Repubblica 3.12.18
L'amore al tempo del comunismo: le lettere di Nilde Iotti a Palmiro Togliatti
Nilde Iotti e Palmiro Togliatit in una immagine d'archivio
Era il 1947 e la relazione tra i due fu uno scandalo anche perché Togliatti era sposato. Un carteggio privatissimo, escluso per 40 anni dalla grande storia, restituisce un impensabile Togliatti innamorato. E una signora molto diversa dalla donna di ferro, prima presidente della Camera, che siamo abituati a conoscere
di Michele Smargiassi
qui
Repubblica 3.12.18
Intervista
Emma Bonino
"Aumentano gli irregolari quella di Salvini è una legge autolesionista"
di Giovanna Casadio
ROMA Emma Bonino, l’effetto della legge sulla sicurezza è già di circa 40mila espulsioni. Le sembra una cifra verosimile?
«Attenzione, vengono espulsi non dall’Italia ma dal sistema di protezione quindi semplicemente mandati per strada. Questa è una legge autolesionista. Noi abbiamo già 500mila irregolari che nessuno riuscirà mai ad espellere, neppure Salvini. Così semplicemente si aumenta l’esercito degli irregolari».
Ma quale è la soluzione all’ondata di migranti?
«Non penso a soluzioni "buoniste" ma legalitarie: la sicurezza c’è, se c’è legalità. Che il decreto Salvini sia disumano e contro i diritti della persona, è quasi scontato che io lo dica. Vorrei quindi far riflettere i cosiddetti benpensanti, perché queste soluzioni sono masochiste: aumentano l’illegalità».
Global compact per le migrazioni: prima sì, poi no. Si aspettava una retromarcia del governo italiano?
«Da questo governo ci si può aspettare di tutto e il contrario di tutto. Nel giro di qualche ora con giravolte anche spettacolari di 180 gradi su tanti temi: dalla legge di Bilancio al "cacceremo tutti gli irregolari" alle Grandi opere. Ma è la credibilità stessa del paese che viene cinicamente distrutta, anche in ambito internazionale. Con motivazioni ridicole: "Serve un dibattito parlamentare". Lo scoprono adesso? Sono quasi due anni che si discute di questo global compact. Ovunque».
È Salvini, il vice premier leghista, ad avere avuto la meglio.
« Questo è sicuro, nel breve termine su questo tema come su altri, è passato come un bulldozer sui 5Stelle, partner di governo, e sugli interlocutori internazionali. Ma a mio avviso è una vittoria di Pirro: nessuno crederà più alle dichiarazioni del primo ministro Conte e del nostro ministro degli Esteri. E questa perdita di affidabilità e di credibilità è una sconfitta. Per tutto il paese. L’altro effetto è uno spostamento delle alleanze internazionali verso l’asse Orban-Putin»
Ma il presidente della Camera. il grillino Fico, ha preso le distanze dalla legge sulla sicurezza ed è a favore del Global compact, lei apprezza?
«Sì, va apprezzato e incoraggiato. Il presidente Fico ha preso anche l’impegno di far iscrivere nel dibattito parlamentare in primavera la proposta di legge di iniziativa popolare messa a punto dalla campagna "Ero straniero" per superare la legge Bossi-Fini e cancellare il reato di clandestinità».
Perché giudica il Global Compact così importante?
«Perché sono d’accordo con il presidente Conte prima maniera: "I fenomeni migratori richiedono una risposta strutturata, multilivello di breve medio e lungo periodo da parte dell’intera comunità internazionale. Su tali basi sosteniamo il Global compact". Presidente Conte dixit all’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 26 settembre di quest’anno, che ho ascoltato in diretta a New York. Sulla stessa linea e contenuti il ministro Moavero qualche giorni fa, il 21 novembre. Poi si è svegliato il ministro tuttofare Matteo Salvini, tra una sagra e una ruspa. Il Global compact non è vincolante, va detto».
Quale è il rischio politico?
«Che nessuno, in questo mondo così confuso ma così interdipendente, ci ascolti più su nessun tema perché inaffidabili».
La partita è nelle mani del Parlamento: potrebbe esserci una altra svolta?
