Repubblica Robinson 2.12.18
Vittorio Lingiardi, Melania Mazzucco, Massimo Recalcati, Silvia Ronchey, Luigi Zoja
Forever Jung
di Silvia Ronchey
Dove
nasce la raffigurazione di ciò che non è raffigurabile? Che si tratti
di dio o dell’inconscio, di ciò che non pertiene al mondo dei fenomeni
ma a quello della psiche o anzi dell’anima, per usare una parola
classica che Carl Gustav Jung e ancora più James Hillman hanno
restituito alla psicologia analitica? E d’altronde, esiste qualcos’altro
che valga la pena raffigurare? Quella che chiamiamo raffigurazione,
immagine, figura, raffigura veramente qualcosa? Raffigura, per meglio
dire, qualcosa di vero?
Sono queste domande a sfiorare, o anzi a
travolgere, chi sfoglia la raccolta delle opere d’arte di Jung, ora
pubblicata in volume in America e in Italia a cura della Foundation of
the Works of C.G. Jung ( L’arte di C. G. Jung, Bollati Boringhieri). Una
sequenza di più di cento opere, molte inedite, altre inserite a loro
tempo in saggi come il Simbolismo del mandala o il Systema mundi totius,
o esposte nella casa di Küsnacht o nel ritiro di Bollingen, o regalate
agli amici, ma deliberatamente mantenute anonime. La loro ricerca,
classificazione e progressiva divulgazione è avvenuta, negli anni
Novanta, parallelamente all’opera di riproduzione e poi di edizione del
Libro rosso. Anche in questa raccolta di immagini — peraltro non
esaustiva, visto che molte delle opere menzionate nei Ricordi, o
sicuramente esistenti secondo altre fonti, non sono state ancora
ritrovate — scorgiamo Jung protendersi nell’indicibile, perlustrandolo
fino al delirio. Ma a differenza di quel grande in-folio rilegato in
marocchino purpureo, in cui come un monaco medievale andò deponendo gli
esercizi neogotici della sua calligrafia e i pigmenti rubescenti dei
suoi mandala, istoriando laboriosamente le sue ombre o celandole in
iniziali miniate, questo materiale visivo non ha una destinazione unica.
Ancora più erraticamente esplora l’interrogativo iniziale della nostra
filosofia, la rappresentazione dell’irrappresentabile, in un corpus
multiforme composto non solo da disegni — a grafite, a pastello, a
inchiostro — e dipinti — acquerelli, guazzi su carta o pergamena — ma
anche da sculture. L’atto dello scolpire aveva per Jung,
dichiaratamente, “una valenza meditativa”: “Il gioco della costruzione
era solo un principio, dava libero corso a una fiumana di fantasie”,
innescando quell’immaginazione attiva che era uno dei capisaldi della
sua metodica terapeutica e diagnostica.
Dalla fiumana
dell’immaginazione fuoriescono castelli onirici, città fantastiche,
brulicanti scene di battaglie interiori; paesaggi dell’anima dominati da
nuvole contorte, disseminati di boschi scheletriti, solcati da acque
lustrali; simboli lunari, esiti cruciformi di visioni solari; cerimonie
iniziatiche; feticci intagliati nel legno, idoli grifagni o serpentini,
gnomi, larve, omuncoli, o spesso totem femminili simili ad antichi
simulacri matriarcali. Astratte o figurative, sono immagini tutte
perfettamente aniconiche, poiché ciò cui rimandano trascende
l’interfaccia della rappresentazione: l’effigie simbolica che le
supporta è un veicolo per transitare dal mondo del visibile a quello
dell’invisibile e non è un simulacro del sensibile ma del suo opposto,
di ciò che nel mondo empirico per definizione non ha posto.
Il
problema dell’immagine ha sempre tormentato la filosofia, a partire
dagli antichi greci. Platone la condannava e le attribuiva il valore
conoscitivo più basso perché era copia di una copia. Come spiega il mito
della caverna nella Repubblica, il mondo fenomenico ( in greco
phainomenos, “ che si mostra”) per Platone è una rappresentazione
effimera e imperfetta del mondo “vero”, che è quello “delle idee”. Ma
nel greco di Platone la parola idea
non aveva ancora assunto il
significato che oggi le diamo in filosofia o nel linguaggio comune.
Derivata dal tema del verbo idein, “percepire”, “vedere”, l’idea era per
i greci di allora una pura forma, cui le varie manifestazioni degli
oggetti sensibili fanno capo: un modello o “archetipo” che si colloca,
come Platone spiega nel Fedone e nel Fedro, in una sfera anteriore a
quella della coscienza, da cui questi “ disegni interiori” sgorgano come
da una fonte.
