lunedì 3 dicembre 2018

Repubblica Robinson 2.12.18
Vittorio Lingiardi, Melania Mazzucco, Massimo Recalcati, Silvia Ronchey, Luigi Zoja
Forever Jung
di Silvia Ronchey


Dove nasce la raffigurazione di ciò che non è raffigurabile? Che si tratti di dio o dell’inconscio, di ciò che non pertiene al mondo dei fenomeni ma a quello della psiche o anzi dell’anima, per usare una parola classica che Carl Gustav Jung e ancora più James Hillman hanno restituito alla psicologia analitica? E d’altronde, esiste qualcos’altro che valga la pena raffigurare? Quella che chiamiamo raffigurazione, immagine, figura, raffigura veramente qualcosa? Raffigura, per meglio dire, qualcosa di vero?
Sono queste domande a sfiorare, o anzi a travolgere, chi sfoglia la raccolta delle opere d’arte di Jung, ora pubblicata in volume in America e in Italia a cura della Foundation of the Works of C.G. Jung ( L’arte di C. G. Jung, Bollati Boringhieri). Una sequenza di più di cento opere, molte inedite, altre inserite a loro tempo in saggi come il Simbolismo del mandala o il Systema mundi totius, o esposte nella casa di Küsnacht o nel ritiro di Bollingen, o regalate agli amici, ma deliberatamente mantenute anonime. La loro ricerca, classificazione e progressiva divulgazione è avvenuta, negli anni Novanta, parallelamente all’opera di riproduzione e poi di edizione del Libro rosso. Anche in questa raccolta di immagini — peraltro non esaustiva, visto che molte delle opere menzionate nei Ricordi, o sicuramente esistenti secondo altre fonti, non sono state ancora ritrovate — scorgiamo Jung protendersi nell’indicibile, perlustrandolo fino al delirio. Ma a differenza di quel grande in-folio rilegato in marocchino purpureo, in cui come un monaco medievale andò deponendo gli esercizi neogotici della sua calligrafia e i pigmenti rubescenti dei suoi mandala, istoriando laboriosamente le sue ombre o celandole in iniziali miniate, questo materiale visivo non ha una destinazione unica. Ancora più erraticamente esplora l’interrogativo iniziale della nostra filosofia, la rappresentazione dell’irrappresentabile, in un corpus multiforme composto non solo da disegni — a grafite, a pastello, a inchiostro — e dipinti — acquerelli, guazzi su carta o pergamena — ma anche da sculture. L’atto dello scolpire aveva per Jung, dichiaratamente, “una valenza meditativa”: “Il gioco della costruzione era solo un principio, dava libero corso a una fiumana di fantasie”, innescando quell’immaginazione attiva che era uno dei capisaldi della sua metodica terapeutica e diagnostica.
Dalla fiumana dell’immaginazione fuoriescono castelli onirici, città fantastiche, brulicanti scene di battaglie interiori; paesaggi dell’anima dominati da nuvole contorte, disseminati di boschi scheletriti, solcati da acque lustrali; simboli lunari, esiti cruciformi di visioni solari; cerimonie iniziatiche; feticci intagliati nel legno, idoli grifagni o serpentini, gnomi, larve, omuncoli, o spesso totem femminili simili ad antichi simulacri matriarcali. Astratte o figurative, sono immagini tutte perfettamente aniconiche, poiché ciò cui rimandano trascende l’interfaccia della rappresentazione: l’effigie simbolica che le supporta è un veicolo per transitare dal mondo del visibile a quello dell’invisibile e non è un simulacro del sensibile ma del suo opposto, di ciò che nel mondo empirico per definizione non ha posto.
Il problema dell’immagine ha sempre tormentato la filosofia, a partire dagli antichi greci. Platone la condannava e le attribuiva il valore conoscitivo più basso perché era copia di una copia. Come spiega il mito della caverna nella Repubblica, il mondo fenomenico ( in greco phainomenos, “ che si mostra”) per Platone è una rappresentazione effimera e imperfetta del mondo “vero”, che è quello “delle idee”. Ma nel greco di Platone la parola idea
non aveva ancora assunto il significato che oggi le diamo in filosofia o nel linguaggio comune. Derivata dal tema del verbo idein, “percepire”, “vedere”, l’idea era per i greci di allora una pura forma, cui le varie manifestazioni degli oggetti sensibili fanno capo: un modello o “archetipo” che si colloca, come Platone spiega nel Fedone e nel Fedro, in una sfera anteriore a quella della coscienza, da cui questi “ disegni interiori” sgorgano come da una fonte.