«Ovviamente non bisogna darsi per sconfitti, prima ancora di reagire. Noi di +Europa faremo il possibile ma dubito che a breve ci possa essere qualche sano ripensamento visto il bottino di sondaggi che ne sta ricavando gratis o a spese di tutti noi Mr Salvini, perché l’affidabilità di un paese è patrimonio prezioso che si costruisce nel tempo, ma che può essere distrutta in pochi minuti».
Repubblica Robinson 2.12.18
Vittorio Lingiardi, Melania Mazzucco, Massimo Recalcati, Silvia Ronchey, Luigi Zoja
Forever Jung
di Silvia Ronchey
Dove nasce la raffigurazione di ciò che non è raffigurabile? Che si tratti di dio o dell’inconscio, di ciò che non pertiene al mondo dei fenomeni ma a quello della psiche o anzi dell’anima, per usare una parola classica che Carl Gustav Jung e ancora più James Hillman hanno restituito alla psicologia analitica? E d’altronde, esiste qualcos’altro che valga la pena raffigurare? Quella che chiamiamo raffigurazione, immagine, figura, raffigura veramente qualcosa? Raffigura, per meglio dire, qualcosa di vero?
Sono queste domande a sfiorare, o anzi a travolgere, chi sfoglia la raccolta delle opere d’arte di Jung, ora pubblicata in volume in America e in Italia a cura della Foundation of the Works of C.G. Jung ( L’arte di C. G. Jung, Bollati Boringhieri). Una sequenza di più di cento opere, molte inedite, altre inserite a loro tempo in saggi come il Simbolismo del mandala o il Systema mundi totius, o esposte nella casa di Küsnacht o nel ritiro di Bollingen, o regalate agli amici, ma deliberatamente mantenute anonime. La loro ricerca, classificazione e progressiva divulgazione è avvenuta, negli anni Novanta, parallelamente all’opera di riproduzione e poi di edizione del Libro rosso. Anche in questa raccolta di immagini — peraltro non esaustiva, visto che molte delle opere menzionate nei Ricordi, o sicuramente esistenti secondo altre fonti, non sono state ancora ritrovate — scorgiamo Jung protendersi nell’indicibile, perlustrandolo fino al delirio. Ma a differenza di quel grande in-folio rilegato in marocchino purpureo, in cui come un monaco medievale andò deponendo gli esercizi neogotici della sua calligrafia e i pigmenti rubescenti dei suoi mandala, istoriando laboriosamente le sue ombre o celandole in iniziali miniate, questo materiale visivo non ha una destinazione unica. Ancora più erraticamente esplora l’interrogativo iniziale della nostra filosofia, la rappresentazione dell’irrappresentabile, in un corpus multiforme composto non solo da disegni — a grafite, a pastello, a inchiostro — e dipinti — acquerelli, guazzi su carta o pergamena — ma anche da sculture. L’atto dello scolpire aveva per Jung, dichiaratamente, “una valenza meditativa”: “Il gioco della costruzione era solo un principio, dava libero corso a una fiumana di fantasie”, innescando quell’immaginazione attiva che era uno dei capisaldi della sua metodica terapeutica e diagnostica.
Dalla fiumana dell’immaginazione fuoriescono castelli onirici, città fantastiche, brulicanti scene di battaglie interiori; paesaggi dell’anima dominati da nuvole contorte, disseminati di boschi scheletriti, solcati da acque lustrali; simboli lunari, esiti cruciformi di visioni solari; cerimonie iniziatiche; feticci intagliati nel legno, idoli grifagni o serpentini, gnomi, larve, omuncoli, o spesso totem femminili simili ad antichi simulacri matriarcali. Astratte o figurative, sono immagini tutte perfettamente aniconiche, poiché ciò cui rimandano trascende l’interfaccia della rappresentazione: l’effigie simbolica che le supporta è un veicolo per transitare dal mondo del visibile a quello dell’invisibile e non è un simulacro del sensibile ma del suo opposto, di ciò che nel mondo empirico per definizione non ha posto.
Il problema dell’immagine ha sempre tormentato la filosofia, a partire dagli antichi greci. Platone la condannava e le attribuiva il valore conoscitivo più basso perché era copia di una copia. Come spiega il mito della caverna nella Repubblica, il mondo fenomenico ( in greco phainomenos, “ che si mostra”) per Platone è una rappresentazione effimera e imperfetta del mondo “vero”, che è quello “delle idee”. Ma nel greco di Platone la parola idea
non aveva ancora assunto il significato che oggi le diamo in filosofia o nel linguaggio comune. Derivata dal tema del verbo idein, “percepire”, “vedere”, l’idea era per i greci di allora una pura forma, cui le varie manifestazioni degli oggetti sensibili fanno capo: un modello o “archetipo” che si colloca, come Platone spiega nel Fedone e nel Fedro, in una sfera anteriore a quella della coscienza, da cui questi “ disegni interiori” sgorgano come da una fonte.
