mercoledì 5 dicembre 2018

Repubblica 5.12.18
Teologia politica
Si chiama uguaglianza la resurrezione dei laici
Perché abbiamo perso il senso del rapporto con la morte e ciç che rappresente
Il nuovo saggio di monsignor Paglia contro l’indifferenza
di Roberto Esposito


L’essenza del cristianesimo non sta in una semplice credenza dell’aldilà, in un generico messaggio di salvezza o nell’idea dell’immortalità dell’anima, ma nella fede che Cristo è risorto. E che risorgeranno tutti coloro che confidano in lui. Questa tesi radicale, già sostenuta da Oscar Cullmann alla metà del secolo scorso, è al centro del nuovo libro di Vincenzo Paglia, Vivere per sempre. L’esistenza, il tempo e l’Oltre (Piemme). Paglia ricorda che allorché l’apostolo Paolo cominciò a diffondere la dottrina cristiana tra i filosofi greci, questi lo ascoltarono fino a quando parlò della dimensione religiosa della vita, dell’opera di Gesù o della sua origine divina. Ma appena Paolo introdusse l’argomento della resurrezione, lasciarono cadere il discorso. Non capivano. Ma proprio in quelle parole risiede il nucleo, incandescente e scandaloso, del cristianesimo.
Gesù non è sopravvissuto alla morte come Lazzaro, ma è risorto dopo essere morto. Solo allora «la morte è stata inghiottita nella vittoria» (Paolo, 1 Cor., 15). È quell’evento a liberare la storia dalla schiavitù del male. A sconfiggere per sempre il Nemico. A mutare la concezione della morte e dunque anche della vita.
Benché Paglia, come gran parte dei teologi contemporanei, relativizzi la differenza tra resurrezione dei corpi e immortalità dell’anima – entrambi frutto della volontà divina –, il senso ultimo del cristianesimo poggia sul mistero della resurrezione. Contro la tendenza a diluirne la specificità in una dimensione genericamente etica, condivisa dalle altre religioni e anche da larga parte mondo laico, Paglia rivendica l’elemento peculiare del dogma cristiano. La demitizzazione dei suoi contenuti più ostici, a partire dal motivo della resurrezione della carne, rischia di oscurare la parte più rivoluzionaria del cristianesimo.
Che, essendo una religione della vita, riguarda proprio il rapporto con la morte. «In faccia alla morte l’enigma della condizione umana raggiunge il culmine», è detto nel Concilio Vaticano II. Alla sua rimozione, caratteristica della condizione contemporanea, Paglia dedica alcune delle pagine più efficaci. Nonostante l’attenzione che gli ha rivolto la filosofia contemporanea, l’atteggiamento oggi più diffuso è quello di mettere da parte il pensiero, evidentemente insostenibile, della morte. Si spera di morire senza accorgersene, all’improvviso. Inteso dagli uni come un dato puramente biologico cui rassegnarsi, da altri come qualcosa che, col progresso tecnico-scientifico, sarà possibile rimandare sempre più in là, l’evento della morte viene neutralizzato nel suo senso ultimo. D’altra parte, come afferma Hans Urs von Balthasar, ormai quello delle cose ultime è «un cantiere chiuso per restauro». Tuttavia, cacciato dalla porta, il pensiero della morte rientra dalla finestra. Intanto perché non possiamo evitare, soprattutto con l’aumentare dell’età, che la sua ombra si allunghi sulla nostra esperienza. Ma a inquietarci non è solo la nostra morte futura, ma anche quella data agli altri intorno a noi. Oggi sono in tanti a farsi, direttamente o indirettamente, complici del lavoro sporco della morte, agevolandolo o consentendolo. Mentre i genocidi, tutt’altro che esauriti nella prima metà del secolo scorso, si susseguono, le vittime della guerra, della malattia, della fame si moltiplicano in ogni angolo del mondo. Da questo punto di vista la fantasia popolare dell’inferno è superata dall’orrore della realtà circostante. L’immagine di indigenti, disperati, naufraghi di terra e di mare, chiusi dai muri, respinti dai porti, violati nei campi di detenzione, ne ripropone la figura orribile. Alla sua origine, per l’autore, è da un lato l’isolamento narcisistico dell’io, dall’altro la contrapposizione del "noi" al "loro". Il contrario della pace non è solo la guerra, ma anche l’egoismo e l’indifferenza che destina esseri umani all’abbandono e alla sofferenza.
Eppure, nel buio della morte, continua a trapelare la luce della vita. Anzi, solo la consapevolezza della fragilità dell’esistenza consente di resistere a ciò che la nega. Secondo Paglia, senza cancellare e anzi rivendicando la loro differenza, il mondo della fede può stringere un’alleanza salvifica con quello della ragione laica. Un’alleanza basata sulla consapevolezza che i popoli, tutti i popoli della Terra, sono uniti da un medesimo destino. Non si può immaginare che una parte del mondo si sviluppi a scapito di un’altra. O l’umanità si salva nel suo insieme o tutta insieme è destinata a perire. In questa convinzione c’è qualcosa di più che una semplice affermazione di pluralismo politico. C’è l’idea che l’unità dei popoli si stringe all’origine della vita. I popoli sono fin dall’inizio ibridati sotto il profilo etnico, storico, culturale. A partire da qui un ponte collega i credenti ai non credenti. Se per i primi vale il principio di Paolo che in Cristo «non c’è né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna» (Galati, 3, 28), per i secondi l’uguaglianza resta un obiettivo irrinunciabile. Per i laici la morte non è mai compimento felice di una vita. Resterà sempre la sua incomprensibile rottura. Ma ciò non cancella il significato di un impegno cristiano che sappia farsi "cattolico" nel senso originario del termine.