il manifesto 6.12.18
Renzi comanda, Minniti si ritira. La scissione del Pd si avvicina
Democrack/Primarie Pd. I renziani non firmano l’impegno a restare nel partito. Zingaretti: ora basta picconate
di Daniela Preziosi
La
giornata delle montagne russe per il Pd finisce in picchiata, con il
partito a un passo da una nuova scissione. Marco Minniti ritira la
candidatura alle primari. In serata la conferma ufficiale non arriva ma
filtra la notizia di una sua arrabbiatura monumentale. E di
un’intervista a Repubblica che stamattina darà l’annuncio del fine
corsa.
Ma non poteva finire diversamente. Lo si capisce dalla
mattina. Quando, dinanzi alle notizie dei quotidiani sul ripensamento di
Minniti provocato dal plateale lavorìo scissionista dell’ex segretario,
Renzi replica secco: «Come sapete non mi occupo del congresso». Nessuna
smentita della prossima fuoriuscita, con l’atteggiamento strafottente
di sempre. Del resto Renzi non può negare nulla: in quel momento è a
Bruxelles dove incontra, non a nome del Pd, i suoi eurodeputati e tesse
la tela delle relazioni: incontra Juncker, gli olandesi Vestager e
Timmermans, Moscovici.
Anche Minniti non ha un buon carattere,
specie quando capisce di essere stato preso per il naso dall’inizio: ha
creduto di utilizzare i voti dei renziani prendendo le distanze da
Renzi; ha creduto che i territori erano pronti a raccogliere le firme
per la sua candidatura e invece non si muove nessuno. Ha creduto troppe
cose platealmente false, per accorgersene sarebbe bastato mettere il
naso fuori dal cerchia dei fedelissimi. Adesso, con Renzi che
brutalmente scopre le carte, la figuraccia è irrecuperabile.
A chi
glielo chiede l’ex ministro oppone una lombosciatalgia come causa del
suo stop agli impegni di partito. Ma nel primo pomeriggio convoca alla
camera le due «colombe» renziane Lorenzo Guerini e Luca Lotti, che pure
hanno fatto di tutto per tenere in piedi la sua candidatura. Ai due
consegna un documento da far sottoscrivere a tutti i parlamentari: è un
impegno a non uscire dal Pd. La riunione si stoppa, i due devono parlare
con Renzi.
A questo punto c’è anche un giallo. L’agenzia Ansa
batte l’appuntamento per una conferenza stampa convocata da Minniti alle
18 e 30 per annunciare il ritiro. Minniti si attacca al telefono per
smentire, è caccia alla «fonte». Ma ormai siamo su un piano inclinato.
Intanto
arriva la risposta da Bruxelles. È un «niet». I due luogotenenti
tornano al tavolo. Il sostegno a Minniti è assicurato. Ma nessuno
firmerà il documento. E dai renziani ormai filtra l’insofferenza: «La
richiesta di firmare un impegno a non uscire dal Pd è offensiva, è
chiaramente un pretesto». Minniti capisce di essersi infilato in un
tunnel, prova a chiedere la firma di almeno una trentina di renziani,
tanto per. Ma il «niet» di Renzi è diventato uno sfottò. «A questo punto
la scelta spetta a lui», spiegano. Voleva un braccio di ferro, lo ha
perso. All’ex ministro non resta che la ritirata ingloriosa. Lui che si è
vantato di trattare con i banditi libici. Lui che si è trovato a faccia
a faccia con Gheddafi. Lui che nell’estate del ’17 si è autodirottato
l’aereo per tornare a Roma e difendere l’Italia dal rischio di una
«rottura democratica». È finito nel sacco di Renzi come una delle sue
tante vittime politiche, da Enrico Letta in avanti. In serata Nicola
Zingaretti lancia l’allarme: «Basta con questo gioco al massacro, non è
il momento di picconare e dividere». Lo spettro di una vittoria su un
partito scassato non è certo una buona notizia per lui. L’ultimo
sondaggio, lo leggete qui accanto, dà il presidente del Lazio al doppio
delle preferenze di Minniti. L’ex ministro vedeva ormai consolidarsi le
cifre della sconfitta. Ora bisognerà capire se i suoi voti si
riverseranno su Martina. Difficile. I renziani già avvertono: «Sarà un
congresso monco». Renzi si è fabbricato l’alibi per uscire dal Pd.