Il concetto di archetipo, che nella percezione odierna leghiamo istintivamente a Jung — a quelle forme a priori che postula innate nell’inconscio personale partecipe dell’inconscio collettivo, a quei modelli psichici astratti che si manifestano nei sogni e nelle fantasie tramite immagini simboliche — in realtà, nella sua formulazione originaria, è un concetto neoplatonico ed è già strettamente connesso al problema dell’immagine. Si trova anzitutto in Plotino, che lo usa per indicare gli universali immutabili di cui è tessuta l’anima del mondo e dunque anche la nostra anima individuale, e che chiarisce con esattezza la differenza filosofica tra immagine fenomenica e immagine “vera” quando scrive: “Gli artisti non imitano ciò che è visibile, ma si elevano fino alle ragioni ultime da cui la natura scaturisce; ed estraggono inoltre da sé stessi molte aggiunte creative per compensare là dove manca qualcosa. Il fatto è che costoro possiedono la bellezza dentro di sé: come Fidia, che fece il suo Zeus senza gettare lo sguardo su alcun modello sensibile, ma immaginando la divinità quale sarebbe se acconsentisse di apparire ai nostri occhi”. L’artista, dunque, scavalca il mondo dei fenomeni e anzi ne colma le lacune, attingendo direttamente al mondo delle idee.
Non a caso a Plotino come “precursore” di Jung è dedicato il fondamentale saggio in cui Hillman, il suo più geniale discepolo, riprende il concetto di anima mundi e ricollega al pensiero neoplatonico il concetto junghiano di inconscio collettivo. Hillman ha sviluppato e formalizzato in un nuovo sistema, la psicologia archetipica o archetipale, il lavoro sul mito greco che Freud per primo aveva introdotto nella ricerca psicologica. Jung aveva investigato a fondo, per esempio nella collaborazione con Karoly Kerenyi, figure come quella del fanciullo divino e dell’eroe. È stato Hillman a collegare direttamente il percorso di guarigione non solo individuale (dell’anima del singolo) ma anche e soprattutto collettivo (dell’anima del mondo) al riconoscimento di una più sofisticata pluralità di archetipi mitologici e alla reintegrazione della loro sostanza poetica nelle forme sociali dell’immaginazione. Ma è stato Jung a ritrasmettere laicamente alla nostra cultura gli elementi del sacro e del mistero e le loro simbologie, traendoli non solo dal mondo antico ma anche da quello cristiano e dalle tradizioni dell’oriente. Anche per questo il suo pensiero è il più persistente nella cultura di massa, il più suadente per l’anima pop, oggi permeata da un nuovo interesse per le religioni, soprattutto orientali, di cui Jung fin dall’inizio del suo lavoro ha inteso le immagini sacre come simboli di processi psichici.
Già Bisanzio aveva intuito questo statuto dell’immagine sacra. Non a caso nel suo ultimo libro, postumo e ancora inedito, Hillman ha voluto saldare il suo debito con Jung e trattare il tema dell’immagine partendo dai mosaici, dagli affreschi e da quei veri mandala cristiani che sono le decorazioni parietali e absidali di Ravenna. Nella cristianizzazione bizantina del pensiero platonico e neoplatonico, la coscienza del fatto che il sovramondo — l’iperuranio di Platone, il regno dei cieli di Cristo — non può presentarsi alla psiche umana né dunque rappresentarsi se non attraverso un processo di discesa nell’interiorità che fa emergere immagini solo apparentemente figurative, in realtà astratte, è costante in tutta la storia della filosofia e della teologia. Come scriveva un teologo platonico bizantino, lo pseudo-Dionigi Areopagita, le immagini che Bisanzio chiamava sacre sono “rappresentazioni visibili di spettacoli misteriosi e soprannaturali”. Che si tratti di dio o dell’inconscio, è l’immagine che descrive il mistero, che rimanda a ciò che non è della natura, che rappresenta l’irrappresentabile, l’unica immagine “vera”.
