venerdì 7 dicembre 2018

Il Fatto 7.12.18
La vera sfida del pd: il confronto
di Franco Monaco


Chi è decisamente critico con l’attuale governo e sollecito per la qualità della nostra democrazia, che non può prescindere da una opposizione protesa a un’alternativa, spes contra spem, non può essere indifferente alla sorte del Pd e dunque al suo prossimo congresso. Anche se le premesse sono tutt’altro che promettenti. Penso al suo clamoroso, colpevole, forse irrimediabile ritardo (Parisi ha parlato di masochismo: solo pochi giorni separano la sua effettiva chiusura dalle cruciali elezioni europee). Penso alla proliferazione di candidati improbabili, concepiti per presidiare una quota di potere e per inibire ai candidati più accreditati il quorum del 50 per cento, così da fare fallire le primarie per la leadership rimessa poi, a norma di statuto, all’assemblea del partito e dunque agli accordi tra i capicorrente. Vecchie logiche, vecchi giochi di potere, l’opposto della chiara e forte investitura di una guida espressiva di una riconoscibile proposta politica e persino identitaria per un Pd da rifondare. Penso al convitato di pietra Matteo Renzi che ancora conta eccome, ostenta distacco, occhieggia ad altre iniziative politiche fuori o oltre il Pd, distribuisce i suoi su un paio di candidati, Minniti e Martina, ma nella sostanza, con tecnica ostruzionistica, mira a boicottare il congresso trattenendo in ostaggio il partito. Ancora, penso alla circostanza, denunciata da Prodi, che la quantità dei candidati è inversamente proporzionale alla chiarezza delle loro piattaforme politiche e della tematizzazione delle rispettive differenze. Perché il confronto tra loro dovrebbe essere il cuore del congresso. Un confronto che si concentri sui nodi politici giudicati dirimenti. Due in particolare.
Primo: un giudizio sulla disfatta del 4 marzo e, ovviamente, sul corso politico legato alla leadership di Renzi. Nodo ineludibile. È l’opposto della bizzarra tesi di Delrio, secondo il quale non ci si deve dividere sul corso renziano. Un irenismo esorcistico, una retorica unitaria che è l’opposto del franco, aperto confronto politico necessario. E che, non a caso, si concreta nel sostegno alla candidatura di Martina cui si è associato Richetti, comprensibilmente reticenti sul punto, essendo stati rispettivamente il vice e il portavoce di Renzi.
Secondo: un giudizio circa gli attori politici in campo e la relazione da stabilire con essi. La legge elettorale proporzionale e la misura del Pd palesemente archiviano la vocazione/ambizione maggioritaria specie nella sua velleitaria versione renziana (e già veltroniana) di un Pd autosufficiente. Non però, suppongo, l’aspirazione a partecipare a un’alternativa di governo. Interloquendo con chi? Posso comprendere che i passaggi congressuali esaltino l’orgoglio identitario (già ma quale identità? ci tornerò), e tuttavia è difficile sottrarsi al dovere di misurare differenze e/o affinità in rapporto alle altre forze politiche: 5 Stelle, Lega, quel che resta di FI e dei soggetti a sinistra del Pd. Per paradosso, Renzi, che non corre in prima persona e anzi traguarda oltre il Pd, è il più chiaro: per lui Lega e 5 Stelle sono la stessa cosa, suscettibili di essere iscritti sotto la medesima cifra di “estrema destra” e semmai ci si deve proporre l’obiettivo di rappresentare quell’area di centro moderata e liberale che non si riconosce nel governo. Se non con FI, conquistando i suoi ex elettori. La cosa ha una sua plausibilità. Solo porta con sé un corollario e una domanda. Il corollario: il centrosinistra non è il suo orizzonte strategico.
La domanda, cui dovrebbero rispondere i candidati: è coerente o compatibile con lo statuto ideale del Pd? Appunto: quale? All’annuncio della sua candidatura Zingaretti sembrava orientato a un dialogo con i 5 Stelle, salvo poi temperare se non correggere la sua posizione. Eppure come non scorgere le differenze che ogni giorno di più si manifestano quali conflitti insanabili tra i partner di governo? E come non considerare le differenze e il disagio che attraversano elettori ed eletti pentastellati (cui Fico dà voce)? Una opposizione intelligente e di movimento (non aventiniana) – come hanno argomentato, tra gli altri, Cacciari e Carofiglio – si insinuerebbe in tali vistose contraddizioni, offrirebbe sponde a chi non si rassegna all’egemonia di Salvini, che può maramaldeggiare anche grazie all’inerzia del Pd. A meno che… A ben vedere, un’alternativa c’è per il Pd: quella suggerita dal Foglio, in nome del cosiddetto “partito del Pil”, di un patto (solo tattico?) con la Lega per negarsi programmaticamente di nuovo al confronto in caso di crisi della maggioranza così da dischiudere a nuove elezioni dall’esito già scritto, una maggioranza di destra a guida Salvini (le simulazioni di D’Alimonte la danno per sicura). La battuta renziana circa le scuse da chiedere a Berlusconi rivela quantomeno un sentimento…
Conosco l’obiezione: il Pd non può consegnarsi all’egemonia dei 5 Stelle. Preoccupazione essa sì figlia di minoritarismo e di subalternità, di sfiducia in se stessi e di ottusa cecità verso l’identità irrisolta e polimorfa del M5S. Con il 10 per cento (non il 18) il Psi di Craxi fu il dominus della vita politica italiana per tutto il decennio Ottanta, avendo a che fare non con i 5 Stelle ma con signori partiti quali Dc e Pci. Buona o cattiva che fosse la sua politica, Craxi la sapeva fare, facendo valere il proprio “potere di coalizione” (Bobbio). Qui purtroppo sta la differenza.