ucraina.
I tank di Poroshenko
È però da mesi che Mosca rallenta il traffico marittimo nella zona con controlli serrati sulle navi dirette verso i porti ucraini o salpate da lì. Per Mariupol potrebbe essere il colpo di grazia. La settimana scorsa, il governo ucraino ha denunciato che 18 navi sono state bloccate e restano in attesa di poter attraversare lo stretto di Kerch.
«Da maggio a novembre - accusa Kiev - la Russia ha compiuto circa 750 fermi illegali di navi». Per il Cremlino non è vero nulla. La Russia - ha ribattuto il portavoce di Putin - non sta bloccando il traffico marittimo, le uniche interruzioni «sono dovute al maltempo».
Il quartiere del porto è costellato di edifici abbandonati e magazzini vuoti. Non c’è traccia di camion diretti allo scalo per scaricare le loro merci. In compenso, domenica sono sbarcati a Mariupol decine di carri armati delle truppe ucraine. Il presidente Petro Poroshenko sostiene che i russi stiano ammassando truppe al confine e così ieri ha annunciato una parziale chiamata in servizio dei riservisti per attività di addestramento e ha ribadito l’invito alla Nato a rafforzare la sua presenza nel Mar Nero.
Mariupol è insomma al centro delle tensioni tra Mosca e Kiev. Le vie della città sono piene di militari, e chi arriva alla stazione ferroviaria dopo tante ore di treno – da Kiev ce ne vogliono 18 – non può non notare i poliziotti di pattuglia col mitra spianato.
Eppure, secondo la gente del posto, l’introduzione della legge marziale, decisa una settimana fa, non ha cambiato molto. Per molti «è solo politica».
«Temiamo un’offensiva»
Viale della Pace è poco illuminato ed è reso scivoloso dal ghiaccio. C’è però chi non rinuncia a una passeggiata nel parco dietro al teatro comunale. Alyona ha 26 anni e tiene in braccio la sua bambina. Dice di sentirsi ucraina e pensa che a provocare la guerra sia stato Putin. «Certo che temiamo una nuova offensiva dei separatisti - spiega - ma non sappiamo se e quando avverrà. Per ora viviamo alla giornata». «Parlo russo e mi sento russo», racconta invece Andrey, un uomo sulla quarantina. Per lui la rivolta di Maidan è stato «l’errore che ha scatenato questo caos».
«Le rivoluzioni - dice - non portano mai nulla di buono». Aleksey ha 25 anni e non nasconde di aver simpatizzato per i separatisti quando questi hanno occupato la città. «Ma ora – assicura – ho capito che Mariupol è ucraina, e dopo che i razzi dei miliziani hanno fatto strage di civili nel 2015 ho capito anche un’altra cosa: l’unica cosa che voglio è la pace».

Corriere 4.12.18
Esposizione fino al 6 gennaio
Sfidò il fascismo usando la matita
Milano ricorda Giuseppe Scalarini


Sono tre le sedi della mostra che Milano, da domani al 6 gennaio, dedica alla figura del disegnatore socialista mantovano Giuseppe Scalarini nel settantesimo anniversario della sua scomparsa, avvenuta il 30 dicembre 1948. Una parte dell’iniziativa, organizzata dalla Fondazione Anna Kuliscioff in collaborazione con l’Unione femminile nazionale, si tiene a Palazzo Moriggia, presso il Museo del Risorgimento (via Borgonuovo 23) e si concentra su alcuni aspetti delle vignette pubblicate in prevalenza sull’«Avanti!», quotidiano del Psi: il bestiario, con l’uso di animali antropomorfi; le immagini di burattini; i richiami danteschi; l’uso della prospettiva; le raffigurazioni della scuola. Un altro polo è la sede dell’Unione femminile (corso di Porta Nuova 32), con lo sguardo di Scalarini sul mondo femminile. Infine a Palazzo Morando (via Sant’Andrea 6) va in mostra la Milano di Scalarini. Nato nel 1873, il disegnatore socialista fu tra le matite più efficaci e corrosive del suo tempo, avversario di ogni militarismo e nemico giurato dei fascisti, che lo aggredirono più volte. Sotto il regime fu condannato al confino. (j. ch.)