Il concetto di archetipo, che nella percezione odierna leghiamo istintivamente a Jung — a quelle forme a priori che postula innate nell’inconscio personale partecipe dell’inconscio collettivo, a quei modelli psichici astratti che si manifestano nei sogni e nelle fantasie tramite immagini simboliche — in realtà, nella sua formulazione originaria, è un concetto neoplatonico ed è già strettamente connesso al problema dell’immagine. Si trova anzitutto in Plotino, che lo usa per indicare gli universali immutabili di cui è tessuta l’anima del mondo e dunque anche la nostra anima individuale, e che chiarisce con esattezza la differenza filosofica tra immagine fenomenica e immagine “vera” quando scrive: “Gli artisti non imitano ciò che è visibile, ma si elevano fino alle ragioni ultime da cui la natura scaturisce; ed estraggono inoltre da sé stessi molte aggiunte creative per compensare là dove manca qualcosa. Il fatto è che costoro possiedono la bellezza dentro di sé: come Fidia, che fece il suo Zeus senza gettare lo sguardo su alcun modello sensibile, ma immaginando la divinità quale sarebbe se acconsentisse di apparire ai nostri occhi”. L’artista, dunque, scavalca il mondo dei fenomeni e anzi ne colma le lacune, attingendo direttamente al mondo delle idee.
Non a caso a Plotino come “precursore” di Jung è dedicato il fondamentale saggio in cui Hillman, il suo più geniale discepolo, riprende il concetto di anima mundi e ricollega al pensiero neoplatonico il concetto junghiano di inconscio collettivo. Hillman ha sviluppato e formalizzato in un nuovo sistema, la psicologia archetipica o archetipale, il lavoro sul mito greco che Freud per primo aveva introdotto nella ricerca psicologica. Jung aveva investigato a fondo, per esempio nella collaborazione con Karoly Kerenyi, figure come quella del fanciullo divino e dell’eroe. È stato Hillman a collegare direttamente il percorso di guarigione non solo individuale (dell’anima del singolo) ma anche e soprattutto collettivo (dell’anima del mondo) al riconoscimento di una più sofisticata pluralità di archetipi mitologici e alla reintegrazione della loro sostanza poetica nelle forme sociali dell’immaginazione. Ma è stato Jung a ritrasmettere laicamente alla nostra cultura gli elementi del sacro e del mistero e le loro simbologie, traendoli non solo dal mondo antico ma anche da quello cristiano e dalle tradizioni dell’oriente. Anche per questo il suo pensiero è il più persistente nella cultura di massa, il più suadente per l’anima pop, oggi permeata da un nuovo interesse per le religioni, soprattutto orientali, di cui Jung fin dall’inizio del suo lavoro ha inteso le immagini sacre come simboli di processi psichici.
Già Bisanzio aveva intuito questo statuto dell’immagine sacra. Non a caso nel suo ultimo libro, postumo e ancora inedito, Hillman ha voluto saldare il suo debito con Jung e trattare il tema dell’immagine partendo dai mosaici, dagli affreschi e da quei veri mandala cristiani che sono le decorazioni parietali e absidali di Ravenna. Nella cristianizzazione bizantina del pensiero platonico e neoplatonico, la coscienza del fatto che il sovramondo — l’iperuranio di Platone, il regno dei cieli di Cristo — non può presentarsi alla psiche umana né dunque rappresentarsi se non attraverso un processo di discesa nell’interiorità che fa emergere immagini solo apparentemente figurative, in realtà astratte, è costante in tutta la storia della filosofia e della teologia. Come scriveva un teologo platonico bizantino, lo pseudo-Dionigi Areopagita, le immagini che Bisanzio chiamava sacre sono “rappresentazioni visibili di spettacoli misteriosi e soprannaturali”. Che si tratti di dio o dell’inconscio, è l’immagine che descrive il mistero, che rimanda a ciò che non è della natura, che rappresenta l’irrappresentabile, l’unica immagine “vera”.
Tra le opere d’arte di Jung compare anche la rielaborazione dello stemma di famiglia, trasformato in ex libris, con il motto oracolare delfico ripreso da Erasmo: Vocatus atque non vocatus deus aderit, “Evocato o non evocato un dio sarà presente”. Se per confrontarsi con le forze psichiche che emergevano dal profondo Jung ha descritto due strategie, cercare di comprenderne il significato oppure trasformarle in immagini, e se quest’ultima era quella cui ricorreva quando, come scrive, “ si trovava in un vicolo cieco”, allora forse, con il conforto di Jung, potremmo dire, riprendendo Wittgenstein: “Ciò di cui non si può parlare, bisogna dipingerlo”.