mercoledì 5 dicembre 2018

La Stampa 5.12.18
Non è più tempo di Dies Irae, la morte ci sprona a vivere
di Luciano Violante


Il senso della morte oscilla tra la legge naturale e la minaccia. Nel Satyricon di Petronio è scritto che durante i banchetti veniva portato a tavola uno scheletro d’argento non per ammonire gli ospiti a un memento mori, ma per invitare i presenti a godere in modo ancora più intenso dei piaceri della vita perché poi ci sarebbe stata la fine del tutto.
La seconda strofa del Dies Irae si colloca al polo opposto: Quantus tremor est futùrus, Quando Iùdex est ventùrus, Cuncta stricte discussùrus (quanto grande sarà la paura, quando il Giudice starà per arrivare, per prendere in esame sinteticamente tutte le cose) .
Nelle società prevalentemente agricole la morte aveva un effetto sospensivo della vita di tutti. Si moriva in casa. Tutto si fermava, l’evento era comunitario. La vita era sospesa, con un rito che scandiva i tempi e codificava i segni del lutto, la cui osservanza era il presupposto per la reputazione nella comunità della famiglia del morto.
Nella società contemporanea la paura della morte, aspetto di più generali paure che attraversano il mondo contemporaneo, diventa affare da liquidare in fretta, che non deve interrompere gli impegni dei vivi. Si muore in ospedale. Il lutto è diventato una condizione quasi morbosa che bisogna abbreviare e, se possibile, superare. Bisogna sbarazzarsene quanto prima. La morte ha cessato di aprire la porta ai sentimenti; li apre al business; nascono imprese, che si occupano di tutto ciò che resta dopo la morte, sino alla pensione di reversibilità.
È sorprendente che le scienze umane, così impegnate quando si tratta di lavoro, famiglia, sessualità, religione, siano poi così discrete nei confronti della morte.
Nella sfera privata non è facile parlarne. Anzi, non è facile parlare della propria morte. Si parla più spesso della morte altrui. Lo si fa con compunzione, con tristezza o con ipocrisia, a seconda dei casi. La morte è sempre dell’altro. Riempiamo la vita di ogni giorno di innumerevoli attività, andiamo a letto stanchi e l’indomani riprendiamo. Raramente c’è spazio per riflettere sul senso della vita e sulle cose che alla vita possono dare un senso.
Il libro che ha scritto sulla morte Vincenzo Paglia, vescovo, presidente della Pontificia Accademia per la vita, Vivere per sempre (Piemme, pp. 300 €17,50), esce totalmente dai vecchi e prevedibili modelli di riflessione. Il libro segue un’altra importante lavoro di Paglia contro l’eutanasia, e i suoi rischi, Sorella morte, del 2016.
Questo libro è nuovo per almeno due ragioni.
È incentrato sul valore della vita, perché siamo nati, scrive il sacerdote, non per seguirne il flusso, in attesa dell’evento finale. Siamo nati per fronteggiarla, per renderla migliore per noi e per gli altri. La vita non è una meditativa preparazione alla morte. È un impegno per sé per gli altri. Papa Ratzinger si era chiesto per quali motivi il programma del cristianesimo era stato interpretato come ricerca egoistica della salvezza personale e non anche come servizio per gli altri. Questo fenomeno, spiega Paglia, deriva dallo spostamento della fede sul terreno dell’ultraprivato e dell’ultraterreno; uno spostamento che la rende irrilevante per le vicende della vita e che ci impedisce una riflessione non traumatica né passivamente rassegnata sull’ultimo giorno.
Il cristianesimo non è «un trattato sulla sopravvivenza monotematica dello spirito e neppure sulla paura del giudizio monocratico dell’Ente supremo». «Non dobbiamo banalizzare il cristianesimo, prosegue Paglia, come fosse una consolazione a poco prezzo, che magari si vende il dramma dei perseguitati dalla storia per la quiete della propria anima».
Il dies irae è frutto di un’altra epoca.
Conseguentemente molti aspetti schematici della vita cristiana, vanno superati; molte ricchezze devono essere rese più evidenti e più comprensibili nel XXI secolo. Di qui, suggerisce l’autore, la necessità di un dialogo su questi temi tra credenti, non credenti e diversamente credenti; non per imporre un credo ma per cercare di camminare insieme superando il silenzio, l’indifferenza o il timore irragionevole sui momenti ultimi. Il cristianesimo, d’altra parte, non è la terra dell’io; è la terra del noi.