Repubblica 23.12.18
Sergio Givone
Dalle risaie a Bobbio. Dai Quaderni Rossi allo Swing Club
Il grande filosofo racconta. Fino al mistero di Gesù
«Oggi sono io che chiedo a lui: e tu chi credi che io sia?»
di Antonio Gnoli
ritratto di Riccardo Mannelli
È
stato allievo di Luigi Pareyson. Come del resto lo furono Umberto Eco e
Gianni Vattimo. Un maestro è sempre qualcuno che bisognerebbe accettare
con una certa pratica zen. Sicché una volta Sergio Givone mi raccontò
dei vari tentativi con cui il professor Pareyson provò a friggere i
pesci con l’acqua: un lieve velo di bollicine avrebbe dovuto,
all’opportuna temperatura, creare una sapida crosticina. Grande esperto
di filosofia ma poco addentro ai misteri della chimica, Pareyson mise in
pratica l’idea che la realtà non ha limiti nell’interpretazione.
Perfino quando un semplice pesciolino si getta in un’umida padella, lì
quasi per incanto si può scoprire una verità diversa dalle leggi della
fisica. Questa storiellina mi torna alla mente la sera in cui con Givone
abbiamo deciso di riprendere vecchi discorsi e nuove domande. Lui è un
uomo gentile e disponibile. Incapace di pescare nel gelido mare delle
cattive maniere. Ha una mente accogliente. Con discrezione argomenta le
situazioni più complesse e perfino sgradevoli: il tragico, il nulla, la
vita sempre in bilico tra opzioni difficili e laceranti. È come se ci
fosse il filosofo e il saggio; un signore disposto a misurarsi con le
peggiori asperità del pensiero e un uomo che tutto sembra vivere con
serenità spinoziana. Dove conduce questa doppia immagine? Anzi tripla,
perché nel frattempo nella sua bella casa fiorentina egli sfoggia la sua
sapienza gastronomica preparando delle pernici allo zabaione.
Spero che non siano come i pescetti di Pareyson.
«Quanto
meno la preparazione è molto più laboriosa. Una volta che le pernici
sono rosolate e immerse nel loro sugo di cottura vanno deposte su dei
crostoni imburrati così da ricevere lo zabaione come Leda in forma di
cigno ricevette la pioggia d’oro di Zeus».
Da dove nasce questa tua passione per la cucina?
«Ha
poco a che vedere con l’attuale moda. Semmai richiama il senso
religioso del cibo. I riti e i precetti che la religione familiare
assolveva, soprattutto nel mondo contadino da cui provengo. Vivevamo in
una cascina fra le risaie e ci nutrivamo quasi esclusivamente di quel
che veniva prodotto o allevato nei campi, nelle stalle, nell’orto, nel
frutteto, nel cortile e perfino sui tetti nella colombaia».
Questa è stata la tua infanzia?
«Può
apparire molto strana e difficile da raccontare perché il mondo della
risaia da cui provengo è sparito. Non c’è più il silenzio rotto dalle
grida e dai canti delle mondine; non c’è più il cielo che si rifletteva
nella terra d’acqua. L’idea che la terra fosse lo specchio del cielo mi
ha accompagnato fino a oggi».
Tutto questo lo hai raccontato
alcuni anni fa nel romanzo " La favola delle cose ultime". Fu credo la
tua prima prova narrativa importante. Sei un filosofo che si improvvisa
romanziere o cosa?
«Non c’è a mio avviso molta differenza tra
narrare e filosofare. La filosofia, come il romanzo, non ci dice come
stanno le cose. Per questo c’è la scienza che fa benissimo il suo
mestiere. La filosofia ci dice come le cose potrebbero stare. C’è
sempre, nel cuore del pensiero filosofico, una scommessa, ed è la
scommessa di Pascal. La verità della filosofia non è "ontologica", non
rispecchia il mondo quale esso è. La verità della filosofia è
"escatologica". La sapremo alla fine se mai la sapremo».
Non è curioso che un filosofo si dichiari così prossimo alla religione?
«No,
anzi. C’è un legame che in me è nato come reazione al fascino provato
per l’ateismo. Che tutt’ora perdura. Vorrei liberarmi dalla religione, e
prendere le cose per quello che sono, nuda terra e nient’altro. Ma il
vuoto di senso mi fa orrore».
Perché parli di fascino dell’ateismo?
«L’ateismo
è la tentazione di liberarsi dal sovrannaturale per aderire alla
concezione naturalistica. Al mondo liberato da Dio. Ma nel momento in
cui non ci fosse più Dio, non resterebbe che il senso di vuoto appunto.
