venerdì 7 dicembre 2018

Repubblica 7.12.18
Il caso Huawei
La partita Usa-Cina
di Federico Rampini


L’affare Huawei spezza la fragile tregua fra Stati Uniti e Cina. La sospensione dei super- dazi maturata dopo il G20 era già precaria, ora passa in secondo piano. L’arresto in Canada su mandato Usa, con richiesta di estradizione della potentissima Meng Wanzhou, top manager legata al regime di Pechino, suona quasi come una dichiarazione di guerra. Le Borse tremano, a ragione. A motivare l’azione della giustizia Usa c’è un’accusa di violazione delle sanzioni sull’Iran, che sarebbero state aggirate quando alla Casa Bianca c’era ancora Barack Obama ( prima che Donald Trump rinnegasse il patto nucleare). Dietro si scorge una partita ben più grande. È l’allarme americano per l’ascesa della Cina nelle tecnologie avanzate: una sfida per la supremazia mondiale che ha ricadute non solo industriali ma strategico-militari.
Huawei era nel mirino già da molto. Gli americani sospettano il colosso delle telecomunicazioni di essere un cavallo di Troia dello spionaggio cinese, sia industriale che militare. Mesi fa Washington cominciò ad allertare le capitali alleate, da Roma a Berlino: attenzione alle infrastrutture telefoniche made in China, vendute agli operatori telefonici occidentali, spesso pericolosamente vicine alle basi militari americane e della Nato. Con la transizione al 5G, la quinta generazione che sarà il nuovo standard della telefonia mobile, la penetrazione di impianti cinesi nei nostri Paesi rischierebbe di consegnarci a una vasta rete di spionaggio. L’Internet delle cose, come viene chiamato un futuro in cui dialogheranno fra loro tutte le macchine che usiamo grazie all’intelligenza artificiale, sarebbe ancor più vulnerabile al cyber-spionaggio cinese.
La vicenda Huawei ci proietta verso una dimensione ancora più cruciale rispetto all’antico contenzioso commerciale con la Repubblica Popolare. Accumulare attivi nella bilancia del commercio estero è " mercantilismo all’antica", dannoso ma riparabile, tant’è che già alcuni aggiustamenti la Cina aveva cominciato a farli (aumentando i propri consumi interni e quindi le importazioni). Ben altra sfida è quella contenuta nel "piano 2025" di Xi Jinping, quello che più spaventa gli americani. Un presidente cinese che ha di fronte a sé un orizzonte di lunghissimo termine ( ha cambiato la Costituzione per eliminare limiti al suo mandato) può pianificare la conquista di posizioni egemoniche nelle tecnologie strategiche.
Gran parte delle classi dirigenti occidentali — che invece sono appiattite sul brevissimo periodo — non hanno visto arrivare questa nuova offensiva cinese. Troppi leader politici erano fermi alla Cina di dieci o vent’anni fa, "fabbrica del pianeta", nazione emergente. Oggi un pezzo portante della sua economia è emerso eccome, assomiglia a un Giappone con gli steroidi, a una Singapore al multiplo. Alcune élite occidentali, pur intuendo il fenomenale salto di qualità, hanno visto solo vantaggi opportunistici: l’avanzata della finanza cinese è stata assecondata, le si vende volentieri l’argenteria di famiglia, pezzi pregiati dei nostri sistemi produttivi, delle infrastrutture, delle piattaforme logistiche globali. Magari omaggiando i discorsi " globalisti" di Xi Jinping al World Economic Forum, prendendoli alla lettera come un’alternativa virtuosa al protezionismo di Donald Trump. Senza vedere quanto il globalismo cinese sia la versione aggiornata e modernissima di una millenaria vocazione imperiale, che unita alla natura autoritaria del regime è tutt’altro che rassicurante. Osservare il pericolo Xi con lucidità non significa prendere sempre per virtuose le mosse americane. Quando un’egemonia è in declino e un’altra in ascesa, la transizione è turbolenta, conflittuale, gravida di pericoli. Atene-Sparta o la trappola del Peloponneso, secondo l’antica metafora di Tucidide.