giovedì 27 dicembre 2018

Repubblica 27.12.18
Capri, Hollywood
Il regista Amos Gitai "Basta con le paure sosteniamo le idee"
Il maestro israeliano presenta oggi A Tramway in Jerusalem
di Roberto Nepoti


al Festival del Cinema e dell’Audiovisivo e parla dei suoi progetti. Molte le star e le anteprime alla kermesse isolana (fino al 2 gennaio). E una mostra speciale...
Pluripremiato ai festival internazionali, regista di film impegnati, ma anche di grandi attrici, attivo nel cinema di finzione come nel documentario, Amos Gitai è uno degli ultimi cineasti ai quali si adatti perfettamente la qualifica di autore. Oggi è a Capri, accompagnato dal suo film presentato fuori concorso a Venezia A Tramway in Jerusalem. Nel frattempo lo abbiamo raggiunto telefonicamente in Israele, per porgli alcune domande.
Ci permetta di cominciare su una nota luttuosa. Pochi giorni fa, assieme a tantissimi colleghi, lei ha partecipato ai funerali di Bernardo Bertolucci, cui la legava un’amicizia personale e che aveva partecipato a uno dei suoi film, Golem lo spirito dell’esilio. Ci vuole dire una parola sul regista scomparso?
«Al funerale ci sono stati molti interventi, dal vivo e anche in video: come quelli di Scorsese, di Coppola e di altri. Io ho preferito parlare di due aspetti forse meno evidenti, eppure importantissimi, dell’opera di Bernardo. Da una parte il contributo al suo cinema della moglie Clare Peploe. Dall’altra il significato dei suoi primi film, che fecero da ponte tra la grande tradizione del dopoguerra (quella dei Visconti, dei Rossellini, dei Pasolini) e il cinema moderno. È un’autentica lezione sul cinema, il cinema più importante di tutti: quello che ha il coraggio di osservare la realtà e crea significato, pur senza voler indottrinare».
Anche se alcuni dei suoi film, come "Kadosh, Kippur" e "Terra promessa", sono molto noti, il suo cinema non è destinato a priori al grande pubblico. Eppure hanno accettato di lavorare con lei star del cinema come Juliette Binoche, Natalie Portman, Rosamund Pike, Hanna Schygulla, la grandissima Jeanne Moreau. È stato difficile convincerle a partecipare alle sue opere?
«Ci sono due tipi di attori: quelli che preferiscono ripetere sempre il loro repertorio consolidato e quelli che, invece, amano sperimentare. Un giorno Jeanne Moreau mi disse che accettava di lavorare a dei progetti quando pensava di poter imparare qualcosa che non sapeva ancora. E lo stesso è per me: anch’io ho imparato molte cose dai miei attori.
Non solo dalle star del cinema, ma da Pina Bausch, dal grande regista americano Samuel Fuller e da tanti altri».
Lei ha vissuto a lungo in esilio volontario da Israele, realizzando una celebre trilogia sul tema dell’esilio e dell’emigrazione. Quale le appare, oggi, la condizione degli esiliati?
«Gran parte dell’umanità è declassata, frammentata, in fuga e in cerca di rifugio. Però tutti siamo degli esiliati. Due anni fa ho diretto l’Otello di Rossini per il teatro San Carlo di Napoli: anche Otello era un migrante, un rifugiato. Già un quarto di secolo fa, per suggestione di Enrico Ghezzi, inserii nella mia Neo- Fascist Trilogy un documentario sulla campagna elettorale di Alessandra Mussolini dal titolo In nome del Duce. Oggi il fascismo è di ritorno, ci sono tanti leader dispotici e demagogici che sfruttano le paure dei popoli; si sta diffondendo una specie di tsunami revisionista, che sparge autoritarismo. Davanti a ciò il cinema e la cultura non possono restare indifferenti, ma hanno il compito di far capire ciò accade».
L’ammirevole film "A Tramway in Jerusalem", che presenta a Capri, è tutto concentrato sull’osservazione dei passeggeri del tram che attraversa la città. È un micromondo crudele: soprattutto dalla parte degli ebrei, che sembrano sentirsi costantemente sotto assedio. Lei che, assieme a tanti intellettuali israeliani, ha firmato appelli per la pace, oggi si sente più pessimista?
« Non bisogna assolutamente essere pessimisti, altrimenti si cade nel nichilismo e ci si arrende. Anche se la situazione attuale non è buona, è necessario portare sempre nuovi contributi di idee, si deve parlare di idee. Il cinema e l’arte possono svolgere un ruolo importante».
Sta lavorando a un nuovo progetto?
«Sì, a un progetto che mi appassiona molto.
Riguarda il personaggio storico di Dona Gracia Mendes, grande figura del XVI secolo, che fu perseguitata dall’Inquisizione. Traversò tutta l’Europa alla ricerca della propria identità e la sua è una storia piena di episodi avvincenti. Da lei ebbero inizio le grandi persecuzioni contro gli ebrei. Per il cast ho pensato a Léa Seydoux, Alba Rohrwacher, Charlotte Rampling. Ho già parlato con ciascuna di loro e presto si deciderà».