Repubblica 4.12.18
Chiediamo a Keynes come sta davvero l’editoria
Laterza ripubblica (gratis) un saggio del grande economista
di Stefania Parmeggiani


“Comprare un libro non dovrebbe essere considerato una stravaganza ma un’opera meritoria, un dovere sociale”.
Quando John Maynard Keynes scrisse queste parole il mondo non era ancora stato travolto dalla Grande Depressione. Era il 1927 e l’economista inglese affidava al settimanale The Nation and Athenaeum le sue riflessioni sul mercato editoriale. Keynes si chiedeva quale fosse, nell’Inghilterra di quegli anni, il potere delle idee espresse attraverso i libri. Giudicando insoddisfacente il reddito di editori, autori e librai, l’economista andava a caccia del colpevole. Perché gli editori di Londra, tutti assieme ed esclusi coloro che si occupavano di letteratura scolastica e commerciale, guadagnavano complessivamente quanto bastava per campare a un grosso commerciante di tessuti? Perché gli autori, esclusi pochi fortunati bestselleristi, si ritenevano fortunati a vedersi pubblicati senza pagare? Novant’anni dopo l’editore Laterza ripropone quegli interrogativi nel pamphlet gratuito I libri costano troppo?, affiancando all’articolo originario di Keynes una lettera al direttore scritta dieci giorni dopo la pubblicazione, i riferimenti più importanti al settore dell’editoria contenuti nei suoi articoli accademici e uno stralcio della trasmissione radiofonica della Bbc andata in onda il 1° giugno 1936.
Materiali che tengono insieme calcoli aritmetici (la scomposizione del prezzo di copertina per individuare quali siano i costi di produzione, le spese e i profitti) e valutazioni economiche (proiezioni sul mercato di una eventuale diminuzione del prezzo) per giungere alla conclusione che i colpevoli sono i lettori: fino a quando non aumenteranno, pubblicare sarà un gioco d’azzardo.
Nelle pagine conclusive l’economista Oliviero Pesce, che ha curato l’edizione del pamphlet, compara il mercato editoriale del tempo di Keynes con quello britannico attuale, fotografa la situazione in Italia, catena distributiva compresa, e raffronta i due paesi. Nonostante i segni di ripresa della produzione libraria e l’aumento della quota di mercato dei piccoli editori – su cui però incide una variazione dei criteri di classificazione –, la situazione italiana è molto difficile. Il male è lo stesso individuato da Keynes: troppi libri sugli scaffali, la maggior parte dei quali condannati all’invisibilità, e pochi, pochissimi lettori. Con un’aggravante figlia del nostro tempo: assediati dalle parole – della radio, della televisione, del cinema, dei social – il tempo e la concentrazione per una vera lettura vengono sempre più erosi.
Perché dunque parlarne ancora? E per di più attraverso un libro?
La risposta è nelle note dell’editore: Giuseppe Laterza scrive che per lo sviluppo civile oltre che economico del nostro Paese la strategia vincente è l’investimento in cultura, di cui la lettura è parte essenziale. Se la Teoria generale di Keynes aveva l’ambizione di rivoluzionare il modo in cui il mondo ragiona sui problemi economici, la sua analisi del mercato editoriale potrebbe essere utile a individuare le strategie necessarie a sostenere gli investimenti in cultura e in definitiva a formare una classe dirigente competente, responsabile e curiosa nei confronti del mondo. «Mi piacerebbe mobilitare un esercito poderoso, che superi il numero dei bevitori di birra, di chi ha la testa per aria, dei fissati per la mostarda, un esercito di topi di biblioteca che si impegnino a spendere £ 10 all’anno per i libri, e nei ranghi più elevati della Confraternita, a comprare un libro ogni settimana». Era il sogno di Keynes novant’anni fa. È il sogno degli editori ancora oggi.

Corriere 4.12.18
Dall’antica Neapolis a de Magistris, Storia di una città indefinibile
Paolo Macry traccia per il Mulino una mappa culturale, artistica e politica dell’identità napoletana
di Marco Demarco

