mercoledì 5 dicembre 2018

Il Fatto 5.12.18
L’“animale dentro” è un po’ Piccolo: nessuno l’ha visto
L’ultimo romanzo del Premio Strega non convince: amplessi e amori sono poco credibili proprio perché fingono di essere onesti fino all’esibizionismo
di Stefano Feltri


Anche Sigmund Freud partiva dai propri sogni, che ben riusciva a decodificare, per cercare di cogliere regole generali da applicare ai suoi pazienti. Quindi è legittimo che Francesco Piccolo cerchi di indagare la propria biografia di baby boomer – è del 1964, l’anno in cui sono nati più italiani di sempre – per indagare la categoria a cui appartiene. Non quella di uomo ma quella più specifica di “maschio”. E Piccolo ci racconta L’animale che mi porto dentro, un verso di Franco Battiato che usa come titolo di questo suo nuovo romanzo, molto difficile perché il primo dopo il premio Strega del 2014 per Il desiderio di essere come tutti.
Piccolo è un intellettuale brillante, scrive i film di Nanni Moretti e Paolo Virzì, è uno dei pochi della sua generazione ad aver conservato un senso della complessità, il desiderio di prendere le cose sul serio. Eppure questo romanzo sembra scritto di fretta, prodotto da un’ansia da assenza dalle librerie più che da un’urgenza narrativa. Lo schema è lo stesso di Il desiderio di essere come tutti, ma qui non funziona. Là c’era l’intreccio tra crescita personale e politica, la maturazione di una coscienza civica costruita certo su buone letture ma anche su quegli episodi minuscoli che però finiscono per connotarci più di ogni dibattito sui destini della sinistra: una partita vinta dalla Germania Est, una battuta del padre, il funerale di Enrico Berlinguer visto in tv. Qui c’è lo stesso tentativo di raccontare la sua costruzione di uomo sessualmente maturo attraverso una sequenza di frammenti cruciali. Ma analizzare episodi così banali da essere condivisi da qualunque suo lettore – la prima delusione d’amore, un flirt inappagato, la sbandata di un momento per immaginare una vita diversa – produce semplicemente un effetto ombelicale, mentre ne Il desiderio di essere come tutti le minuzie private risultavano essere i mattoni che costruivano un’esperienza del presente condivisa e dunque politica. E poi c’è questa ossessiva pretesa di verità biografica che, visti i temi, finisce per trasmettere la sensazione opposta: i racconti di amori, amplessi e tradimenti vorrebbero essere onesti fino all’esibizionismo, ma proprio questa innaturale assenza di pudore li rende, inevitabilmente, non plausibili. O forse il lettore deve credere che Piccolo stia davvero raccontando la quotidiana indifferenza della sua vera moglie per i veri tradimenti o le vere intemperanze della sua vera amante?
Troppo preso a cercare una connessione quasi deterministica tra il ragazzo imbranato che era e la sensazione di potenza della maturità (che, con singolare sciatteria, definisce “sentirsi stocazzo”) Piccolo si dimentica di raccontarci l’“animale”. A parte un paio di risse sul campo di basket, c’è pochino su questa sua violenza che – assicura Piccolo, d’aspetto massiccio ma non temibile – lo tormenta da tutta l’esistenza. L’effetto non è quello di indicare un grumo inavvicinabile, che si può capire solo aggirandolo, ma l’ammissione di non aver scavato abbastanza. O forse di aver scoperto di essere molto più “come tutti” di quanto pensava quando ha iniziato a scrivere il libro. Resta il fatto che ci sono molte più pagine sull’incubo dei brufoli giovanili o sulle emorroidi (anche istruttive, a modo loro) rispetto a quante se ne trovano sull’“animale”.
Magari a qualche lettrice il libro piacerà, si capisce che è soprattutto per loro che è scritto. Eppure neanche le più bendisposte potranno perdonare al pur talentuoso Piccolo il ricorso a uno dei più terribili espedienti: il riassunto. Quando Piccolo deve spiegare un suo momento di consapevolezza non cerca una sintesi personale, racconta il libro o il film che lo hanno illuminato. Pagine e pagine su Malizia, il film di Salvatore Sampieri, altre pagine su Elena Ferrante, e poi il Padrino, Michel Houellebecq… Il risultato paradossale è suggerire al lettore: “Se vuoi capirmi davvero, leggiti i loro libri, non i miei”. Che, tutto sommato, non è neanche un cattivo consiglio.