Tra le opere d’arte di Jung compare anche la rielaborazione dello stemma di famiglia, trasformato in ex libris, con il motto oracolare delfico ripreso da Erasmo: Vocatus atque non vocatus deus aderit, “Evocato o non evocato un dio sarà presente”. Se per confrontarsi con le forze psichiche che emergevano dal profondo Jung ha descritto due strategie, cercare di comprenderne il significato oppure trasformarle in immagini, e se quest’ultima era quella cui ricorreva quando, come scrive, “ si trovava in un vicolo cieco”, allora forse, con il conforto di Jung, potremmo dire, riprendendo Wittgenstein: “Ciò di cui non si può parlare, bisogna dipingerlo”.
Repubblica Robinson 2.12.18
Cartolinedall’inconscio
L’uomo che indagò nel profondo passava tanto tempo a disegnare e dipingere. Perché? Semplice: tutto è nell’immagine
di Vittorio Lingiardi
Era un artista, Jung? Chi può dirlo? Forse il lettore di questo libro. Tecnica ne aveva, questo lo si vede. Dipingeva, incideva, scolpiva. Usava pastelli, grafite, acquarelli e guazzo. Conosceva materiali e colori, non li usava a caso. E aveva iniziato presto. Fu un sogno infantile, racconta, il primo contatto col mondo delle immagini. A dieci anni intaglia un manichino in un righello di legno, lo colora di nero, lo veste di lana e lo ripone, segreto, nell’astuccio con un ciottolo del Reno. Sarà il custode dei suoi pensieri, della sua solitudine, della sua follia. "La psiche è fatta di immagini", scrive Jung. "Ogni accadimento psichico è un’immagine e un immaginare". Spiega che il concetto di immagine viene dal linguaggio poetico e non significa "riproduzione psichica dell’oggetto esterno", bensì " immagine fantastica", espressione condensata della situazione psichica totale, solo indirettamente riferibile alla percezione dell’oggetto esterno. L’immagine appare improvvisamente alla coscienza come "una visione" o "un’allucinazione", delle quali non possiede però il carattere patologico. Può essere personale o primordiale (cioè archetipica). Solo attraverso le immagini e i simboli la coscienza può avere un rapporto con l’inconscio.
Per tutta la vita Jung ha disegnato: boschi, serpenti e nuvole; madonne e donne velate; stelle, cartigli e fiori; croci, sfere e iniziali miniate; figurine stilizzate in tuniche splendide rosse e oro. Ma soprattutto mandala, simboli antichissimi e colorati di ogni cultura, espressione della divinità e del Sé: cerchio e quadrato, totalità. Ne fece uno che chiamò Systema mundi totius. Disegno e colori sono per Jung esperienze intrinseche alla terapia e alla scoperta del Sé. " All’inizio ci si serve di una matita o di una penna per fissare in rapidi schizzi le immagini di sogni, associazioni libere e fantasie. A partire da un dato momento, però, il paziente si serve dei colori: esattamente dal momento in cui l’interesse meramente intellettuale viene sostituito da una partecipazione a coloritura emotiva". È un passo del suo Mysterium coniunctionis, dove ci offre indicazioni sull’"immaginazione attiva", tecnica di sua invenzione che mirava, col metodo dell’"amplificazione", a far emergere nei pazienti i contenuti psichici nascosti e le immagini interiori dell’inconscio collettivo. La psicologia junghiana è insomma una psicologia figurativa.
Un artista, per Jung, solo apparentemente è mosso da obiettivi personali, forze molto più profonde sono in gioco. L’artista non è libero, è lo strumento che l’arte usa per trovare una sua forma e creazione. In questo senso è un uomo elevato e " collettivo" che plasma e veicola la cultura inconscia della sua comunità e dell’umanità in generale. La ricerca di Jung è quindi allo stesso tempo un’esplorazione del mondo interiore, del mundus imaginalis, come direbbe il grande orientalista Henry Corbin, e dell’inconscio collettivo. Arte è l’incontro col " numinoso", dove l’Io entra in rapporto trascendente con la realtà e il divino. Stava lavorando al Libro rosso quando gli apparve in sogno una figura, Filemone, che si sarebbe rivelata importantissima: un vecchio alato, con corna taurine: "non riuscendo a capire quest’immagine onirica, la dipinsi".