Duemilacinquecento anni di vita e ancora cerca un futuro e una identità. Per questo, sebbene sia una delle città più scritte e raccontate del mondo, Napoli è praticamente impossibile da definire. Se la prendi da un lato ti scappa dall’altro; se ne cogli il declino ti sfugge il rinascimento. «Napoli è la somma delle sue parti e ci vuol altro che un intellettuale per mutilarla con un po’ di teoria», dice Paolo Macry. Storico e analista politico, Macry parla di se stesso. È lui l’intellettuale in questione, e le parti a cui accenna sono le tante contraddizioni del luogo in cui vive da quasi cinquant’anni, lo stesso di cui si occupa nel suo ultimo libro, Napoli. Nostalgia di domani (il Mulino). La sua sembra una partenza rinunciataria, un prendere atto che una città così carica di storia non la tieni dentro un’unica idea come una moneta in un pugno, tanto più se «è il prodotto di un immaginario, e di racconti ossificati, che spesso la stringono in panni troppo stretti». Invece, è proprio a partire da questo spiccato senso del limite che Macry è riuscito a scrivere un libro agile (200 pagine per procedere dalla Neapolis greco-romana a quella attuale) e denso allo stesso tempo. Un libro di storia, ma in parte anche autobiografico. Una guida ai luoghi della cultura e dell’arte, ma soprattutto una guida politica.
Napoli è una città immobile, si dice. E allora come la mettiamo, contesta Macry, con la rivoluzione del 1799 poi decapitata in piazza o con quell’altra ghigliottina epocale che fu il 1860 o, ancora, con le Quattro giornate del 1943? Napoli è decantata per la presunta mescolanza residenziale tra élite e popolo. Ma è uno stereotipo anche questo. Un abisso ha sempre diviso il popolo dai «signori», e nel 1884, tanto per dirne una, il colera fece dieci volte più vittime nella città bassa che nei pressi della centrale piazza del Plebiscito. Poi c’è il pregiudizio esterno sul ceto politico locale, spesso valutato ad una sola dimensione, quella corrente. Anche qui Macry sorprende. Prendiamo i «sovrani repubblicani», i sindaci. Il monarchico Achille Lauro fu a suo modo un innovatore. Rispose alle richieste materiali di una città uscita a pezzi dalla guerra e la sua leadership carismatica, unita a un’idea di grande destra, anticipò di quarant’anni quella di Berlusconi. Il post-comunista Antonio Bassolino ha avuto alti e bassi, ma le sue politiche culturali hanno lasciato il segno, si vedano la metropolitana dell’arte e le opere di Paladino o Kapoor in piazza Plebiscito. E attenzione anche al populista Luigi de Magistris. Il suo laissez faire ha prodotto inefficienza amministrativa, ma ha tenuto insieme segmenti professionali e generazionali assai diversi tra loro, superando incompatibilità ideologiche e sociologiche.
I pregiudizi
L’immobilismo, si dice: ma come la mettiamo con il 1799 o le Quattro giornate del 1943?
Infine, la questione del giudizio interno sugli scrittori che si sono occupati in modo critico e allarmati di Napoli. Città tollerante? Fino a un certo punto. A Pasquale Villari Napoli rimproverò di parlare senza conoscere le cose. A Matilde Serao le chiese chi la pagasse. A Malaparte, Ortese e Saviano ha rinfacciato di lucrare sui suoi mali per ricavarne successo personale. Tutto questo, si spiega nel libro, è «negazionismo identitario». Meglio: è la conferma di una debolezza identitaria apparentemente incomprensibile in un territorio cosi ricco di cultura. Ma in fondo il problema è proprio questo. «A Napoli — dice Macry — è storicamente mancato, e manca ancora oggi, un sistema culturale capace di dare vita a una stabile identità. Non qualche brillante intellettuale che costruisca il paradigma dell’essere napoletani, ma un flusso di cultura che innervi la comunità, tendenzialmente l’intera comunità, e le dia gli strumenti della consapevolezza».

il manifesto 4.12.18
Narciso, Pigmalione e Prometeo tra le maglie del tecnocapitalismo
Saggi. «La grande alienazione» di Lelio Demichelis, pubblicato da Jaca Book
Prometeo di Nicolas Sebastien Adam
di Benedetto Vecchi


