"Marx è la risposta ai populisti anche per la sinistra europea "
La lezione dei democratici americani, da Sanders a Ocasio-Cortez "Sono le diseguaglianze a creare conflitti, non il colore della pelle"
Noi non abbiamo masse che marcianocantando l’Internazionale, ma i giovani arrabbiati vogliono una vera alternativa e non si rivogono a destra
In Italia il Pd si è allontanato dalla gente che aveva bisogno di speranze e sogni, dall’altro ha dimenticato i problemi reali
L’intervista di Anna Lombardi a Bhaskar Sunkara, direttore della rivista "Jacobin"
«È la critica marxista la miglior risposta al populismo: un pensiero pratico che dimostra come siano le diseguaglianze a creare i conflitti, non il colore della pelle.
Può controbattere la retorica dei Donald Trump, dei Matteo Salvini, dei Boris Johnson. Dimostrando in modo propositivo e concreto che le loro idee non sono realizzabili».
Bhaskar Sunkara ha solo 29 anni ma conosce profondamente i dilemmi della sinistra. Nato a New York, figlio di immigrati indiani, a 17 anni si è iscritto al partito Socialista Democratico d’America e nel 2010, studente di storia a Washington, ha fondato il trimestrale Jacobin: diventato in pochi anni riferimento della sinistra radicale. La rivista, che conta 40 mila abbonati e 1,2 milioni di visitatori online, ha contribuito in maniera sostanziale a rilanciare il ruolo della sinistra americana. Ora approda in Italia: il primo numero è già in edicola.
In Europa la sinistra perde consenso mentre in America, dove il socialismo è stato a lungo tabù, lo acquista: almeno a giudicare dalla conquista della Camera e dall’ascesa di una generazione più radicale.
«Il messaggio socialista è universale, applicabile in ogni angolo della terra. L’esperienza di Occupy Wall Street e la campagna presidenziale di Bernie Sanders hanno contribuito a sdoganare in America l’idea che ci sono diritti inalienabili e il pensiero di Marx è ancora il riferimento più valido per difenderli. Certo, in America non ci sono masse di persone che marciano cantando l’Internazionale. Ma la sinistra è più capace di connettersi con la gente dell’estrema destra. È la vera alternativa per i giovani e gli arrabbiati, contrariamente a quel che succede in Europa».
Jacobin debutta in Italia con un titolo significativo: "Vivere in un Paese senza sinistra".
«La storia recente della sinistra italiana è costellata di errori e fallimenti. Il Pd ha perso la sua occasione ponendosi come guardiano dello status quo e volto dell’austerità: allontanandosi dalla gente che aveva bisogno di speranza e sogni. Giustificando la sua esistenza con l’essere scudo all’incubo chiamato destra, e dimenticando i problemi reali.
Anche il modo di criticare gli avversari è stato errato».
Cosa intende?
«Penso alle critiche a Berlusconi ma anche a Salvini: troppo concentrate sulla vita privata, un errore fatto d’altronde anche dai liberal americani con Trump.
Dimenticando di denunciare che l’agenda politica di questi uomini va contro gli interessi della gente.
Sono battaglie sacrosante, ma così restringi il tuo seguito, lasciando spazio ai populisti».
Che in Italia si sono coalizzati fra loro. Cosa pensa dell’alleanza Lega-5 Stelle?
«Deprimente. La conseguenza, appunto, del vuoto lasciato da una sinistra che, ad esempio, trincerata nella difesa dell’Unione Europea non ha nemmeno provato a criticarne costruttivamente le politiche di diseguaglianza lasciando così spazio alla demagogia populista. Il risultato è che ora avete un governo che si basa su promesse impossibili e retoriche: ma quando si tratta di decidere cosa portare davvero avanti del programma, lascia sopravvivere sempre ciò che beneficia i poteri già esistenti».
Lei è nato nel 1989, anno della caduta del muro di Berlino. Cosa sa dell’esperienza socialista?
«Ho studiato, ho letto: trovando fondamento alla percezione che viviamo in una società ingiusta.
Negli Stati Uniti, dove trionfano benessere e abbondanza, chi è povero non ha le sicurezze basilari che avete in Italia. Chi non ha un’assicurazione non si può permettere assistenza sanitaria e medicine: viene letteralmente lasciato morire. Sono queste le cose che ti fanno capire perché in America la critica al capitalismo ha tanto appeal. Il quesito è trovare una via per risolvere certe crisi senza ripetere gli errori del passato. Ma sono convinto che anche solo per preservare la socialdemocrazia, bisogna porre domande più radicali su questioni come la proprietà e la distribuzione della ricchezza».
In America c’è chi, come Mark Lilla, pensa che la sinistra si sia concentrata troppo su battaglie identitarie per i diritti di donne, gay, minoranze, abdicando al suo ruolo sociale.
«Lottare contro ogni tipo di oppressione è l’anima della cultura di sinistra. Come si fa a dire che il diritto delle donne all’aborto, ad esempio, non è fondamentale? In chiave marxista, decidere quando avere figli significa emancipare dal precariato le lavoratrici. Lo stesso col razzismo: come si fa a parlarne senza affrontare la questione della redistribuzione del benessere? Non sono battaglie che esulano dalla lotta di classe. Rigetto tutto ciò che enfatizza le differenze: ma sono anche convinto che non ci sono battaglie più importanti o urgenti di altre, bisogna riportarle tutte sotto una stessa casa».
Quale strategia suggerisce?
Quella delle varie Alexandria Ocasio-Cortez secondo cui, almeno in America, si può cambiare il partito democratico dal suo interno?
«Sono scettico sul fatto che il partito democratico possa diventare socialista. Penso però che oggi è l’unica strategia che aggrega la gente. Sanders d’altronde oggi è uno dei politici più popolari d’America: se nel 2020 ritentasse l’avventura elettorale potrebbe farcela. Oggi lui, e fra 10 anni, quando avrà l’età, anche Alexandria Ocasio-Cortez ha il potenziale e il seguito per tentare la sfida presidenziale. Personalmente ho un progetto ambizioso: un’alleanza di candidati di sinistra che partecipino alle primarie dem e se eletti votino individualmente per quel che riguarda i collegi elettorali ma come gruppo su questioni più grandi. Sì, un partito nel partito».
Corriere La Lettura 23.12.18
Più teologia che razza
L’enigma della Shoah
Per quanto si considerasse un arciebreo, il filosofo Jacob Taubes volle dialogare con Carl Schmitt, l’illustre giurista e politologo tedesco che aveva aderito al nazismo
Lo scopo era esplorare il lato spirituale del genocidio
di Donatella De Cesare
A ormai più di trent’anni dalla morte, avvenuta a Berlino il 21 marzo 1987, molti sono gli enigmi che costellano la vita di Jacob Taubes, intellettuale inquieto, radicale, audace. Tensione polemica, ironia sagace e impazienza messianica si congiungono nel suo pensiero, consegnato in gran parte a saggi brevi, confronti estemporanei, carteggi. Il che è in linea con il primato dell’oralità insito nella tradizione dell’ebraismo rabbinico, dalla quale Taubes discendeva e a cui restò indissolubilmente legato.
Dopo aver vissuto a lungo a Vienna, dove Jacob era nato il 25 febbraio 1923, la famiglia si trasferì nel 1936 a Zurigo, nella cui prestigiosa comunità ebraica il padre Zvi Taubes era stato nominato rabbino capo. La famiglia sfuggì così alla Shoah. Taubes diventò rabbino appena ventenne, nel 1943. Ciò non gli impedì di studiare filosofia, la sua passione. La sua tesi di dottorato fu anche il suo unico libro: l’Escatologia occidentale, pubblicata nel 1947 (Garzanti, 1997). Si trattava forse della prima riflessione sull’Occidente dopo Auschwitz, una sequenza impietosa di domande decisive sollevate a partire da quel limite della storia che ne aveva segnato anche l’abisso umano. Taubes si sentì sempre un sopravvissuto, scampato all’eccidio, chiamato perciò a interrogarsi.