Jung morì a ottantasei anni senza aver pubblicato alcuna opera visiva che portasse la sua firma. E senza essere riuscito ad apprezzare l’arte contemporanea ( Picasso, per esempio) senza tirare in ballo simboli e psichismi. Dipingeva i paesaggi che amava ed era convinto che con loro l’uomo intrattenesse un rapporto misterioso: "ma ho timore di dire qualcosa in proposito perché non sarei in grado di suffragarlo razionalmente". I suoi paesaggi, dipinti in colori espressionisti, dorati e arcani, risentono dell’influenza di pittori come Sandreuter e Böcklin. Usò le figure del Rosarium philosophorum per spiegare la relazione terapeutica e le immagini variopinte dell’alchimia per descrivere il percorso individuativo: nigredo, albedo, rubedo...
Non so se era un artista, ma so cosa cercava nelle immagini. Una via per l’inconscio, una via dall’inconscio, un confronto con l’inconscio, un filo capace di legare la filosofia orientale e i processi psichici dell’europeo, una tecnica di connessione con il mondo degli archetipi.
Per Jung, lavorare con le mani stimolava l’inconscio e curava la psiche. Dopo la morte della moglie scrive: "mi costò grande sforzo ritrovare l’equilibrio, e il contatto con la pietra mi fu d’aiuto". In varie fasi della sua vita costruì, nella sua casa-rifugio sul lago, la Torre di Bollingen, decorandola con dipinti murali, sculture e bassorilievi. " Dovevo riuscire a dare una qualche rappresentazione in pietra dei miei più interni pensieri e del mio sapere". Un giorno si fa lasciare dagli operai un sasso per il quale aveva provato una forte attrazione. Lo sente " suo" e decide di usarlo per esprimere il significato profondo della Torre. Era una pietra " disprezzata", ritenuta inutile dagli operai. La collega al lapis alchemico, la pietra "amata dai saggi", e la ricopre di iscrizioni, citazioni di Eraclito, liturgie mitraiche, frammenti omerici. Scalpellando nella materia prima il suo sogno artistico d’inconscio e il suo bisogno creativo di terapia. ?
Repubblica Robinson 2.12.18
Checi fa Clee nel Libro Rosso
Criticò Picasso e probabilmente non si sarebbe mai definito artista Eppure le sue opere parlano all’arte del 900
di Melania Mazzucco
Fra il 1913 e il 1930 Carl Gustav Jung ha illuminato, con certosina perizia ispirata all’arte medievale della miniatura, un misterioso manoscritto, il racconto di un viaggio interiore che è insieme testo psicologico e poetico: il Liber Novus, o Libro rosso. Dopo la rottura con Freud, aveva intrapreso la sperimentazione su sé stesso, che chiamò il suo " confronto con l’inconscio", con lo scopo di tradurre le emozioni e le fantasie in immagini: le conoscenze derivate da quell’autoesame avrebbero contribuito a fondare la psicologia analitica. Il Libro rosso è rimasto inedito fino al 2009. Le sue affascinanti illustrazioni sono state una rivelazione ed esposte perciò in tutto il mondo (in Italia le abbiamo scoperte alla Biennale di Venezia del 2013). Ma non esauriscono la ricchissima produzione visiva di Jung come dimostra L’arte di C. G. Jung, che ora esce in Italia per Bollati Boringhieri.
Il titolo interroga subito. Queste opere sono arte? Jung avrebbe risposto di no. Sono il frutto dell’"immaginazione attiva", che permette alle immagini dell’inconscio di affiorare. Sono talismani, sogni, forme astratte che rappresentano archetipi, figure orfiche, idee filosofiche e anche, come nel caso di un busto femminile, la sua propria anima. Le interpretava unicamente in chiave psicologica. Ma la loro qualità ha rivelato che nella sua villa di Küsnacht, sul lago di Zurigo, quasi in segreto, Jung dedicava una porzione non trascurabile del suo tempo a dipingere le immagini interiori generate dalla sua psiche — a guazzo, ad acquerello, su carta o pergamena.