Tre figure simbolo dell’animale sociale umano. Narciso, Pigmalione, Prometeo sono i nomi di uno spericolato, ma attentamente sorvegliato, slalom che viene rappresentato nel nuovo libro di Lelio Demichelis La grande alienazione (Jaca Book, pp. 281, euro 25).
SONO DECENNI che l’autore si misura con la grande trasformazione della «rivoluzione del silicio», muovendo da una robusta tradizione sociologica (Max Weber) e da una variegata costellazione filosofica (Martin Heidegger, la scuola di Francoforte, la tecnoscienza di Jacques Ellul). Per Demichelis, la tecnica è il «mezzo» per piegare la natura ai bisogni umani, ma nel corso del tempo ha acquisito un potere che sovradetermina le relazioni sociali. È diventata la leva per cambiare rapporti – anche di potere – nelle formazioni sociali.
Nel lungo, travagliato tramonto dell’Occidente, si è consumato anche questo ribaltamento di ruolo per le scienza e la tecnologia: da dispositivo teorico per comprendere la realtà a manifestazione di un potere performativo di quella stessa realtà. Un cambiamento non da poco. Se fosse solo così.
ALLORA, NARCISO, Pigmalione e Prometeo. Edonismo di massa, dissoluzione corrosiva del legame sociale in nome di un sé sempre eccedente rispetto lo stare in società. Ma anche contraddittoria attitudine pedagogica scandita da una evidente propensione manipolativa (non c’è nessun maestro ignorante all’orizzonte, ma solo accorti e sofisticati manipolatori). Pigmalione, infatti, mette in forma, secondo codici socialmente dominanti, soggettività che alla fine devono essere «allineate e coperte» allo status quo. Infine, Prometeo, cioè la spinta compulsiva a piegare la natura alle necessità terrene, sfidando gli dei, i depositari delle verità ultime e prime sulla vita, la società, gli umani.
LELIO DEMICHELIS è consapevole che deve vedersela con altre tradizioni teoriche e politiche. Il marxismo, ovviamente, e la sua critica all’economia politica, ma anche con quanto la network culture ha depositato in questi densi quarant’anni, dove il nesso tra assoggettamento volontario e potere costituito parla spesso il lessico di una libertà radicale dell’espressione, come testimonia la quotidiana esperienza comunicativa con i social network: le informazioni, il chiacchiericcio, i post, i like, le immagini condivise sono materie prime da elaborare e impacchettare per essere vendute e fare profitti (i Big data), facendo leva su un deposito specialistico dell’intelligenza artificiale.
L’AUTORE PRENDE posizione. Sa che la forma dominante della produzione della ricchezza – la fabbrica taylorista, che funziona weberianamente anche come gabbia di acciaio – ha lasciato il posto a un pulviscolo di nodi produttivi (la fabbrica sciame) costringendo management, sistemi istituzionali e lavoro vivo a una radicale ridefinizione delle proprie soggettività politiche. Demichelis, a ragione, è propenso a sostenere che lo hanno fatto meglio imprese e governi più che il lavoro vivo, dati i rapporti di potere esistenti e vigenti.
Che tutto si racchiuda dentro una Grande alienazione non c’è dunque da stupirsi. All’orizzonte, però, si profilano un bel po’ di problemi. Cosa intende Demichelis per alienazione? Sicuramente la separazione tra umani e mezzi di produzione evidenziata da Karl Marx che riduceva gli umani a cose. Ma in questo libro alienazione è molto altro. Ha infatti a che fare con la psicoanalisi, con l’incubo ossessivo del riconoscimento di sé, con il diffuso e nichilista disagio psichico.
LA CRITICA del tecnocapitalismo, sostiene Demichelis, passa attraverso l’articolazione e l’arricchimento di questo concetto, che mette a nudo il fatto che la colonizzazione della vita privata e pubblica è ormai un fenomeno irreversibile, facendo cadere miseramente nella polvere l’alto corno della coppia assoggettamento e libertà. Libertà non è all’orizzonte, se non come aspirazione finale, come esito di fenomeni di lunga durata che prevedono un gradualismo e un riformismo della soluzioni proposte per calmierare gli effetti violenti del tecnocapitalismo. In altri termini, la forma dominante di produzione della ricchezza non prevede più la presenza di un soggetto della liberazione, bensì una moltitudine – una specie di marmellata – di singolarità che come monadi passano dall’edonismo di massa alla ricerca di un pigmalione fino a diventare soldatini nella mobilitazione prometeica per innovare la produzione della ricchezza. La sensazione è quella di voler svuotare l’oceano con secchiello.
QUESTA LA PROVOCAZIONE dell’autore che nel corso della sua lunga traiettoria teorica ha accumulato studi e ricerche tese a dare consistenza alla costruzione di una teoria critica del presente, come testimoniano i recenti Sociologia della tecnica e del capitalismo (Franco Angeli), la Religione tecno-capitalista (Mimesis), Bio-tecnica (Liguori). Di questo puzzle in costruzione la grande alienazione costituisce punto di passaggio, di snodo. Insomma, il viaggio dell’autore continua.