Il dopoguerra fu scandito dalle tappe di una movimentata carriera accademica. Lavorò per un periodo a New York, dove entrò in contatto con l’intellighenzia ebraica in esilio, da Leo Strauss a Hannah Arendt; quindi accolse l’invito di Gershom Scholem che, colpito dalla sua genialità, gli aveva offerto un posto all’Università Ebraica di Gerusalemme. Le lingue per Taubes non erano un ostacolo. Parlava correntemente ebraico. Gli anni trascorsi in Israele, insieme a Susan Anima Feldman, un’ebrea americana che aveva sposato nel 1949, furono relativamente sereni. Ma il rapporto con Scholem andò deteriorandosi e la rottura fu definitiva, come si può leggere nello splendido volume I l prezzo del messianesimo. Una revisione critica delle lettere di Jacob Taubes a Gershom Scholem e altri scritti, curato da Elettra Stimilli (Quodlibet, 2017).
Taubes fece ritorno negli Stati Uniti, dove nel 1956 ottenne la cattedra di Filosofia della religione alla Columbia University. In quel periodo condivise i suoi studi con la moglie Susan, figura di intellettuale ancora da scoprire. Della sua opera postuma, conservata a Berlino, sono stati pubblicati dalla casa editrice Suhrkamp solo i saggi letterari; l’edizione degli scritti filosofici è prevista per il 2020. Quell’affinità, che aveva così intimamente legato i due coniugi, con il tempo venne meno. Esasperata dai continui tradimenti, dopo aver scritto nel 1969 il romanzo autobiografico Divorcing, Susan si gettò da un piroscafo in mare aperto. L’esistenza di Taubes era già stata segnata da un altro suicidio: inspiegabilmente il padre si era tolto la vita a Gerusalemme nel 1966. Ne risultò compromesso il suo equilibrio già molto precario. Nonostante un secondo matrimonio con la filosofa Margherita von Brentano, la sua vita sentimentale fu attraversata da passioni intense ma brevi, scossa da rapporti di amicizia e di lavoro sinceri ma conflittuali.
Durante il Sessantotto Taubes è a Berlino, dove insegna Ebraistica ed Ermeneutica filosofica alla Freie Universität. Il suo dipartimento è il cuore della ribellione studentesca. In stretto contatto con gli intellettuali più prestigiosi di quegli anni, da Blumenberg a Marquard, rimane un dissidente per vocazione. Gli allievi ricorderanno le sue avvincenti lezioni, i seminari esplosivi, tenuti malgrado le crisi maniaco-depressive che lo costringono a continui ricoveri. Lui che è un «apocalittico della rivoluzione», e non può sopportare i «marxistoidi» alla Habermas, vive il periodo più fecondo e congeniale negli anni Settanta. Cade allora ogni remora, se mai Taubes ne avesse avute. Con quelle conoscenze che molti gli invidiano, legge il cristianesimo delle origini rivendicando all’ebraismo non solo Gesù di Nazareth, ma anche Paolo di Tarso. Entrambi si stagliano sullo scenario in cui l’Impero romano scatena la guerra contro Israele.
Che cos’è allora la Shoah se non una nuova versione di quel conflitto? Sbaglierebbe chi pretendesse di interpretarla astraendo dall’antiebraismo cristiano. Taubes parla di «teo-zoologia» politica, annunciata tra squilli di tromba dentro la Chiesa, che avrebbe invece dovuto essere l’assemblea di una fratellanza universale. Inutile voler ridurre tutto all’ideologia della razza, quasi fosse un ostacolo da eliminare senza troppe difficoltà. La questione è ben più complessa, ben più antica. È una questione teologico-politica.
Taubes, che si proclama «arciebreo», osa allora quello che nessuno avrebbe forse osato: incontra Carl Schmitt, il giurista del Führer. Nel volume, appena pubblicato da Adelphi con il titolo Ai lati opposti delle barricate, sono raccolte non solo le lettere fra Schmitt e Taubes, ma anche le pagine di quest’ultimo che accompagnano i tre incontri fra «nemici» avvenuti in rapida successione: dal 4 al 7 settembre 1978, dal 22 al 23 novembre dello stesso anno e infine il 3 febbraio 1980.
Resta un mistero il contenuto di quei colloqui «sconvolgenti», come li definì Taubes. Eppure, dallo scambio epistolare e dalle sue riflessioni successive, si intuisce più di un motivo. Taubes aveva letto la Teologia politica di Schmitt ed era stato folgorato dalla tesi secondo cui i concetti politici hanno una provenienza teologica difficile da negare. Non era forse Israele l’esempio per eccellenza della teologia politica? D’altro canto non poteva, però, nascondersi il «divergente accordo» con cui leggevano la storia. Schmitt voleva trattenere la tensione rivoluzionaria, il caos che vedeva emergere nella Germania di Weimar. Era un controrivoluzionario. Taubes voleva, dunque, capire finalmente che cosa avesse spinto Schmitt che, insieme a Heidegger, considerava «la potenza intellettiva che sovrasta di gran lunga qualsiasi scarabocchio intellettuale», non solo ad aderire al Terzo Reich tedesco con pretese di salvezza, ma anche e soprattutto a vedere nell’ebreo il nemico d’elezione, consegnato allo sterminio. Come Hitler, erano entrambi «antisemiti cattolici», depositari di una tradizione ecclesiastica che guardava con «odio e invidia» agli ebrei e all’ebraismo. Per capire la Shoah — per evitarla di nuovo nel futuro? — sarebbe stato indispensabile non solo rileggere Paolo di Tarso, in particolare la Lettera ai Romani, ma anche ripensare il rapporto fra ebraismo e cristianesimo.
Corriere La Lettura 23.12.18
Il populismo a doppio taglio
Davvero la rivolta anti-establishment in nome del popolo angariato può costituire non una minaccia, bensì una risorsa rigeneratrice per la democrazia? È l’interrogativo che percorre il saggio di Pasquale Serra Populismo progressivo (Castelvecchi, pp. 187, e 22), in cui l’autore prende le mosse dall’esperienza argentina descritta dal sociologo Gino Germani, che riconobbe alla leadership di Juan Domingo Perón (1895-1974: sopra) la capacità di rispondere alle istanze espresse da strati sociali poco interessati al «mondo delle libertà astratte». Serra confronta l’analisi di Germani, che comunque considerava il populismo un problema, con le teorie del filosofo argentino Ernesto Laclau, che lo concepiva come rimedio ai limiti dei sistemi rappresentativi. Il nodo, di cui Serra è ben cosciente, resta la difficoltà di conciliare l’approccio populista con «una qualsivoglia teoria dei limiti e del controllo del potere». Senza la quale le derive liberticide sono sempre in agguato.
