Repubblica 7.12.18
Dopo 5 anni da padrone
Matteo e il partito storia di un amore che non è mai nato
di Marco Damilano
Nel centrosinistra si mettono al riparo della parola noi.
Per
poter dire Io bisogna diventare vecchi. Tu Matteo sei antipatico solo
perché hai avuto il coraggio di dire la parola Io», gli aveva detto alla
stazione Leopolda un suo sostenitore critico, l’inventore dell’Ulivo
Arturo Parisi. Ma alla fine, dopo tanti scontri, sembrava arrivato il
momento in cui l’io e il noi si sarebbero incontrati, un happy end, una
favola a lieto fine. Era l’8 dicembre 2013, cinque anni fa. A
mezzanotte, quando appena concluso il suo primo discorso da segretario
del Pd nella sala del teatro Obihall di Firenze, squillò il telefono.
«Le posso passare Berlusconi?». Dall’altra parte la voce di Silvio, in
pizzeria con Francesca Pascale e il cane Dudù: «Caro Matteo,
complimenti! Ho sempre detto che avevi i numeri, da quel pranzo ad
Arcore, anche se devi ammettere che giocare contro Cuperlo e Civati era
come il Milan con l’Interregionale... Con la tua vittoria finalmente il
Pd diventa un partito socialdemocratico». Matteo Renzi era stato appena
trionfalmente eletto capo del Pd, un anno dopo la sconfitta alle
primarie per la candidatura a premier contro Pier Luigi Bersani, da
pochi minuti aveva finito di parlare. «Mi avete dato la fascia di questa
squadra e vi assicuro che combatterò su ogni pallone», aveva promesso
ai militanti. «Forse useremo metodi un po’ spicci, ma non confondete un
cambio di governo con l’ambizione di cambiare il Paese. Abbiamo preso i
voti per scardinare il sistema, non per sostituirlo».
Cambiò, invece, il governo, Enrico Letta fu cacciato da Palazzo Chigi, 68 giorni dopo. Il Pd, invece, non cambiò mai.
Cinque
anni dopo, ieri il capitano, titolo nel frattempo passato ad un altro
Matteo, Renzi ha dato il benservito alla squadra. Non vincono più, lui
non vuole affondare con loro.
«Da mesi non mi occupo della Ditta
Pd: mi preoccupo del Paese. Che è più importante anche del Pd», ha
scritto. Da squadra a Ditta: lo chiama così, come ai tempi di Bersani,
il partito di cui Renzi però è stato per quattro anni padrone assoluto:
l’ex sindaco di Firenze ha disegnato i gruppi parlamentari a sua
immagine e somiglianza, chiuso in una stanza lui e i fedelissimi del
Giglio Magico. Ha lasciato Francesco Bonifazi a vigilare sulle casse del
partito, il penultimo atto di imperio tre settimane fa, quando ha
deciso all’ultimo momento di parlare in aula al Senato sul decreto sul
ponte Morandi; il capogruppo Andrea Marcucci è un uomo suo, ha
acconsentito. L’ultimo l’altro giorno, quando ha lasciato per strada il
candidato Marco Minniti.
È la storia di un amore mai nato: il rapporto tra un partito che divora i suoi capi e il capo che riduce a macerie il partito.
Quando
fu eletto segretario, nel 2013, mi ricordai di un articolo del
quotidiano francese "Le Figaro" che così aveva raccontato nel 1971 al
congresso di Epinay l’elezione di Francois Mitterrand alla guida dei
socialisti francesi: «Finalmente il leader ha trovato un partito e il
partito ha trovato un leader».
Mitterrand, carismatico e
manovriero, aveva conquistato il partito per lanciare la lunga corsa
all’Eliseo, lo avevano ribattezzato le Florentin, il fiorentino. Come il
Principe di Niccolò Machiavelli, che cinquecento anni aveva terminato
il suo scritto sull’arte della conquista e del mantenimento del potere.
L’elezione
di Renzi sembrò il capovolgimento di una storia, di una tradizione. Non
più il mito gramsciano del partito moderno-Principe, l’organismo
collettivo che oltrepassava le storie, le volontà, le aspirazioni
individuali, la cultura di riferimento degli ex comunisti, avversari
interni di Renzi, ma il ritorno del principe, con la sua corte gigliata,
con la sua ambizione personale e con un partito al servizio. E anche lo
sbocco del travagliato partito del centrosinistra italiano in un porto
sicuro. Senza il Pd il sindaco di Firenze sarebbe rimasto un outsider e
il Pd un partito amorfo. Ma l’incontro è durato la notte del quaranta
per cento alle elezioni europee del 2014. Per Renzi il Pd è sempre
rimasto quella roba là, la Ditta. E per il Pd Renzi è rimasto un corpo
estraneo, anche quando tutti si precipitavano a omaggiarlo.
L’ex
leader non ha mai speso un minuto del suo tempo per mutare il partito,
nell’organizzazione, nella sua cultura politica, nella sua classe
dirigente nazionale e locale.
Nessun lanciafiamme anti-De Luca è
stato estratto, e neppure le scuole di formazione e le app per gli
iscritti e i militanti, Pasolini, Bob e chi se le ricorda. O forse, al
contrario, l’ha cambiato fin troppo. Come in un maleficio, Renzi ha
contratto i vizi del Pd e ora si prepara a trasformarsi nel leader di un
partito da legge elettorale proporzionale, quel sistema che per
definizione non ammette capi ma solo tavoli di trattative dove i voti
come le azioni si pesano e non si contano. Mentre il Pd dopo la cura
assomiglia al suo ex capo, è una tribù nevrotica, con le sue percentuali
di voto che non sono all’altezza dell’arroganza di molti suoi
dirigenti. Il partito che doveva diventare uno strumento al servizio del
Paese, è diventato uno strumento per conto dell’Io.
In mezzo un popolo sempre più smarrito. Senza capitano, senza squadra. È rimasta l’antipatia.