Repubblica 7.12.18
Renzi, l’azzardo fra destra e sinistra
di Stefano Folli
In
omaggio a quel velo di ipocrisia tipico dei rapporti politici, il Pd
reagisce all’addio imminente di Renzi con un appello all’unità interna e
quindi con l’invito a ripensarci. Ma si tratta in molti casi di forma
senza sostanza. In realtà quel che resta del partito che appena cinque
anni fa era il maggiore della sinistra europea vive un duplice stato
d’animo. Molti, non si può negarlo, si sentono sollevati dalla fine
dell’oppressione. Vivevano con ansia estenuata la presenza del "senatore
semplice", privo di cariche eppure sempre incombente. Soprattutto dopo
il 4 marzo, anzi dopo il dicembre di due anni fa, con la sconfitta del
referendum, Renzi aveva cessato di essere il profeta di un futuro
luminoso. Era diventato un peso da sopportare di malavoglia, come capita
ai perdenti. Per cui adesso c’è chi assapora la libertà, sebbene
intorno sia un panorama di macerie e ci sia poco di cui rallegrarsi.
L’altra
metà circa è composta dai seguaci a vario titolo dell’ex premier, non
tanto il famoso "giglio magico" quanto la rete del potere locale e dei
gruppi parlamentari.
Una rete che ha rappresentato fin qui
l’ossatura del potere renziano e ora è angosciata. Perché a quanto pare,
se il fiorentino lascerà il Pd — manca l’annuncio ufficiale — , non
porterà con sé quasi nessuno degli amici. Il suo sarà davvero uno
strumento personale, da far impallidire la stagione del "partito di
Renzi", come Ilvo Diamanti aveva battezzato il Pd. Del resto,
l’operazione non sembra nemmeno una scissione.
Semmai è l’uscita
sdegnosa di un politico di temperamento e a suo modo carismatico,
dall’istinto raramente felice, chiuso da tempo nel perimetro delle sue
ambizioni e ormai delle sue ossessioni, in un rapporto idealizzato con
il popolo, ossia il corpo elettorale.
Non c’è da meravigliarsi se
egli voglia riorganizzare il futuro con i campioni della cosiddetta
società civile: qualche giovane, lo studente, il precario, il
professore, l’imprenditore. Ma è un azzardo di non poco conto perché non
si avverte nell’aria la tensione morale che accompagna le grandi
svolte. Il rischio di Renzi è di ripetere, spostandola a destra,
l’esperienza modesta di Liberi e Uguali.
Infatti non abbiamo di
fronte un personaggio fresco e imprevedibile, portatore di idee da
scoprire, bensì un politico sconfitto in cerca di rilancio. Uno che
avrebbe dovuto ritirarsi a suo tempo, subito dopo l’insuccesso del
referendum, magari trasferirsi all’estero a studiare: nel giro di
due-tre anni sarebbe tornato rigenerato e in grado di farsi valere, data
la carenza di talenti. In fondo aveva fatto così persino Churchill
negli anni Trenta, una figura che forse Renzi ritiene alla sua altezza.
Il
problema è che oggi non si capisce cosa voglia o possa essere il nuovo
partito. Una volta era lui, il giovane italiano, l’esempio per l’Europa
riformista. Di Macron all’inizio si diceva che fosse il Renzi francese.
Nell’ex sindaco di Firenze si avvertiva una vitalità non comune e il
desiderio di ritrovare il filo con il mondo esterno sulla falsariga di
generose illusioni come "l’Ulivo mondiale" e la "terza via" di Clinton e
Blair. Adesso invece è una rincorsa a esperienze eterogenee: dal
macronismo, peraltro in crisi drammatica, ai Verdi tedeschi, alla destra
moderata di Ciudadanos in Spagna. Nella speranza di ritagliarsi un
ruolo, sia pure minore, sul palcoscenico europeo in chiave anti
populista. Può raccogliere i voti di Emma Bonino, dei centristi delusi,
forse del mondo berlusconiano smarrito. Certo non sarà un mini-Nazareno:
non è difficile intuire quanto poco Berlusconi e i suoi siano contenti
di trovarsi un Renzi che cerca di entrare nel loro residuo elettorato.