Repubblica 23.12.18
Sergio Givone
Dalle risaie a Bobbio. Dai Quaderni Rossi allo Swing Club
Il grande filosofo racconta. Fino al mistero di Gesù
«Oggi sono io che chiedo a lui: e tu chi credi che io sia?»
di Antonio Gnoli
ritratto di Riccardo Mannelli
È stato allievo di Luigi Pareyson. Come del resto lo furono Umberto Eco e Gianni Vattimo. Un maestro è sempre qualcuno che bisognerebbe accettare con una certa pratica zen. Sicché una volta Sergio Givone mi raccontò dei vari tentativi con cui il professor Pareyson provò a friggere i pesci con l’acqua: un lieve velo di bollicine avrebbe dovuto, all’opportuna temperatura, creare una sapida crosticina. Grande esperto di filosofia ma poco addentro ai misteri della chimica, Pareyson mise in pratica l’idea che la realtà non ha limiti nell’interpretazione. Perfino quando un semplice pesciolino si getta in un’umida padella, lì quasi per incanto si può scoprire una verità diversa dalle leggi della fisica. Questa storiellina mi torna alla mente la sera in cui con Givone abbiamo deciso di riprendere vecchi discorsi e nuove domande. Lui è un uomo gentile e disponibile. Incapace di pescare nel gelido mare delle cattive maniere. Ha una mente accogliente. Con discrezione argomenta le situazioni più complesse e perfino sgradevoli: il tragico, il nulla, la vita sempre in bilico tra opzioni difficili e laceranti. È come se ci fosse il filosofo e il saggio; un signore disposto a misurarsi con le peggiori asperità del pensiero e un uomo che tutto sembra vivere con serenità spinoziana. Dove conduce questa doppia immagine? Anzi tripla, perché nel frattempo nella sua bella casa fiorentina egli sfoggia la sua sapienza gastronomica preparando delle pernici allo zabaione.
Spero che non siano come i pescetti di Pareyson.
«Quanto meno la preparazione è molto più laboriosa. Una volta che le pernici sono rosolate e immerse nel loro sugo di cottura vanno deposte su dei crostoni imburrati così da ricevere lo zabaione come Leda in forma di cigno ricevette la pioggia d’oro di Zeus».
Da dove nasce questa tua passione per la cucina?
«Ha poco a che vedere con l’attuale moda. Semmai richiama il senso religioso del cibo. I riti e i precetti che la religione familiare assolveva, soprattutto nel mondo contadino da cui provengo. Vivevamo in una cascina fra le risaie e ci nutrivamo quasi esclusivamente di quel che veniva prodotto o allevato nei campi, nelle stalle, nell’orto, nel frutteto, nel cortile e perfino sui tetti nella colombaia».
Questa è stata la tua infanzia?
«Può apparire molto strana e difficile da raccontare perché il mondo della risaia da cui provengo è sparito. Non c’è più il silenzio rotto dalle grida e dai canti delle mondine; non c’è più il cielo che si rifletteva nella terra d’acqua. L’idea che la terra fosse lo specchio del cielo mi ha accompagnato fino a oggi».
Tutto questo lo hai raccontato alcuni anni fa nel romanzo " La favola delle cose ultime". Fu credo la tua prima prova narrativa importante. Sei un filosofo che si improvvisa romanziere o cosa?
«Non c’è a mio avviso molta differenza tra narrare e filosofare. La filosofia, come il romanzo, non ci dice come stanno le cose. Per questo c’è la scienza che fa benissimo il suo mestiere. La filosofia ci dice come le cose potrebbero stare. C’è sempre, nel cuore del pensiero filosofico, una scommessa, ed è la scommessa di Pascal. La verità della filosofia non è "ontologica", non rispecchia il mondo quale esso è. La verità della filosofia è "escatologica". La sapremo alla fine se mai la sapremo».
Non è curioso che un filosofo si dichiari così prossimo alla religione?
«No, anzi. C’è un legame che in me è nato come reazione al fascino provato per l’ateismo. Che tutt’ora perdura. Vorrei liberarmi dalla religione, e prendere le cose per quello che sono, nuda terra e nient’altro. Ma il vuoto di senso mi fa orrore».
Perché parli di fascino dell’ateismo?
«L’ateismo è la tentazione di liberarsi dal sovrannaturale per aderire alla concezione naturalistica. Al mondo liberato da Dio. Ma nel momento in cui non ci fosse più Dio, non resterebbe che il senso di vuoto appunto. Ma se accettassi il mondo così com’è allora la mia vita non avrebbe più profondità, valore, trascendenza, responsabilità. Sarei, come insegna Dostoevskij, solo arbitrio, senza un’autentica libertà».
Ma si è liberi anche di non credere, no?
«Certo, c’è posto per tutti: anche per coloro le cui argomentazioni sono differenti dalle mie. Qualcuno dice: grazie a Dio sono ateo. Io dico: grazie al mio ateismo credo in Dio. L’ateismo è un paradosso: nega Dio ma ne presuppone l’esistenza. Di qui il dubbio, ma anche la necessità di uscirne».
Come uscisti dal mondo delle risaie per finire in quello della filosofia?
«Dalla provincia di Vercelli arrivai a Torino nel 1963. In casa si leggeva Fogazzaro, D’Annunzio, Hans Fallada. Per me fu una specie di ribaltamento trovarmi davanti a Pareyson che spiegava Fichte o Dostoevskij e nell’aula accanto, di palazzo Campana, Umberto Eco faceva un corso sulla fenomenologia di Mike Bongiorno o Gianni Vattimo parlava di Nietzsche e Heidegger».
Era sorprendente.
«Certo, ma ancora più sorprendente che tutti indossassero la stessa grisaglia, la stessa cravatta, ma poi facessero cose straordinariamente diverse. Non ero del tutto sprovveduto. Al liceo avevo avuto come professore di greco Dario Del Corno e la lettura che egli ci fece dell’Antigone mi rivelò per la prima volta che si può scegliere tra necessità e libertà».
A parte Pareyson chi erano all’università gli altri punti di riferimento?
«Norberto Bobbio e Nicola Abbagnano. Tra Abbagnano e Pareyson il conflitto fu immediatamente evidente. Sebbene entrambi esistenzialisti, avevano due modi opposti di interpretare il ruolo della filosofia. Per Abbagnano il sapere filosofico si doveva sciogliere nelle altre scienze umane. Pareyson invece ne rivendicava l’unicità. Quanto a Bobbio, mi sorprese la volta in cui mi inviò una lettera nella quale confessava che in Pareyson aveva trovato un importante interlocutore. Da buon illuminista Bobbio vedeva nei molti mali che la natura infligge all’uomo qualcosa che non si può spiegare attraverso Dio, ma poi era come se fosse preso dal dubbio. Questo fu il senso di quella lettera che per un attimo lasciava intravedere più di un tormento».
A parte l’università cosa facevi a Torino?
«Per un po’ frequentai la redazione di Quaderni Rossi, la rivista diretta da Raniero Panzieri. Per un po’ mi lasciai sedurre dai discorsi rivoluzionari svolti da gente che sapeva molte più cose di me. Io zitto ad ascoltare, nella convinzione che ogni mia parola avrebbe potuto incrinare il cristallo della rivoluzione. Quel rigido mondo dell’utopia dei Quaderni Rossi a un certo punto si ruppe e trovai rifugio allo Swing Club, un locale sorto a trecento metri da via Bligny sede dei Quaderni».
Cosa scopristi?
«Era un ritrovo di jazz. Potevi incrociare Dizzy Gillispie o Lou Bennet. Ma lì si riunivano anche gli ultimi eredi dell’antica commedia italiana: Felice Andreani, Nanni Svampa, Enzo Jannacci. Fu questo clima a liberarmi dal peso opprimente di una certa politica ».
Il Sessantotto però sfilò la grisaglia a molti professori.
«Diciamo che la strappò brutalmente loro di dosso. Con conseguenze a volte drammatiche. Come nel caso di Giovanni Getto che tentò perfino il suicido. Quanto a Pareyson visse malissimo quel momento. Faccio fatica a capire come una persona dotata di grande lungimiranza si rivelò quasi inerme di fronte al Sessantotto ».
Aveva il rifiuto dei fenomeni collettivi.
« Penso sia vero. Pareyson fu il teorico e il filosofo della persona. Che restava per lui il centro della decisione».
Questo richiamo ai valori della persona mi fa venire in mente l’accenno che Pietro Chiodi fa in "Banditi" all’impegno di Pareyson nella Resistenza, in particolare nelle fila di Giustizia e Libertà.