Ma se accettassi il mondo così com’è allora la mia vita non avrebbe più
profondità, valore, trascendenza, responsabilità. Sarei, come insegna
Dostoevskij, solo arbitrio, senza un’autentica libertà».
Ma si è liberi anche di non credere, no?
«Certo,
c’è posto per tutti: anche per coloro le cui argomentazioni sono
differenti dalle mie. Qualcuno dice: grazie a Dio sono ateo. Io dico:
grazie al mio ateismo credo in Dio. L’ateismo è un paradosso: nega Dio
ma ne presuppone l’esistenza. Di qui il dubbio, ma anche la necessità di
uscirne».
Come uscisti dal mondo delle risaie per finire in quello della filosofia?
«Dalla
provincia di Vercelli arrivai a Torino nel 1963. In casa si leggeva
Fogazzaro, D’Annunzio, Hans Fallada. Per me fu una specie di
ribaltamento trovarmi davanti a Pareyson che spiegava Fichte o
Dostoevskij e nell’aula accanto, di palazzo Campana, Umberto Eco faceva
un corso sulla fenomenologia di Mike Bongiorno o Gianni Vattimo parlava
di Nietzsche e Heidegger».
Era sorprendente.
«Certo, ma
ancora più sorprendente che tutti indossassero la stessa grisaglia, la
stessa cravatta, ma poi facessero cose straordinariamente diverse. Non
ero del tutto sprovveduto. Al liceo avevo avuto come professore di greco
Dario Del Corno e la lettura che egli ci fece dell’Antigone mi rivelò
per la prima volta che si può scegliere tra necessità e libertà».
A parte Pareyson chi erano all’università gli altri punti di riferimento?
«Norberto
Bobbio e Nicola Abbagnano. Tra Abbagnano e Pareyson il conflitto fu
immediatamente evidente. Sebbene entrambi esistenzialisti, avevano due
modi opposti di interpretare il ruolo della filosofia. Per Abbagnano il
sapere filosofico si doveva sciogliere nelle altre scienze umane.
Pareyson invece ne rivendicava l’unicità. Quanto a Bobbio, mi sorprese
la volta in cui mi inviò una lettera nella quale confessava che in
Pareyson aveva trovato un importante interlocutore. Da buon illuminista
Bobbio vedeva nei molti mali che la natura infligge all’uomo qualcosa
che non si può spiegare attraverso Dio, ma poi era come se fosse preso
dal dubbio. Questo fu il senso di quella lettera che per un attimo
lasciava intravedere più di un tormento».
A parte l’università cosa facevi a Torino?
«Per
un po’ frequentai la redazione di Quaderni Rossi, la rivista diretta da
Raniero Panzieri. Per un po’ mi lasciai sedurre dai discorsi
rivoluzionari svolti da gente che sapeva molte più cose di me. Io zitto
ad ascoltare, nella convinzione che ogni mia parola avrebbe potuto
incrinare il cristallo della rivoluzione. Quel rigido mondo dell’utopia
dei Quaderni Rossi a un certo punto si ruppe e trovai rifugio allo Swing
Club, un locale sorto a trecento metri da via Bligny sede dei
Quaderni».
Cosa scopristi?
«Era un ritrovo di jazz. Potevi
incrociare Dizzy Gillispie o Lou Bennet. Ma lì si riunivano anche gli
ultimi eredi dell’antica commedia italiana: Felice Andreani, Nanni
Svampa, Enzo Jannacci. Fu questo clima a liberarmi dal peso opprimente
di una certa politica ».
Il Sessantotto però sfilò la grisaglia a molti professori.
«Diciamo
che la strappò brutalmente loro di dosso. Con conseguenze a volte
drammatiche. Come nel caso di Giovanni Getto che tentò perfino il
suicido. Quanto a Pareyson visse malissimo quel momento. Faccio fatica a
capire come una persona dotata di grande lungimiranza si rivelò quasi
inerme di fronte al Sessantotto ».
Aveva il rifiuto dei fenomeni collettivi.
« Penso sia vero. Pareyson fu il teorico e il filosofo della persona. Che restava per lui il centro della decisione».
Questo
richiamo ai valori della persona mi fa venire in mente l’accenno che
Pietro Chiodi fa in "Banditi" all’impegno di Pareyson nella Resistenza,
in particolare nelle fila di Giustizia e Libertà.
«È singolare che
questa indicazione di Chiodi sia stata letteralmente ignorata nelle
ricerche storiche sulla resistenza. Pareyson fondò a Cuneo il Partito
d’Azione e divenne il collaboratore più stretto di Duccio Galimberti,
rivestendo un ruolo di comando nella zona delle Langhe. Un posto
considerato strategico per la Resistenza».
