Il Fatto 7.12.18
“Si sono dati alla macchia”. Dopo tre mesi Minniti ha capito che volevano fregarlo
Toccata e fuga - L’amarezza dell’ex ministro: Matteo voleva usarlo per dividere ancora
di Tommaso Rodano
“Si
sono dati alla macchia”. Chi è vicino a Marco Minniti la riassume così,
la breve storia triste della non candidatura dell’ex ministro
dell’Interno. Loro – quelli che si sono dati alla macchia – sono
ovviamente i renziani. E lui – Matteo Renzi – è passato in un amen dal
ruolo di grande elettore di Minniti sul trono del Pd a quello di chi
tramava per distruggere ciò che resta del partito (e poi andarsene via):
“Volevano usare Marco per dividere e creare il caos”, ragiona oggi il
minnitiano anonimo. L’hanno capito, dice, negli ultimi dieci giorni.
Un
po’ tardi. Perché nel frattempo l’ex ministro ci ha messo la faccia, in
un balletto che ha fatto male soprattutto alla sua credibilità. Questa,
in estrema sintesi, la cronistoria. Il pressing renziano sul “candidato
tentenna” inizia sotto traccia, ma con una certa insistenza, a
settembre: l’ex ministro è considerato l’ultima carta per contendere il
partito a Zingaretti. L’endorsement diventa ufficiale il 12 ottobre, con
un appello pubblico firmato da 15 sindaci renziani (tra cui Dario
Nardella, Matteo Ricci e Giorgio Gori): “Abbiamo bisogno di individuare
un profilo forte e autorevole contro l’incompetenza e l’estremismo
gialloverde. Marco Minniti, figura dal forte profilo democratico e
unitario, potrebbe essere quella giusta per guidare il nostro partito”.
È
l’inizio di un travaglio politico e mediatico. E di una scissione quasi
psichiatrica: Minniti può vincere il congresso solo con l’appoggio di
Renzi, ma non vuole essere identificato con Renzi. Ha bisogno
dell’appoggio di tutti i renziani, ma non vuole contrattare con i
renziani i termini della sua corsa e della futura segreteria . È
candidato, ma non è candidato.
L’ex Lothar dalemiano pronuncia una
lunga serie di “Sto riflettendo”. Il 16 ottobre dice che scioglierà la
riserva dopo il Forum programmatico del Pd del 28 ottobre. Due giorni
dopo ribadisce: “Ne parleremo al momento opportuno, nei prossimi
giorni”. Il 20 ottobre è nel parterre della Leopolda renziana, ma
assolutamente non ne vuole parlare (i riflettori della kermesse, d’altra
parte, sono per Paolo Bonolis). Quando arriva il benedetto forum del 28
ottobre, Minniti spinge l’orizzonte un po’ più in là. È sibillino: “Io
non scommetto sulla mia candidatura, però prendo atto del fatto che voi
stiate scommettendo, e mi auguro che non perdiate i soldi”. Il 12
novembre a Nemo, su Rai Due, passa alle percentuali: “Mi candido al
51%”. Il 16 novembre è a Palazzo Vecchio a presentare il suo libro con
Renzi e Nardella. Tutti si aspettano l’annuncio ufficiale, invece ne
concede uno a metà, per negazione: “Se il mio impegno servirà a rendere
più unito e più forte il Pd io non mi sottrarrò”.
Il grande
giorno, finalmente, è il 17 novembre. La corsa viene lanciata con
un’intervista su Repubblica, insieme a un’orgogliosa rivendicazione
d’autonomia: “Io non sono lo sfidante renziano. In campo c’è solo Marco
Minniti”. Renzi benedice l’operazione qualche giorno dopo in
un’intervista al Tg2: “Marco Minniti è un perfetto candidato contro
Matteo Salvini. Mentre Salvini parla di legalità e sicurezza, Minniti la
pratica”.
E invece l’ex premier “si dà alla macchia”. Scompare. A
Minniti era stato promesso un documento d’appoggio con le firme dei
circa 100 parlamentari renziani. Non arriva. L’ex Lothar vorrebbe un
impegno formale a non lasciare il Pd dopo il congresso. Non arriva
nemmeno quello. C’è puzza di bruciato. Com’era iniziata, finisce.
Diciotto giorni dopo, Minniti richiama Repubblica e chiude la
malinconica campagna da non candidato: “Lo faccio per amore del Pd”.