«È singolare che questa indicazione di Chiodi sia stata letteralmente ignorata nelle ricerche storiche sulla resistenza. Pareyson fondò a Cuneo il Partito d’Azione e divenne il collaboratore più stretto di Duccio Galimberti, rivestendo un ruolo di comando nella zona delle Langhe. Un posto considerato strategico per la Resistenza».
Perché di questa adesione non resta quasi più traccia?
«Pareyson non ne ha mai parlato pubblicamente e del resto il suo impegno nella resistenza avvenne sotto il nome di Luis. Non era scontato risalire a lui. A un uomo che, nel dopo guerra, fu profondamente deluso dalla crescita travolgente dei due grandi partiti di massa, Dc e Pci, nei quali vedeva la politica asservita all’ideologia. Tutto quello che era movimento di massa gli faceva orrore. Sospetto che la stessa reazione avrebbe avuto oggi di fronte al dilagante populismo. Ci sono forme inedite e al tempo stesso antiche di contagio collettivo».
A questo proposito in un libro di qualche anno fa parlavi della " peste" come metafora in grado di rappresentare ciò che accade oggi.
«Di fronte alle ondate di eventi obbrobriosi che il nostro tempo ci rovescia addosso mi appaiono insufficienti le spiegazioni filosofiche. E allora vedo avanzare minaccioso il carro allegorico della peste con la sua idea di contagio. Contagio dei corpi, ma anche delle menti e dei cuori. Delle anime».
E forse anche della lingua. Lo strumento oggi più esposto al contagio.
«Appestata è la lingua che ci ritroviamo a parlare per inerzia, per imitazione, per conformismo: la lingua che stravolge, offende, mistifica. Temo che chi parla male pensa anche male e chi pensa male è facile che prima o poi il male lo faccia».
Si accennava prima al senso della religiosità. E non è forse improprio in questo momento richiamare la figura di Gesù. Quale centralità ha per te?
«Credo di sapere perfettamente chi sia il Cristo per me. Nessuna figura mi appartiene più profondamente, da nessuna potrei trovare una guida più sicura. Eppure questo sapere resta muto, nel senso che mai e poi mai potrei trovare le parole per esprimerlo. Cristo per me non è quello che nei Vangeli chiede: " E tu chi credi che io sia?" Piuttosto è quello al quale chiedo: "E tu chi credi che io sia?"».
Quale risposta ti attenderesti?
«Non credo che mi risponderebbe. Resterebbe in silenzio, guardandomi come ha guardato quelli che nella dostoevskiana "Leggenda del Grande Inquisitore" lo riconoscono, al suo ritorno in Terra, dal dolce sorriso di pietà infinita».
C’è qualcosa di arrendevole e misterioso in quel sorriso.
«Certamente non c’è niente di ironico su quelle labbra».
Labbra che sugellano il rapporto con un bacio. Su cui si è molto scritto: il bacio del Cristo al Grande Inquisitore sembra quello dell’inerme che si sottomette al potere.
«Ma non è così. Non è questo il senso che Dostoevskij vuole trasmetterci. Oltretutto, il bacio ha un precedente importante: quello di Giuda a Gesù, ma lì era il bacio che tradiva il maestro, qui è il tentativo di ristabilire una verità».
Quale?
«Che ogni potere per quanto forte sia si svuota di significato e di forza davanti a un gesto d’amore. Insomma, quel bacio che Dostoevskij mette in scena finisce con il somigliare al sorriso della Gioconda, talmente enigmatico da incarnare l’universalità del mistero».
Ma se il mistero è per definizione impenetrabile come possiamo attribuirgli valore di verità?
«Davanti al mistero non si dimostra un bel niente, però lo si interpreta sapendo che la verità che vi si manifesta non è mai inchiodata al suo fondamento, a ciò che la giustifica. È una verità che si dà nelle forme più diverse. Tanto nel tragico quanto, mi verrebbe da aggiungere, nel comico».
Non hai l’impressione che il comico abbia di gran lunga sopravanzato il tragico?
«Mi capita di pensare che del nostro paese non resta che ridere. Magari un riso amaro. Montale diceva che tra l’orrore e il ridicolo il passo è un nulla. Aggiungerei che il percorso inverso sia perfino più vero. Andando avanti negli anni mi sono convinto che il tragico sia molto meno disperante del comico. Guardavo qualche sera fa un vecchio film a episodi interpretato da Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman. Entrambi hanno lungamente sofferto di depressione. Fino a sfiorare il nulla e a vivere il vuoto come condizione di smarrimento. In quella sofferenza sospetto ci fosse parte della loro arte. Quella lieve e autentica capacità di trasformare il comico in una forma di verità accettabile. Perché umana, perché dissacrante, perché umile e nobile al tempo stesso».
Il Fatto 23.12.18
Soccorsi in 313 nel mare gelido. Li accoglie Madrid
Open Arms - La Ong catalana interviene su tre gommoni partiti dalla Libia. Salvini chiude i porti, a Malta una 23enne con un neonato
di Ferruccio Sansa
Niente Re Magi. Quest’anno il bambino è arrivato dal mare della Libia: Sam era nato poche ore prima su una spiaggia. Giusto il tempo di proteggerlo con una coperta e imbarcarlo su un gommone per raggiungere l’Europa, poi è stato soccorso dalla nave della Ong spagnola Open Arms. Ma, invece di oro, incenso e mirra, Sam ha trovato a malapena un porto dove essere accolto. Mentre i suoi 311 compagni di viaggio vagano per il Mediterraneo e l’Europa gli sbatte le porte in faccia. Solo la Spagna, dopo lunghe trattative, gli ha concesso un approdo ad Algeciras, in Andalusia. La traversata è più lunga: 800 miglia contro 200 per arrivare in Sicilia.
“I porti italiani sono chiusi! Per i trafficanti di esseri umani e per chi li aiuta. La pacchia è finita”, parole di Matteo Salvini. “Chi aiuta i trafficanti” non sono altro che i volontari della ong catalana Proactiva Open Arms. E la “pacchia” sono 313 persone sopravvissute alla traversata tra Libia e Italia e adesso sono stipate sulla nave della ong. Speravano, a pochi giorni dal Natale, di essere accolti in Europa.
Racconta Riccardo Gatti, capo missione di Open Arms: “Venerdì abbiamo ricevuto un sos da un gommone che si trovava in acque internazionali, a 47 miglia dalle coste libiche. Siamo accorsi e abbiamo portato in salvo 111 persone. Accanto a noi, in contatto radio, c’era una motovedetta libica”. Ma appena imbarcati i naufraghi hanno raccontato di altri due gommoni alla deriva. Le condizioni del mare erano discrete, ma l’acqua in questa stagione è gelata: in pochi minuti sei assiderato. E su quei gommoni c’erano bambini piccoli e tante donne. “Così – prosegue Gatti – ci siamo messi alla ricerca delle altre imbarcazioni. Ne abbiamo trovato un’altra con 106 persone”. A questo punto la motovedetta libica ha fatto perdere le proprie tracce. Finché per fortuna alle nove di sera ecco che nel buio si scorgono delle luci, forse i lampi di torce o di telefonini. È il terzo gommone con altre 85 persone. “A quel punto”, racconta Open Arms, “Abbiamo compiuto tutti i passi previsti. Abbiamo contattato le autorità libiche, ma ci hanno risposto inviandoci l’indirizzo mail della Guardia Costiera italiana. Poi è toccato a Italia, Malta, Francia, Spagna e perfino Grecia. Nessuno ha concesso i propri porti. Soltanto Malta ha mandato un elicottero per prelevare la madre (23 anni) e Sam”. Ormai la sua temperatura era scesa a 34 gradi, rischiava di morire. Gli altri no, restano a bordo. Uomini e donne di mille provenienze: Siria e Palestina, ma anche tanti paesi africani. Niente da fare, non vengono forniti nemmeno cibo e coperte.