Perché di questa adesione non resta quasi più traccia?
«Pareyson
non ne ha mai parlato pubblicamente e del resto il suo impegno nella
resistenza avvenne sotto il nome di Luis. Non era scontato risalire a
lui. A un uomo che, nel dopo guerra, fu profondamente deluso dalla
crescita travolgente dei due grandi partiti di massa, Dc e Pci, nei
quali vedeva la politica asservita all’ideologia. Tutto quello che era
movimento di massa gli faceva orrore. Sospetto che la stessa reazione
avrebbe avuto oggi di fronte al dilagante populismo. Ci sono forme
inedite e al tempo stesso antiche di contagio collettivo».
A
questo proposito in un libro di qualche anno fa parlavi della " peste"
come metafora in grado di rappresentare ciò che accade oggi.
«Di
fronte alle ondate di eventi obbrobriosi che il nostro tempo ci rovescia
addosso mi appaiono insufficienti le spiegazioni filosofiche. E allora
vedo avanzare minaccioso il carro allegorico della peste con la sua idea
di contagio. Contagio dei corpi, ma anche delle menti e dei cuori.
Delle anime».
E forse anche della lingua. Lo strumento oggi più esposto al contagio.
«Appestata
è la lingua che ci ritroviamo a parlare per inerzia, per imitazione,
per conformismo: la lingua che stravolge, offende, mistifica. Temo che
chi parla male pensa anche male e chi pensa male è facile che prima o
poi il male lo faccia».
Si accennava prima al senso della
religiosità. E non è forse improprio in questo momento richiamare la
figura di Gesù. Quale centralità ha per te?
«Credo di sapere
perfettamente chi sia il Cristo per me. Nessuna figura mi appartiene più
profondamente, da nessuna potrei trovare una guida più sicura. Eppure
questo sapere resta muto, nel senso che mai e poi mai potrei trovare le
parole per esprimerlo. Cristo per me non è quello che nei Vangeli
chiede: " E tu chi credi che io sia?" Piuttosto è quello al quale
chiedo: "E tu chi credi che io sia?"».
Quale risposta ti attenderesti?
«Non
credo che mi risponderebbe. Resterebbe in silenzio, guardandomi come ha
guardato quelli che nella dostoevskiana "Leggenda del Grande
Inquisitore" lo riconoscono, al suo ritorno in Terra, dal dolce sorriso
di pietà infinita».
C’è qualcosa di arrendevole e misterioso in quel sorriso.
«Certamente non c’è niente di ironico su quelle labbra».
Labbra
che sugellano il rapporto con un bacio. Su cui si è molto scritto: il
bacio del Cristo al Grande Inquisitore sembra quello dell’inerme che si
sottomette al potere.
«Ma non è così. Non è questo il senso che
Dostoevskij vuole trasmetterci. Oltretutto, il bacio ha un precedente
importante: quello di Giuda a Gesù, ma lì era il bacio che tradiva il
maestro, qui è il tentativo di ristabilire una verità».
Quale?
«Che
ogni potere per quanto forte sia si svuota di significato e di forza
davanti a un gesto d’amore. Insomma, quel bacio che Dostoevskij mette in
scena finisce con il somigliare al sorriso della Gioconda, talmente
enigmatico da incarnare l’universalità del mistero».
Ma se il mistero è per definizione impenetrabile come possiamo attribuirgli valore di verità?
«Davanti
al mistero non si dimostra un bel niente, però lo si interpreta sapendo
che la verità che vi si manifesta non è mai inchiodata al suo
fondamento, a ciò che la giustifica. È una verità che si dà nelle forme
più diverse. Tanto nel tragico quanto, mi verrebbe da aggiungere, nel
comico».
Non hai l’impressione che il comico abbia di gran lunga sopravanzato il tragico?
«Mi
capita di pensare che del nostro paese non resta che ridere. Magari un
riso amaro. Montale diceva che tra l’orrore e il ridicolo il passo è un
nulla. Aggiungerei che il percorso inverso sia perfino più vero. Andando
avanti negli anni mi sono convinto che il tragico sia molto meno
disperante del comico. Guardavo qualche sera fa un vecchio film a
episodi interpretato da Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman. Entrambi hanno
lungamente sofferto di depressione. Fino a sfiorare il nulla e a vivere
il vuoto come condizione di smarrimento. In quella sofferenza sospetto
ci fosse parte della loro arte. Quella lieve e autentica capacità di
trasformare il comico in una forma di verità accettabile. Perché umana,
perché dissacrante, perché umile e nobile al tempo stesso».