Il Fatto 7.12.18
La vera sfida del pd: il confronto
di Franco Monaco
Chi
è decisamente critico con l’attuale governo e sollecito per la qualità
della nostra democrazia, che non può prescindere da una opposizione
protesa a un’alternativa, spes contra spem, non può essere indifferente
alla sorte del Pd e dunque al suo prossimo congresso. Anche se le
premesse sono tutt’altro che promettenti. Penso al suo clamoroso,
colpevole, forse irrimediabile ritardo (Parisi ha parlato di masochismo:
solo pochi giorni separano la sua effettiva chiusura dalle cruciali
elezioni europee). Penso alla proliferazione di candidati improbabili,
concepiti per presidiare una quota di potere e per inibire ai candidati
più accreditati il quorum del 50 per cento, così da fare fallire le
primarie per la leadership rimessa poi, a norma di statuto,
all’assemblea del partito e dunque agli accordi tra i capicorrente.
Vecchie logiche, vecchi giochi di potere, l’opposto della chiara e forte
investitura di una guida espressiva di una riconoscibile proposta
politica e persino identitaria per un Pd da rifondare. Penso al
convitato di pietra Matteo Renzi che ancora conta eccome, ostenta
distacco, occhieggia ad altre iniziative politiche fuori o oltre il Pd,
distribuisce i suoi su un paio di candidati, Minniti e Martina, ma nella
sostanza, con tecnica ostruzionistica, mira a boicottare il congresso
trattenendo in ostaggio il partito. Ancora, penso alla circostanza,
denunciata da Prodi, che la quantità dei candidati è inversamente
proporzionale alla chiarezza delle loro piattaforme politiche e della
tematizzazione delle rispettive differenze. Perché il confronto tra loro
dovrebbe essere il cuore del congresso. Un confronto che si concentri
sui nodi politici giudicati dirimenti. Due in particolare.
Primo:
un giudizio sulla disfatta del 4 marzo e, ovviamente, sul corso politico
legato alla leadership di Renzi. Nodo ineludibile. È l’opposto della
bizzarra tesi di Delrio, secondo il quale non ci si deve dividere sul
corso renziano. Un irenismo esorcistico, una retorica unitaria che è
l’opposto del franco, aperto confronto politico necessario. E che, non a
caso, si concreta nel sostegno alla candidatura di Martina cui si è
associato Richetti, comprensibilmente reticenti sul punto, essendo stati
rispettivamente il vice e il portavoce di Renzi.
Secondo: un
giudizio circa gli attori politici in campo e la relazione da stabilire
con essi. La legge elettorale proporzionale e la misura del Pd
palesemente archiviano la vocazione/ambizione maggioritaria specie nella
sua velleitaria versione renziana (e già veltroniana) di un Pd
autosufficiente. Non però, suppongo, l’aspirazione a partecipare a
un’alternativa di governo. Interloquendo con chi? Posso comprendere che i
passaggi congressuali esaltino l’orgoglio identitario (già ma quale
identità? ci tornerò), e tuttavia è difficile sottrarsi al dovere di
misurare differenze e/o affinità in rapporto alle altre forze politiche:
5 Stelle, Lega, quel che resta di FI e dei soggetti a sinistra del Pd.
Per paradosso, Renzi, che non corre in prima persona e anzi traguarda
oltre il Pd, è il più chiaro: per lui Lega e 5 Stelle sono la stessa
cosa, suscettibili di essere iscritti sotto la medesima cifra di
“estrema destra” e semmai ci si deve proporre l’obiettivo di
rappresentare quell’area di centro moderata e liberale che non si
riconosce nel governo. Se non con FI, conquistando i suoi ex elettori.
La cosa ha una sua plausibilità. Solo porta con sé un corollario e una
domanda. Il corollario: il centrosinistra non è il suo orizzonte
strategico.
La domanda, cui dovrebbero rispondere i candidati: è
coerente o compatibile con lo statuto ideale del Pd? Appunto: quale?
All’annuncio della sua candidatura Zingaretti sembrava orientato a un
dialogo con i 5 Stelle, salvo poi temperare se non correggere la sua
posizione. Eppure come non scorgere le differenze che ogni giorno di più
si manifestano quali conflitti insanabili tra i partner di governo? E
come non considerare le differenze e il disagio che attraversano
elettori ed eletti pentastellati (cui Fico dà voce)? Una opposizione
intelligente e di movimento (non aventiniana) – come hanno argomentato,
tra gli altri, Cacciari e Carofiglio – si insinuerebbe in tali vistose
contraddizioni, offrirebbe sponde a chi non si rassegna all’egemonia di
Salvini, che può maramaldeggiare anche grazie all’inerzia del Pd. A meno
che… A ben vedere, un’alternativa c’è per il Pd: quella suggerita dal
Foglio, in nome del cosiddetto “partito del Pil”, di un patto (solo
tattico?) con la Lega per negarsi programmaticamente di nuovo al
confronto in caso di crisi della maggioranza così da dischiudere a nuove
elezioni dall’esito già scritto, una maggioranza di destra a guida
Salvini (le simulazioni di D’Alimonte la danno per sicura). La battuta
renziana circa le scuse da chiedere a Berlusconi rivela quantomeno un
sentimento…
Conosco l’obiezione: il Pd non può consegnarsi
all’egemonia dei 5 Stelle. Preoccupazione essa sì figlia di
minoritarismo e di subalternità, di sfiducia in se stessi e di ottusa
cecità verso l’identità irrisolta e polimorfa del M5S. Con il 10 per
cento (non il 18) il Psi di Craxi fu il dominus della vita politica
italiana per tutto il decennio Ottanta, avendo a che fare non con i 5
Stelle ma con signori partiti quali Dc e Pci. Buona o cattiva che fosse
la sua politica, Craxi la sapeva fare, facendo valere il proprio “potere
di coalizione” (Bobbio). Qui purtroppo sta la differenza.