Com’è la situazione a bordo? “Stabile – riferisce Gatti –. Ma abbiamo ancora 311 persone con cibo sufficiente per una manciata di giorni. Dalla Spagna sta arrivando la nostra nave Astral per portarci viveri e assistenza”.
Dall’Italia piuttosto arrivano i tweet del ministro Salvini: “La nave Open Arms ha chiesto un porto italiano per farli sbarcare. La mia risposta è chiara: i porti italiani sono chiusi! Per i trafficanti di esseri umani e per chi li aiuta la pacchia è finita”. I dati della ong Proactiva Open Arms non sono esattamente quelli di un’associazione di trafficanti: 3,5 milioni di bilancio l’anno, il 90% provenienti dalle donazioni di 51 mila persone. Il 95% del denaro viene speso per la missione nel Mediterraneo.
Twitta anche il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli: “Sul caso #OpenArms l’Italia non ha coordinato i soccorsi in acque Sar libiche, esattamente come non lo hanno fatto Francia, Spagna o altri. Allora cosa vuole fare la Ue? Serve una risposta dell’intera Europa all’emergenza #migranti”.
Intanto 311 persone restano in mare, appese alle speranze che arrivano dalla Spagna. Oscar Camps, fondatore della ong, punta il dito sul vicepremier leghista: “Matteo Salvini, la tua retorica e il tuo messaggio, come tutto in questa vita finirà. Però sappi che tra qualche decennio i tuoi discendenti si vergogneranno di ciò che fai e che dici. Con 311 persone a bordo, Open Arms non ha porto di attracco e Malta nega anche l’approvvigionamento”.
“Chiudere i porti a Natale è un sacrilegio”, sostiene padre Alex Zanotelli. Nicola Fratoianni (Leu) è amaro: “Questo governo è il campione della guerra alla solidarietà. Stanno trascinando l’Italia e gli italiani nel disonore”.
Eppure gli sbarchi in Italia ormai non sembrano più un’emergenza: in tutto il 2018 (dati del ministero dell’Interno) sono arrivate 23.187 persone, la maggior parte già passate in altri paesi europei. Soprattutto Francia e Germania. A dicembre gli immigrati accolti sono stati appena 176.
In compenso, secondo l’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni associata all’Onu, in dodici mesi nel Mediterraneo sono morte duemila persone.
Il Fatto 23.12.18
Ecco perché il voto di vendetta durerà
di Furio Colombo
Mi è capitato di trovarmi in Paesi in cui stava per avvenire un colpo di Stato.
Grecia, 1967, Perù 1990. Vedi soldati di certi reparti speciali (divise e dotazioni diverse) presidiare certi punti ritenuti cruciali, vedi masse di soldati in silenzio e in ordine in strade laterali. Vedi i carri armati, a volte in lunghe file, come per occupare un Paese straniero. Questo ti colpisce se ti accade di vedere il Paese in cui sta per compiersi un colpo di Stato: quel Paese è diventato nemico di se stesso. O, se volete, quel Paese ha generato un comportamento così intollerabile che bisogna rimuoverlo con le armi, come un invasore.
Da quel momento (se il colpo ha successo) nasce l’ossessione per la sicurezza. Per esempio in Italia i porti sono chiusi, e le famiglie si dotano di spray urticante. Ogni persona, parola, comportamento e oggetto, d’ora in poi sarà controllato e soggetto a limitazione o eliminazione. Questa alterazione del comportamento politico, umano e sociale non va via da sola. Tanto più quando uno dei suoi sintomi è di mettere a tacere il Parlamento decidendo e annunciando altrove ogni evento che conta. Deve accadere qualcosa di drammatico, con qualcuno che si sacrifica (anche se poi si darà tutto il merito al popolo e alla sua voglia di libertà) per rovesciare il governo del colpo. In Venezuela, per esempio, non è ancora riuscito, e neppure in Ungheria, nonostante mobilitazioni accanite e atti di ribellione che indicano disperazione.
Avete notato che gli ultimi due Paesi citati (Venezuela e Ungheria) ci raccontano una storia diversa dai carri armati, una storia che ci riguarda. Tutti e due questi governi, e partiti e apparati e burocrazie e giornalisti al seguito, occupano e dominano il loro Paese come se lo avessero espugnato, in base al voto popolare.
Possono dunque entrare in azione sbandieratori in grado di gridare a ogni oppositore, per quanto legittimo che, se vuole parlare, deve prima farsi eleggere. Lo dicono sapendo che, da un lato, la macchina elettorale è già nelle mani di un tipo di consenso bloccato (ora tenterò di dire perché). E, dall’altra, sono appena entrati in funzione i meccanismi, studiati con cura (Cinque Stelle) o improvvisati con impetuosa bravura (Lega) che puntano a obiettivi essenziali: spaccatura del Paese ed esclusione di qualunque opposizione.
Perché ho detto che “il consenso è bloccato”? La ragione è negli ingredienti che sono stati usati per ottenere un consenso largo che tende ad allargarsi. Uno degli ingredienti è la dichiarazione di infamia per tutti (tutti) coloro che a qualsiasi titolo esistevano e agivano “prima” (da Previti a Gino Strada, da Dell’Utri a Saviano).
Questo espediente, oltre a salvare il peggio facendolo uguale al meglio, crea un vasto spazio libero per i nuovi venuti. Infatti elimina le domande sulla preparazione, grado di cultura e competenza. Essere nuovi è l’unico criterio anche a costo del ridicolo provocato dalle inesperte prestazioni.
Il secondo ingrediente è la libertà di disprezzo e dunque di vendetta per tutto quello che “gli altri” hanno fatto prima. Liste anche grandi di legittima protesta e denuncia politica si saldano con immense liste private di ingiustizie patite a qualsiasi titolo e per qualsiasi ragione, incluse le mancate assunzioni, i pagamenti ingiusti, i fallimenti scolastici, le cure mediche mal riuscite, il tutto immerso in un mare di disonestà globale, che è l’intero pianeta del “prima”.
Ecco perché il voto di vendetta durerà a lungo. Il cuore del dramma però non sta nel disputare quanto sia fondata la rabbia. Il dramma dipende dall’uso apocalittico e totale che è diventato il gioco di governo, tra piazze e balconi, con il ministro dell’Interno che si esibisce con le stellette militari sulla maglietta o con la giacca della polizia, due trovate che inducono a credere che la politica sia la polizia e che la polizia sia la politica.
Come sappiamo questo governo, senza carri armati, ma ricco di trovate estranee alla Costituzione e alla legge, è formato da due partiti disuguali e diversi. E se uno ama comparire in divisa, l’altro preferisce annunciare le sue vittorie (che non sono dell’Italia ma del partito) dal balcone del palazzo di governo, che a Roma ha una sua storia.
Diciamo che si tratta di una grande imitazione del potere assoluto, che sta al fascismo come il circo al teatro.
Ma è evidente che non finirà tanto presto.
Il Fatto 23.12.18
“Pd e M5S esploderanno: poi si rifà la sinistra”
Roberto Speranza - “I renziani usciranno e si vedrà una forza socialista. Ma pure tra i grillini c’è la nostra gente”
intervista di Tommaso Rodano
Roberto Speranza, ecco che si riparla di congressi e liste unitarie. Cosa si muove a sinistra?
Evitiamo di partire dai vertici, dai leader o dalle sigle: bisogna ricostruire tutto. Abbiamo smesso di difendere la nostra gente, di ascoltarne il bisogno di protezione. Abbiamo smesso di criticare il mercato. Bisogna ricostruire un pensiero. Altrimenti si va dietro alle battute di questo o quel leader: è folklore puro.
