venerdì 7 dicembre 2018

La Stampa 7.12.18
Nell’Ue non c’è più posto per il partito democratico
di Christian Rocca


Siamo sicuri che il Partito democratico serva ancora?
In giro per il mondo i partiti tradizionali non esistono più o sono stati fortemente ridimensionati. In Italia governano la Lega e i Cinquestelle, ovvero il più longevo dei nostri partiti di protesta e il prodotto di e-marketing di una srl milanese. L’opposizione è guidata dalle piazze borghesi e produttrici del Nord, colte tardivamente di sorpresa dall’inadeguatezza del sovranismo al potere. In Francia c’è il movimento personale di Emmanuel Macron, non in grande spolvero un anno e mezzo dopo il trionfo delle presidenziali, e ora l’alternativa al presidente elitario sono i gilet gialli. In Spagna resistono faticosamente socialisti e popolari, ma perdono continuamente pezzi e consensi a favore di nuovi movimenti civici dai nomi poco ideologici che semmai ricordano i titoli dei talk show populisti della tv italiana: Podemos, Ciudadanos, Vox, più indipendentismi vari. Stessa cosa in Germania: la Merkel è ancora lì, ma sempre meno solida, i socialdemocratici perdono voti e aumentano i consensi i Verdi e le destre nostalgiche.
Nei Paesi anglosassoni apparentemente c’è più stabilità, grazie a sistemi istituzionali ed elettorali secolari e seri, ma il mondo conservatore americano è stato dirottato da Donald Trump e dall’egemonica dottrina Trump First, mentre quello liberal è indeciso se cercare un nuovo campione o trasformarsi in partito socialdemocratico all’europea. In Gran Bretagna, la sinistra è tornata a ricette economiche già archiviate negli Anni Ottanta, pre thatcheriane, e i Tories sono stati trascinati dagli indipendentisti su posizioni isolazioniste. Insomma, i partiti novecenteschi non se la passano bene, parlandone da vivi. Il Partito democratico italiano, dopo aver governato sette anni in coalizione con l’ala responsabile del centrodestra, non sfugge a questo destino, anche se in realtà è tra quelli che se la passano meglio, intanto perché è nato post ideologico dieci anni fa, come un movimento nuovo, fondato sulla legittimazione popolare delle primarie e sulla vocazione maggioritaria, un concetto rivoluzionario in un paese proporzionalista e consociativo come il nostro. Il dinamismo di Renzi, più Leopolda che Rosa Luxemburg, ha fatto il resto, ritardando di una legislatura la presa populista del potere e ammantando di novità, populista ma democratica, una tradizione politica in sofferenza.
Può anche darsi che la fine dei partiti tradizionali sia una notizia fortemente esagerata e che i de profundis siano prematuri, il precipitato di un ciclo storico come tale destinato a finire, ma magari no, magari questa è la nuova realtà e i partiti tradizionali sono come le carrozze a cavallo dopo l’invenzione dei motori a scoppio, come le tv in bianco e nero appena arrivato il colore, come le cabine del telefono al momento del lancio degli iPhone.
Nel qual caso, c’è da chiedersi a che cosa serva oggi il Pd; quale sia il ruolo di un partito tradizionale, l’unico rimasto, che abbandona la narrazione ottimista di Renzi, che non rivendica le politiche pro crescita degli anni di governo e semmai rigetta quella sulla sicurezza di Minniti. Probabilmente un’organizzazione politica tradizionale che invoca solite politiche socialdemocratiche e schiaccia l’occhio ai cinquestelle non è più adeguata ad affrontare le sfide della società contemporanea e non è in grado di aggregare un ampio fronte repubblicano anti populista. C’è da tenere conto di questa possibilità, ineluttabile, quando si analizza il dibattito sulle primarie del partito e si interpretano le rapsodiche mosse di Renzi, il ritiro della candidatura di Minniti e il sapore antico della piattaforma di Nicola Zingaretti.