Repubblica 4.12.18
Corrado Guzzanti “Il cinema di oggi? È televisione di lusso”Dopo il ritorno alla “Tv delle ragazze” con il poeta Robertetti l’attore romano veste i panni di un preside nella commedia sull’integrazione “La prima pietra”

intervista di Arianna Finos

ROMA La buona notizia per chi ha apprezzato Corrado Guzzanti in versione poeta Robertetti alla Tv delle ragazze è che, da giovedì, l’attore sarà al cinema nella commedia (amara) La prima pietra di Rolando Ravello. «Una delle rare volte in cui non mi chiedono di fare il caratterista, cose già fatte in tv: è un po’ la mia condanna. Qui recito con la mia voce, anche se è una commedia non sempre realistica. Mi era piaciuto il testo di Stefano Massini, alla Carnage: un gruppo di persone in una stanza, nessuna innocente».
Il suo preside è ossessionato dalla recita di Natale.
«Un preside frustrato, conciliante fino al ridicolo, lavora in una scuola piena di immigrati e nello spettacolo di Natale mette i buddisti. D’altro canto è evidente la sua vera natura: non gliene frega niente degli alunni. Questa recita che assorbe il budget di una scuola in cui manca la carta igienica soddisfa solo il suo narcisismo».
Nella scuola di oggi il problema sono anche i genitori.
«I bimbi, dice il film, non sono mai naturalmente razzisti, se non quando vengono da una famiglia che gli inculca quei messaggi.
Ma sopra l’idea di uno stato naturale utopistico, una benevola idea di convivenza, c’è una polveriera: dal sasso tirato alla finestra da un alunno si finisce nel caos».
Non facile raccontare in commedia l’integrazione.
«La tematica dell’immigrazione ormai è diventata uno strumento offensivo in campagna elettorale.
Ha ragione Nanni Moretti: la sinistra non ha realmente fatto ciò che doveva con la sacrosanta legge dello ius soli. È stata una scelta consapevole. I politici invece di dare l’esempio e guidare il popolo italiano secondo alcuni principi, sono al contrario una classe sempre più improvvisata: “Cosa vogliono?
Che cacci i neri sotto casa? E io lo faccio”. L’altro tema, l’integrazione, è un problema di ingegneria nucleare, da non dare per scontato: occorre sforzo e preparazione».
Nel film si ride, lei interpreta anche il bue nel presepe.
«Leggendo la scena non pensavo di salire sul tavolo e fare il bue. Dura molti minuti, in pratica uno spin off. Un esercizio di quelli cattivi di scuola di recitazione...».
I suoi ricordi scolastici?
«Elementari montessoriane nella scuola dove ora va mio nipote, il figlio di Caterina. Medie sperimentali. Al liceo, tornato alla normalità, ho dovuto imparare ad alzarmi in piedi e dare del lei».
Che bambino era?
«Creativo. Disegnavo, scrivevo molto. Leggevo fumetti, tradizione familiare: mio padre in ospedale alla mia nascita aveva il numero uno di Linus, sono sincronizzato con la raccolta. Volevo fare il disegnatore di fumetti fino al liceo. Spedivo alle case editrici, nessuno rispondeva, mandavo letteracce».
I suoi genitori?
«Vengo da un’epoca in cui i bambini non se li filava nessuno. Andavo da solo a scuola in bus, il pomeriggio uscivo dal cancello e tornavo per cena: “A quest’ora? Lavati che sei sporco”. Della mia adolescenza i miei sanno poco. Mi hanno bocciato e ho recuperato l’anno con una corsa micidiale, a quell’età il tempo sembra importante. Poi ne ho persi sei dopo i quaranta...» .
Quando ha scoperto la vena comica?
«Ero un giocherellone, ma a quindici anni, con un mio amico, ci siamo messi a scrivere racconti seri, oggi andati perduti sennò sai che risate. Poi ho iniziato a farne io stesso le parodie. Le ha intercettate Sabina, che si stava diplomando alla Silvio D’Amico. Non c’era lavoro, se non per la tv in cose comiche.
Per i primi anni ho fatto l’autore per lei, che era esigente e discutevamo parecchio. Poi ho continuato in proprio».
È tornata “La Tv delle ragazze”. Si è divertito?
«Volevano Vulvia, la divulgatrice scientifica, ma io ho detto no: alla parola Vulvia ho mal di piedi immediato, collegato a quelle scarpe dolorosissime da trans che mi infilavano. Ho pensato al poeta Robertetti e a un discorso sulle donne dal suo punto di vista.
Ora riprenderò I delitti del BarLume, il mio assicuratore veneto che mi ricorda Sordi e I due gondolieri ».
Le commedie che ama di più?
«Il trittico di Scola, La terrazza, C’eravamo tanto amati
e Riusciranno i nostri eroi, Monicelli e Brancaleone. Negli ultimi anni è difficile trovare film di quella caratura. Il cinema di oggi è in realtà una televisione di lusso».