Soprattutto alle battute di D’Alema. Col massimo rispetto, possibile che a rifare la sinistra siano Bersani, D’Alema o Cuperlo?
Anche chi ha avuto ruoli di vertice in quest’ultimo e penultimo ciclo della sinistra è consapevole che ora tocca a un’altra generazione. Ma senza un pensiero innovativo, radicale, non si fa strada.
Speranza rottama?
Non è una questione di figurine. La stupidità della rottamazione è nell’idea di cacciare le persone conservando il peggio del pensiero politico.
Parla di pensiero nuovo ma cita il socialismo.
Io penso che sia la parola del futuro, non del passato. Socialismo significa lotta contro le diseguaglianze, lavoro, un nuovo ruolo dello Stato. Meglio ancora eco-socialismo: economia circolare e sostenibilità ambientale.
Avete lanciato “Ricostruzione”, una nuova cosa “rossoverde”.
Si è parlato tanto del convegno di Italianieuropei con D’Alema, Bersani, Cuperlo e gli altri, a cui ho partecipato anche io. E poco della nostra assemblea che è stata bellissima, con tanti volti nuovi e molte energie in movimento.
In movimento verso il Pd post renziano?
Premessa: il nemico è la destra. Non è il Pd, né i 5Stelle.
Però?
Penso che il Pd sia superato. È figlio di una stagione che non c’è più: quella del bipolarismo. E quella in cui la sinistra era subalterna al capitalismo. Il Pd ha esaurito la sua funzione storica.
E quindi che succede?
Nel Pd convivono due anime. Ce n’è una liberaldemocratica alla Macron, o alla Ciudadanos. Penso sia legittimo che faccia il suo percorso.
Sta dicendo che Renzi se ne deve andare…
Sto dicendo che penso sia naturale che le due anime del Pd dividano le proprie strade. Io sono socialista e voglio lavorare a una forza larga della sinistra con tutti quelli che condividono questo pensiero. Per costruire un’alternativa bisogna scomporre i blocchi politici che ci sono oggi.
L’altro blocco è il M5S.
Nel Movimento ci sono spinte molto diverse tra loro. Penso che la faglia sinistra/destra sia destinata a venire fuori. Dobbiamo sfidarli e far emergere questa dinamica. È stato un errore clamoroso, gravissimo aver favorito la saldatura tra Lega e M5S: il Pd li ha messi al servizio di Salvini.
Il dibattito del congresso Pd pare tutto qui: M5S sì o no.
Da Martina e Zingaretti mi aspetterei un po’ di coraggio. Se la linea sui Cinque Stelle è la stessa di Renzi, tanto valeva rimanesse lui. È chiaro che il M5S è sempre più compromesso dal rapporto con la Lega: parlavano di onestà e fanno i condoni, votano contro l’articolo 18, cambiano idea pure sugli F-35. Ma là c’è tanta della nostra gente.
Ora riconosce che è stato un errore andare via dal Pd?
In quel partito non c’erano più le condizioni per difendere le proprie idee.
Oggi lo rifarebbe?
Mi sono dimesso da capogruppo, ho rinunciato a poltrone. Rivendico tutto.
LeU è stata un disastro.
È stata un cartello elettorale. Non si può più immaginare che i leader e le liste siano scelti con patti tra apparati invece che per legittimazione popolare. Non deve più succedere. C’è tanta sinistra fuori dal Parlamento.
Appunto, fuori. Questa gente i partiti non li può più vedere. Come la recuperate?
Con umiltà. Con un vero percorso democratico dal basso: apriamo le porte e nessuno si mette a capotavola.
Torniamo al via: sui giornali ci va D’Alema.
Sono anche i media che vanno sempre sulle stesse figure.
Loro non si sottraggono.
Forse, non lo so. Ma ripeto: serve un pensiero nuovo, oltre a nuovi protagonisti. Altrimenti è inutile.
il manifesto 23.12.18
La sfida illiberale all’ordinamento
Governo sovranista. C’è un problema democratico in Italia, con un parlamento afono costretto ad approvare la legge più importante in materia economico-sociale senza avere neppure il testo scritto dei provvedimenti varati. Dalle punte più sensibili della cultura liberale si è dipanata la più seria dichiarazione critica sulle condizioni della repubblica e sul degrado della dignità della rappresentanza. C’è invece un vuoto e un silenzio nel sindacato e nella sinistra
di Michele Prospero
Al popolo la chiusura dei porti, al potere lo scalpo del parlamento: questo è il contratto proposto in queste ore dal cosiddetto governo del cambiamento. C’è una subalternità politica, sociale e culturale che impedisce però la comparsa di una vera opposizione allo scempio democratico.
In tanti si attardano nell’esercizio di appurare quale dei due partner dell’esecutivo sia meno pericoloso. Quanto sta accadendo nel simulacro del parlamento scioglie ogni dubbio interpretativo.
Le due forze al potere convivono agevolmente con le loro apparenti differenze perché entrambe le sigle incarnano una lettura illiberale della democrazia. Essa prevede forzature a principi essenziali, così preziosi che meriterebbero in loro difesa una risposta di massa, paragonabile a quella che in altri tempi il Partito comunista italiano ha saputo organizzare dinanzi alle aggressioni ai cardini dell’ordinamento costituzionale.
C’è un problema democratico in Italia, con un parlamento afono costretto ad approvare la legge più importante in materia economico-sociale senza avere neppure il testo scritto dei provvedimenti varati. Al senato le parole più limpide, sul ruolo ormai solo decorativo lasciato alle Camere, sono venute da Emma Bonino. Dalle punte più sensibili della cultura liberale si è dipanata la più seria dichiarazione critica sulle condizioni della repubblica e sul degrado della dignità della rappresentanza. E dalle corde più avanzate del cattolicesimo sociale promana la denuncia del continuo strappo costituzionale, in merito ai diritti fondamentali della persona, operato dal governo in nome della sicurezza e del sovranismo.
Liberali e cattolici fanno sentire la loro presenza. C’è invece un vuoto e un silenzio nel sindacato e nella sinistra, dove il sentimento dell’impotenza pratica dopo la sconfitta diventa anche smarrimento del pensiero e quindi annuncio di una perdita di funzione storica. Eppure la situazione è trasparente nella sua gravità.
Già a Piazza del Popolo, con i gesti, con l’atteggiamento, con i toni, con le metafore Salvini ha lanciato una sfida totale all’ordinamento. Con il rito che recuperava grotteschi scenari da anni Trenta, ha chiesto alla piazza l’autorizzazione a trattare con le perfide burocrazie di Bruxelles, in nome di 60 milioni di italiani.
Scambiare la propria folla obbediente, per l’intero corpo della nazione omogenea e univoca, che concede una procura senza limiti al «capitano» quale unica incarnazione della volontà generale, è una provocazione esplicita, lanciata verso la civiltà liberale, che non ha trovato efficace risposta.
Il leader del partito che ha più volte sfidato l’azione penale delle toghe per i titoli di reato previsti contro chi minaccia l’integrità territoriale della repubblica, ha osato anche avvicinarsi alla folla con addosso le uniformi della polizia di Stato. Il leader del partito dalla ancora fresca memoria secessionista (che permane nella rivendicazione di una autonomia differenziata delle regioni ricche del nord), e dalle velleità di edificare parlamenti padani, ha scambiato la polizia democratica per un surrogato della milizia verde.
Il capo di un partito dalla finanza allegra, che deve restituire alle casse del fisco 49 milioni, ha indossato nei suoi spostamenti anche i panni delle fiamme gialle. Il «capitano» cerca l’acclamazione della folla passiva, si propone al pubblico come la volontà unica di un popolo intero che gli ha conferito un potere sostitutivo, si fa scudo con la divisa della polizia e la getta come segno di una aspettativa di conformistica fedeltà alla volontà di potenza personale di un interprete dell’umore della gente. La manovra del popolo, scritta dal governo della felicità, è in realtà uno schiaffo contro il popolo reale, alle sue istituzioni di rappresentanza, ai valori del costituzionalismo.
