Repubblica 6.12.18
Minniti "Ritiro la candidatura per salvare il partito, chi se ne va fa un regalo ai populisti"
Intervista di Claudio Tito
«Quando
ho dato la mia disponibilità alla candidatura sulla base dell’appello
di tanti sindaci e di molti militanti che mi hanno incoraggiato e che io
ringrazio moltissimo, quella scelta poggiava su due obiettivi: unire il
più possibile il nostro partito e rafforzarlo per costruire
un’alternativa al governo nazionalpopulista». È durata 18 giorni la
corsa di Marco Minniti alla segreteria del Pd. In meno di tre settimane
l’ex ministro ha presentato e ritirato il suo impegno in uno show down
improvviso. «Resto convinto in modo irrinunciabile che il congresso ci
debba consegnare una leadership forte e legittimata dalle primarie. Ho
però constatato che tutto questo con così tanti candidati potrebbe non
accadere.
Il mio è un gesto d’amore verso il partito».
Mi
scusi, non può essere solo questo. Non può essere che in una ventina di
giorni sia cambiato così radicalmente lo scenario. Cosa è successo?
«Si
è semplicemente appalesato il rischio che nessuno dei candidati
raggiunga il 51 per cento. E allora arrivare così al congresso dopo uno
anno dalla sconfitta del 4 marzo, dopo alcune probabili elezioni
regionali e poco prima delle europee, sarebbe un disastro».
Questa però era una probabilità nota.
«No,
e se noi accettassimo l’idea di eleggere un segretario non "eletto"
dalle primarie allora accetteremmo anche l’idea di un partito che sia
solo una confederazione di correnti.
Sarebbe la prima volta che un segretario del Pd viene eletto senza la maggioranza. Questo è un gigantesco problema politico».
Perchè?
«Ci
sono alcuni dati che non posso ignorare. Abbiamo un governo che in sei
mesi ci ha portato a un passo dalla recessione. Provoca un conflitto con
l’area produttiva del Paese e ha aperto uno scontro con l’Europa. Ha
approvato un decreto sicurezza che io definisco "insicurezza". È fonte
di conflitti istituzionali dal caso della nave Diciotti fino allo
scontro con il procuratore Spataro. Serve un Pd unito e forte , in grado
di tornare nella società italiana».
Ma forse il dato determinante è che Renzi non ha mai speso una parola in questi giorni per smentire la scissione?
«Le
scissioni sono sempre un assillo. Sappiamo perfettamente che il Pd ha
pagato un prezzo durissimo. Ha pagato un prezzo altissimo a congressi
cominciati e mai finiti. Spero che non ci sia alcuna scissione, sarebbe
un regalo ai nazionalpopulisti».
Qualcuno potrebbe dire che
ha avuto paura.
«Paura?
La mia storia personale dimostra che ho affrontato situazioni ben più
impegnative di questa. Io lo faccio solo per il Pd.
So che c’è il
rischio di deludere chi ha deciso di concedermi un affidamento. Ma ci
sono momenti in cui bisogna assumersi delle responsabilità personali.
Per troppo tempo il partito si è adagiato su uno specchio deformato in
cui ci si chiedeva "che faccio io?Un eccesso di personalizzazione. Ma il
destino di un partito non può essere legato alle singole persone».
Nel Pd molti definivano "renziana" la sua candidatura.
Lei ha rifiutato questa etichetta.
Si aspettava una maggiore collaborazione dai renziani?
«La
mia decisione è indipendente dall’affetto politico che si è
manifestato. Io ero in campo per difendere il nucleo riformista del Pd e
arrivare ad un esito legittimante. Il resto non esiste».
Ne ha parlato con Renzi?
«Non ci siamo sentiti».
Insisto: ha avuto un peso il fatto che Renzi non abbia trovato il tempo di smentire la scissione?
«Spero
davvero che nessuno pensi a una scelta del genere. Si assumerebbe una
responsabilità storica nei confronti della democrazia italiana. Questo
passaggio va oltre la cronaca.
Indebolire il Pd significa indebolire la democrazia italiana.
Mai come adesso rischiamo uno slittamento. Mai come adesso le differenze tra i partiti sono tanto nette».
Come negli anni che hanno preceduto il fascismo?
«La
storia non si ripete mai nella stessa forma. Ma è vero che dal ‘48 in
poi mai la differenza sul modello di società e sui valori è stata così
ampia».
A questo punto al congresso per chi voterà?
«Oggi è
il momento di una scelta impegnativa. Parteciperò al congresso con lo
stesso spirito: arrivare ad un approdo il più unitario possibile».
Se questo è l’intento chiederà anche ad alcuni degli altri sette candidati di ritirarsi?
«Sono
scelte individuali. In questo momento voglio dimostrare che non conta
il "che faccio io" ma ricostruire un gruppo dirigente».
C’è
qualcosa che il Pd e i governi di centrosinistra hanno fatto in questi
anni e che lei considera emblematico della crisi che poi si è aperta nel
suo partito con le ultime elezioni?
«Si è rotto il rapporto tra
riforme e popolo. La Buona Scuola ne è stata il simbolo. Abbiamo messo
in campo dei provvedimenti importanti ma non li abbiamo fatti camminare
sulle gambe degli studenti e dei docenti. Quello è stato il segno di una
rottura, uno scacco politico».
Non c’è stato un eccesso di leaderismo?
«Un
partito non può non avere una leadership legittimata. Non si adatta
alla fase che viviamo. Poi però c’è bisogno che questo leader abbia al
suo fianco un gruppo dirigente selezionato non sulla base della fedeltà
ma delle qualità. Le leadership forti vanno corrette con dirigenti
valutati sul merito e non sulla appartenenza. Anche per questo bisogna
avere il coraggio alcune volte di fare un passo indietro. In un partito
tutti dovrebbero capirlo».