Ai paesaggi dipinti fra il 1895 e il 1905 — atmosferici, onirici, privi di ogni presenza umana o animale — seguono infatti, fino alla morte, avvenuta nel 1961, decine di astratti mandala e cosmogonie, simboli come stelle, sfere, uova, immagini stilizzate di serpenti, alberi, divinità personali. Jung non era un dilettante. Come osserva Jill Mellik nel libro, sbalordisce la sua competenza tecnica, la capacità di manipolare superfici, colori, prospettiva, ombre.
Usava pigmenti preziosi, pennelli dalle setole finissime di zibellino e i codici dell’arte figurativa di ogni epoca e continente. In effetti l’arte lo affascinava fin da bambino: nei suoi Ricordi ha raccontato che quando viveva nella canonica del padre, pastore protestante di Kleinhüningen, trascorreva ore a fissare la copia di un quadro della scuola di Guido Reni appesa sulla parete di una camera buia: " la sola cosa bella che conoscessi". Cresciuto a Basilea, il cui Kunstmuseum raccoglie un’eccezionale collezione di pittura, Jung ha frequentato musei tutta la vita. E nel corso dei viaggi effettuati tra il 1924 e il 1937 si avvicinò all’arte indiana, orientale e africana. Inoltre il suo paese, la Svizzera, patria di Böcklin, Klee e Giacometti, rifugio di Segantini e Kokoschka, è stata crogiolo dell’arte del XX secolo e incubatrice di molte avanguardie, dal simbolismo fino al dadaismo.
Tuttavia, apparentemente, Jung non raccolse la sfida dell’arte contemporanea. Non lo interessava la sua caratteristica principale, " la disgregazione dell’oggetto", perché al contrario mirava ai processi legati all’unione degli opposti, e nel 1932 un suo aguzzo articolo sull’arte di Picasso ( la paragonò a quella dei suoi pazienti schizoidi) scatenò una tale furente incomprensione che decise in futuro di astenersi da ogni ulteriore commento.
Eppure, al di là della esibita incompatibilità, il suo lavoro sui colori puri, sulle forme, sui simboli e sulle astrazioni era non solo in sintonia ma anche in sincronia con le ricerche artistiche dei suoi contemporanei. Nel 1911 Kandinskij pubblicava Lo spirituale dell’arte,
teorizzava l’influsso dei colori sull’anima e poneva le fondamenta dell’arte astratta e poco dopo Jung inaugurava il Libro rosso; in seguito, mentre lui s’immergeva nelle rappresentazioni dei misteri alchemici, dimostrandone l’affinità con le immagini oniriche, Klee rifiutava l’imitazione e sosteneva che l’arte è un ricordo dell’origine e deve rendere visibile l’interno occulto delle cose.
E i parallelismi si riverberano: le pratiche surrealiste attingono allo stesso deposito sotterraneo dell’immaginazione attiva, gli inquietanti idoli feticcio scolpiti da Jung rimano con le sculture ispirate dall’arte tribale; il suo barbuto dio pagano Filemone ricorda le figurine arcaiche di Chagall, i bruchi e i mostri le fantasie di Redon e Miró, e così via... Del resto, proprio Filemone gli aveva rivelato che i pensieri sono dotati di vita propria, come animali nella foresta, uomini in una stanza o uccelli nell’aria e Jung aveva concluso che " c’è in me qualcosa che può fare affermazioni per me sconosciute e incomprensibili, o che possono persino essere rivolte contro di me". Anche le sue immagini sono dotate di vita propria e, quasi contro la sua volontà, Jung è stato un sommo artista.
Repubblica Robinson 2.12.18
Jung Lacan uniti nella lotta
Uno mistico e l’altro logico fondarono scuole opposte. Eppure, grazie alle immagini, alleate in una guerra. Contro la "Iocrazia"
di Massimo Recalcati
Jung e Lacan sembrano essere agli antipodi: il primo è attratto dalle forze irrazionali, il secondo dalla logica, dalla topologia, dai grafi, dai mathemi; il primo è un visionario, figlio della mistica ( religione, alchimia, mitologia), il secondo uno strutturalista che ha alle spalle la linguistica di Saussure e l’antropologia di Lévi-Strauss oltre alla grande stagione dell’illuminismo. Il primo pone l’inconscio come composto da immagini (innanzitutto archetipiche e collettive); il secondo lo vede "strutturato come un linguaggio". Ma questi due mondi così lontani sembrano paradossalmente incrociarsi nel modo di intendere l’esperienza dell’analisi: in essa non è in gioco una semplice terapeutica, ma una trasformazione radicale del soggetto ai limiti della perdita di sé e della depersonalizzazione. Per il mistico Jung e per il logico Lacan la posta in gioco di una analisi non consiste affatto in un rafforzamento muscolare dell’Io, in una adesione acritica al regime, come l’ha ironicamente battezzato Lacan, dell’" Iocrazia", quanto piuttosto nella sua dissoluzione. Il che significa che la malattia mentale non ha origine da un deficit dell’Io, ma da un suo sviluppo ipertrofico.