All’ombra del premier esecutore, l’esperienza di governo tra Lega e M5S non si configura affatto come un incidente occasionale. Nel bicolore esiste una convergenza profonda di culture politiche, di linguaggi, di stili, di mentalità, di referenti. Tra il «capo politico» di Maio, che esprime il lato dannunziano-fiumano del non-partito di piazza e di balcone, e il «capitano» Salvini, che nella mistica dell’ordine sovranista si esibisce con la divisa della polizia di Stato, se «ne frega» dell’Europa, e appende sul petto come «medaglie» al valore le inchieste della magistratura, le sfumature non sono tali da rigettare la condivisione strategica di un percorso dal volto illiberale.
Non sorprende che ben presto il clima patriottico della nazione (sotto)proletaria in guerra contro i perfidi rappresentanti della straniera potenza teutonica, si sia trasformato nella resa più completa agli imperativi dei «tecnocrati di Bruxelles».
Alla ritirata senza gloria, fa seguito una accelerazione che suggerisce l’oltraggio alle istituzioni della repubblica parlamentare. Cos’altro occorre ancora vedere per non riconoscere nel populismo di sistema la caricatura e il cattivo odore delle più ridicole storie di ieri?
il manifesto 23.12.18
Tagli all’editoria, un emendamento pieno di bugie
Fact checking. Tra dicerie, propaganda e mezze verità facciamo una verifica dei fatti a proposito dell'abrogazione delle norme a sostegno dell’editoria che il governo vuole introdurre nel maxiemendamento alla manovra di bilancio
di Matteo Bartocci
ROMA Abbiamo sottoposto alcune affermazioni di dirigenti giallobruni sull’editoria alla verifica dei fatti.
Vediamo.
1) TUTTI I GIORNALI PRENDONO SOLDI PUBBLICI
FALSO. Dopo anni di propaganda, pochi giorni fa è stato lo stesso sottosegretario Vito Crimi ad ammettere che su 18mila testate registrate in Italia, solo 150 prendono contributi pubblici (Crimi al Gr1 Rai del 16 dicembre). Come spieghiamo qui, solo editori con determinate caratteristiche accedono al fondo per il pluralismo.
I cosiddetti «giornaloni» (Repubblica, Corsera, Fatto, etc.) sono quotati in borsa e hanno normali azionisti che li finanziano. Usufruiscono (ma solo fino al 2019 se passa la manovra) di una trentina di milioni in agevolazioni e sconti per spese definite da diverse leggi.
2) L’EDITORIA È IL SETTORE CHE RICEVE PIÙ FONDI PUBBLICI
FALSO. Più volte all’inizio del suo mandato, il sottosegretario Crimi ha definito l’editoria come «il settore più assistito da parte dello stato».
Fondi pubblici all’editoria – Fonte Dipartimento Editoria Palazzo Chigi
Il sottosegretario calcolava una spesa pubblica di 3,5 miliardi di euro in 15 anni. Al di là della veridicità tutta da verificare di tale somma, basti un dato a smentire la sua affermazione: i sussidi pubblici alle fonti energetiche fossili dannose per l’ambiente (gas, carbone, petrolio, ecoballe, etc.) sono pari a 11,5 miliardi all’anno.
Il dato è ufficiale, fornito dal Ministero per l’Ambiente. Nel programma 5 Stelle c’era l’abrogazione di questi sussidi, ma nell’azione di governo e nella manovra non ce n’è traccia.
3) IN ITALIA NON ESISTONO EDITORI PURI
PARZIALMENTE VERO. Secondo un post apparso il 13 novembre sul blog delle stelle, «la stragrande maggioranza dei principali giornali italiani a tiratura nazionale è posseduto da editori in pieno conflitto di interessi». L’affermazione è inesatta.
Secondo un fact checking dell’Agi, tra le più importanti testate italiane alcune sono pubblicate da editori sostanzialmente «puri», cioè che non hanno interessi rilevanti fuori dall’editoria (testate Rcs e testate Riffeser), altre da editori «impuri» (gruppo Gedi e gruppo Caltagirone).
Guardando all’estero, invece, in Francia purtroppo gli editori «puri» non esistono proprio, mentre in Germania sono la norma. Mista invece la situazione in Gran Bretagna e Stati uniti.
Per paradosso, infine, i tagli all’editoria danneggeranno sicuramente molti editori «puri», cioè le testate pubblicate dalle cooperative di giornalisti, che per definizione non fanno altro che il proprio giornale, rivista o radio.
4) I GIORNALI CHE PRENDONO CONTRIBUTI PUBBLICI DIPENDONO DAL GOVERNO
FALSO. Proprio la varietà di testate che attingono al fondo per il pluralismo dimostra che non esistono giornali di per sé governativi: Avvenire è diverso da Libero, che è diverso dal manifesto o dal Primorski.
La riforma Lotti aveva affidato al governo un puro ruolo amministrativo, sottraendo alla politica il potere di decidere volta per volta gli stanziamenti.
Al contrario, è proprio l’intervento di questo governo nella manovra che stravolge d’imperio, cancellandola, la libertà di informazione.
Per quanto riguarda il manifesto, nel Palazzo non abbiamo e non abbiamo mai avuto «governi amici».
5) IL TAGLIO AI GIORNALI È NEL CONTRATTO DI GOVERNO
FALSO. Proprio la Lega aveva escluso tale possibilità. Ribadendola poi in decine di interviste e interventi pubblici. Dimostrando la sua contrarietà, peraltro, nel primo passaggio alla camera della manovra, dove sia il relatore che il rappresentante del governo (entrambi leghisti) avevano espresso parere contrario all’emendamento 5 Stelle, provocandone il ritiro.
Ora, nel passaggio al senato, sarebbe solo un voltafaccia della Lega a dare il via libera al taglio.
Lo striscione del manifesto alla protesta contro i tagli all'editoria di fronte alla Camera indetta da Odg e Fnsi
Lo striscione del manifesto alla protesta contro i tagli all’editoria di fronte alla Camera indetta da Odg e Fnsi
6) L’EMENDAMENTO PATUANELLI ABOLISCE IL SOSTEGNO PUBBLICO ALL’EDITORIA
FALSO. Lasciando da parte la questione del canone Rai, l’emendamento 5 Stelle non abolisce affatto il fondo per il pluralismo, che rimane intatto intorno ai 180 milioni. Taglia i fondi fino a vietarne l’accesso, invece, solo a una ventina di testate più grandi sulle 52 ammesse al contributo. È perciò un emendamento «ad testatam» che colpisce voci diverse ma tutte critiche o scomode per la maggioranza.
Anzi, con l’ultimo comma del testo, si crea a Palazzo Chigi una specie di «fondo Crimi» a totale disposizione della presidenza del consiglio, al di fuori della legge e del controllo del parlamento, da destinare a vaghi progetti di «soggetti pubblici e privati» non meglio identificati per promuovere la «cultura della libera informazione plurale, della comunicazione partecipata e dal basso, dell’innovazione digitale e sociale, dell’uso dei media».
La discrezionalità del governo nell’utilizzo dei fondi pubblici (che infatti restano) sarebbe massima.
7) CON L’EMENDAMENTO PATUANELLI LO STATO RISPARMIA
FALSO. Non un euro viene tolto al fondo per il pluralismo. Viene invece vietato l’accesso a determinate testate (vedi sopra).