Il concetto di archetipo, che nella percezione
odierna leghiamo istintivamente a Jung — a quelle forme a priori che
postula innate nell’inconscio personale partecipe dell’inconscio
collettivo, a quei modelli psichici astratti che si manifestano nei
sogni e nelle fantasie tramite immagini simboliche — in realtà, nella
sua formulazione originaria, è un concetto neoplatonico ed è già
strettamente connesso al problema dell’immagine. Si trova anzitutto in
Plotino, che lo usa per indicare gli universali immutabili di cui è
tessuta l’anima del mondo e dunque anche la nostra anima individuale, e
che chiarisce con esattezza la differenza filosofica tra immagine
fenomenica e immagine “vera” quando scrive: “Gli artisti non imitano ciò
che è visibile, ma si elevano fino alle ragioni ultime da cui la natura
scaturisce; ed estraggono inoltre da sé stessi molte aggiunte creative
per compensare là dove manca qualcosa. Il fatto è che costoro possiedono
la bellezza dentro di sé: come Fidia, che fece il suo Zeus senza
gettare lo sguardo su alcun modello sensibile, ma immaginando la
divinità quale sarebbe se acconsentisse di apparire ai nostri occhi”.
L’artista, dunque, scavalca il mondo dei fenomeni e anzi ne colma le
lacune, attingendo direttamente al mondo delle idee.
Non a caso a
Plotino come “precursore” di Jung è dedicato il fondamentale saggio in
cui Hillman, il suo più geniale discepolo, riprende il concetto di anima
mundi e ricollega al pensiero neoplatonico il concetto junghiano di
inconscio collettivo. Hillman ha sviluppato e formalizzato in un nuovo
sistema, la psicologia archetipica o archetipale, il lavoro sul mito
greco che Freud per primo aveva introdotto nella ricerca psicologica.
Jung aveva investigato a fondo, per esempio nella collaborazione con
Karoly Kerenyi, figure come quella del fanciullo divino e dell’eroe. È
stato Hillman a collegare direttamente il percorso di guarigione non
solo individuale (dell’anima del singolo) ma anche e soprattutto
collettivo (dell’anima del mondo) al riconoscimento di una più
sofisticata pluralità di archetipi mitologici e alla reintegrazione
della loro sostanza poetica nelle forme sociali dell’immaginazione. Ma è
stato Jung a ritrasmettere laicamente alla nostra cultura gli elementi
del sacro e del mistero e le loro simbologie, traendoli non solo dal
mondo antico ma anche da quello cristiano e dalle tradizioni
dell’oriente. Anche per questo il suo pensiero è il più persistente
nella cultura di massa, il più suadente per l’anima pop, oggi permeata
da un nuovo interesse per le religioni, soprattutto orientali, di cui
Jung fin dall’inizio del suo lavoro ha inteso le immagini sacre come
simboli di processi psichici.
Già Bisanzio aveva intuito questo
statuto dell’immagine sacra. Non a caso nel suo ultimo libro, postumo e
ancora inedito, Hillman ha voluto saldare il suo debito con Jung e
trattare il tema dell’immagine partendo dai mosaici, dagli affreschi e
da quei veri mandala cristiani che sono le decorazioni parietali e
absidali di Ravenna. Nella cristianizzazione bizantina del pensiero
platonico e neoplatonico, la coscienza del fatto che il sovramondo —
l’iperuranio di Platone, il regno dei cieli di Cristo — non può
presentarsi alla psiche umana né dunque rappresentarsi se non attraverso
un processo di discesa nell’interiorità che fa emergere immagini solo
apparentemente figurative, in realtà astratte, è costante in tutta la
storia della filosofia e della teologia. Come scriveva un teologo
platonico bizantino, lo pseudo-Dionigi Areopagita, le immagini che
Bisanzio chiamava sacre sono “rappresentazioni visibili di spettacoli
misteriosi e soprannaturali”. Che si tratti di dio o dell’inconscio, è
l’immagine che descrive il mistero, che rimanda a ciò che non è della
natura, che rappresenta l’irrappresentabile, l’unica immagine “vera”.
Tra
le opere d’arte di Jung compare anche la rielaborazione dello stemma di
famiglia, trasformato in ex libris, con il motto oracolare delfico
ripreso da Erasmo: Vocatus atque non vocatus deus aderit, “Evocato o non
evocato un dio sarà presente”. Se per confrontarsi con le forze
psichiche che emergevano dal profondo Jung ha descritto due strategie,
cercare di comprenderne il significato oppure trasformarle in immagini, e
se quest’ultima era quella cui ricorreva quando, come scrive, “ si
trovava in un vicolo cieco”, allora forse, con il conforto di Jung,
potremmo dire, riprendendo Wittgenstein: “Ciò di cui non si può parlare,
bisogna dipingerlo”.