In questo movimento di avvicinamento paradossale tra due mondi considerati lontanissimi, una parte decisiva è giocata dal ruolo attribuito alle immagini. Già Freud aveva riservato una attenzione nuova all’immagine attribuendole un potere inedito. In gioco non era più la vitalità esuberante dell’immaginazione romantica, quanto piuttosto l’immagine come canale che collega la vita della coscienza a quella dell’inconscio. Per Freud questa era la lezione fondamentale del sogno: l’apparizione — in una trama narrativa — di immagini il cui potere consisteva nel raffigurare un desiderio inconscio respinto dalla coscienza. L’immagine come ponte che mantiene in connessione il desiderio rimosso alla coscienza che lo rimuove. La sua natura non è quella di rispondere a un simbolismo ingenuo ( sognare un leone significa sognare il padre), ma quello di realizzare la " condensazione" ( Verdichtung) di una pluralità di significazioni possibili. È questo il rapporto stretto che l’immagine onirica intrattiene con il linguaggio poetico. Non a caso, infatti, nella lingua tedesca poesia si dice Dichtung. Tuttavia per Freud le immagini restano innanzitutto delle "mascherature" del desiderio inconscio prodotte dall’azione censoria del lavoro onirico. È questo il punto dove si aggancia la critica junghiana e lacaniana: le immagini oniriche non sono maschere, ma luoghi di rivelazione della verità più profonda del soggetto. In particolare è Jung a enfatizzare in modo singolare il potere delle immagini. L’incontro con l’immagine è incontro con il " numinoso", con l’apparizione di una forza che trascende quella della coscienza. " L’accesso al numinoso — scrive — è la vera terapia". Solo quando si arriva " all’esperienza numinosa si è salvati dalla maledizione della malattia."
L’opzione di fondo di Jung consiste innanzitutto nel liberare l’immagine dalla sua origine narcisistica. Non si può ridurre la potenza generatrice dell’immagine all’immagine speculare del proprio Io. Una cura analitica non consiste nel rafforzare il potere dell’Io, ma nel suo più radicale svuotamento. In questo il percorso di Jung interseca quello di Lacan: per entrambi l’esperienza dell’analisi non consiste in una bonifica delle zone paludose dell’inconscio ma nella riabilitazione del suo potere. Essa non è un esercizio di padronanza dell’Io sull’inconscio ma diviene una esperienza, come direbbe junghianamente Lacan, di " crepuscolo dell’Io". Per questa ragione per Jung le immagini non sono scorie irrazionali che devono essere civilizzate dall’azione dell’ideazione razionale, del logos, ma sono esse stesse logos, manifestazioni potenti della trascendenza della vita che affondano le loro radici in un sostrato archetipico. Ma in gioco non è una semplice mistica delle immagini. Il punto etico sul quale sia Jung e Lacan insistono consiste nel fatto che il soggetto è sempre tenuto a rispondere alle indicazioni e alle aperture che scaturiscono dalle immagini dell’inconscio. Non è l’Io che governa le immagini, ma l’Io ha il dovere etico di accogliere in sé, di lasciarsi guidare dalla loro forza generatrice. L’immagine indica l’orizzonte di verità al quale il soggetto nell’analisi deve corrispondere se non vuole cadere nell’alienazione narcisistica del proprio Io. Perdersi nell’immagine è dunque un modo per ritrovarsi senza più la pretesa di governare la potenza inesauribile della vita. In un tempo come il nostro che esalta la furia devastatrice dell’Iocrazia fare esperienza della perdita di sé suona come un antidoto anche politico: parafrasando la famosa massima di Freud ("dove era l’Es deve subentrare l’Io"), si potrebbe dire — junghianamente — che dove era l’immagine inconscia, il soggetto ha il compito etico di avvenire.
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