8) SENZA ORDINE DEI GIORNALISTI I PRECARI STANNO MEGLIO
FALSO. L’ordine dei giornalisti è un ente di diritto pubblico regolato dalla legge. Abolirlo lascerebbe il campo ad associazioni di diritto privato auto-organizzate. Nulla impedisce che nascano più o meno «forzatamente» associazioni di giornalisti vicini a un editore piuttosto che a un altro. Tipo: se vuoi scrivere qui ti fai rappresentare dall’associazione X. Con tutto quel che ne consegue.
L’ordine dei giornalisti, accogliendo un invito dello stesso Crimi, ha presentato al governo una proposta di autoriforma che attende risposta.
9) GLI EDITORI DI GIORNALI SONO INCAPACI DI INNOVAZIONE
Il video di Gianluigi Paragone contro i fondi all’editoria
FALSO. Non c’è settore industriale cambiato più della carta stampata. I fogli che avete in mano possono sembrarvi identici a quelli di 30 anni fa. Ma il modo di produrli non ha nulla a che vedere con quello dei nostri nonni.
Un grande giornale non è un pezzo di carta inchiostrata, è una struttura professionale e industriale in grado di far scrivere un essere umano su qualsiasi argomento in qualsiasi parte del mondo in qualsiasi momento dell’anno su diversi supporti.
Una struttura «pesante», simile a quella della protezione civile, sempre pronta in caso di emergenza.
10) LA CARTA È MORTA, IL FUTURO È DIGITALE
FALSO. Gli editori della carta stampata sono stati travolti dalla «rivoluzione digitale» ma l’85% dei ricavi viene ancora dalle copie cartacee. Ogni giorno si vendono 2,8 milioni di copie di giornali, che hanno 16,2 milioni di lettori.
La rivoluzione digitale, non appena la banda sarà disponibile, travolgerà anche le televisioni. Pubblicare un articolo su web non ha ostacoli tecnici, presto questo ostacolo cadrà anche per i filmati. I primi segnali di questo nuovo trend (vedi Netflix) sono già visibili.
Fonte: Corriere della Sera
Inoltre, a parte i «Gafa» (acronimo per Google, Apple, Facebook e Amazon) e gli «Ott» (i cosiddetti: “Over the top”) l’editoria digitale è priva di innovazione.
Il 98% dei giornali on line italiani dipende solo dalla pubblicità e fattura meno di 21mila euro all’anno (dati Agcom).
11) BASTA IL LIBERO MERCATO AD ASSICURARE IL PLURALISMO
FALSO. Non c’è settore culturale che non sia sostenuto – nelle forme più varie – da parte dello stato: libri, cinema, teatri, opere liriche, musei, mostre, monumenti. Nessuno di questi vivrebbe solo vendendo biglietti.
L’informazione rientra tra i diritti costituzionali dei cittadini che lo stato deve garantire.
Al contrario, il settore dell’editoria è in preda a fenomeni di concentrazione in ogni parte della filiera: 2 gruppi (Rcs e Gedi) diffondono da soli quasi la metà delle copie. In molte zone del paese i distributori locali si riducono a uno per regione, i grandi distributori nazionali sono appena 2-3.
Il mercato, da solo, favorisce gli oligopoli. Nel caso dell’informazione, questo è tipico di regimi autoritari, e non di democrazie.
12) I CONTRIBUTI PUBBLICI ESISTONO SOLO IN ITALIA
Jessica Lange per il manifesto – foto Luca Celada
FALSO. A parte il canone per la tv pubblica (vedi Rai o Bbc solo per fare due esempi), forme di sostegno diretto o indiretto all’informazione esistono nella gran parte dei paesi europei, dalla Francia al Lussemburgo.
Il Canada nella sua manovra 2019 ha stanziato oltre 600 milioni di dollari e un dibattito sulla necessità della protezione pubblica di testate soprattutto locali è aperto anche negli Stati uniti, vista l’ecatombe di giornali statali o di contea.
Ci sono zone dell’Occidente dove, semplicemente, l’informazione e il controllo democratico e trasparente del potere non esiste più.
L’Italia non può finire tra queste.
La Stampa 23.12.18
Fausto Bertinotti
“Costituzione divorata
Più che il dibattito oggi conta la velocità”
intervista di Francesco Grignetti
Fausto Bertinotti, che pensa di questa legge di Bilancio presentata in extremis?
«A mia memoria è un fatto senza precedenti. Direi che è l’atto conclusivo, finale, nel rapporto tra Esecutivo e Legislativo. Molto semplicemente, è il sequestro del Parlamento da parte del governo. Non esito a dire che con questo atto, il Parlamento è ridotto a cassa di risonanza del governo, la dialettica parlamentare viene sospesa, e di fatto il governo assume poteri eccezionali. Senza dichiararlo, ma di fatto, le regole ordinarie sono state sospese».
A sinistra si parla di “democrazia umiliata”. Concorda?
«Certo è che un rapporto malato tra governo nazionale e governo europeo ha determinato condizioni d’emergenza. A questo punto non si può più decidere, se non stracciando le regole ordinarie. Tuttavia, mi lasci dire che questo è l’atto finale di un processo che parte da lontano».
In che senso, presidente?
«Lentamente, ma inesorabilmente, la Costituzione materiale ha divorato la Costituzione. Tutto è stato indirizzato a demolire il punto cardine della centralità del Parlamento».
Già, la Costituzione del 1948. La Costituzione più bella del mondo. La piange anche lei?
«Come dicevo, il suo punto cardine era la centralità del Parlamento. Guardi, conosco l’obiezione: si fece così perché tutti i partiti avevano paura; non si sapeva chi sarebbe stato il vincitore e perciò il Parlamento garantiva tutti. Così il Parlamento ha avuto un ruolo di garanzia per tutti. Il principio di fondo era che il conflitto interno alla società trovasse uno spazio di influenza. Interroghiamoci: come mai le grandi riforme, penso allo Statuto dei Lavoratori, o la riforma del Servizio sanitario nazionale, vennero con quei Parlamenti dove si discuteva tanto? I costituenti non erano dei mattacchioni».
Come siamo arrivati all’oggi?
«Con una serie di strappi. Dapprima, in quella fase che genericamente possiamo chiamare Seconda Repubblica, prese forza l’aspirazione alla governabilità, al decisionismo, al presidenzialismo. Cruciale divenne la velocità della decisione, non l’ampiezza del dibattito. E i regolamenti parlamentari divennero sempre più iugulatori. Non per caso, fu anche il tempo della vocazione maggioritaria. In sé, il sistema maggioritario considera un impaccio la discussione parlamentare».
E infatti la concede il minimo indispensabile.
«Esatto. Nasce allora il disastro. Nella società, come anche negli ambienti intellettuali, e nei governi, si consolida l’idea che il Parlamento sia lento, farraginoso, sostanzialmente inutile. E badi che questo discorso prescinde dai colori politici. Tutti hanno abusato della decretazione d’urgenza».
Infine venne la Terza Repubblica.
«Non mi meraviglia che chi pone in discussione la democrazia parlamentare a favore della democrazia diretta, arrivi all’atto finale. Il voto di fiducia posto su un maxi emendamento, senza permettere di fatto l’esame del provvedimento, è l’iperbole dell’esercizio del potere del governo».
Lei diceva: aspirazione al presidenzialismo. Si è parlato per decenni di via francese; ora quasi ci siamo. Proprio quando il Presidente Macron, che in Francia ha pieni poteri, si trova a fronteggiare la protesta di piazza dei gilet gialli.
«Premetto che a differenza di tanti, anche a sinistra, io considero i gilet gialli una risorsa e non una iattura, ma qui potrebbe parlare la mia propensione movimentista. La protesta dei francesi ci dice proprio questo: mancando la possibilità di influenzare le scelte di chi governa attraverso il dibattito parlamentare, in Francia può capitare che un Presidente prenda decisioni impopolari, addirittura “sbagliate” come le ha definite, e la piazza è la reazione al dominio del governo».
Corriere 23.12.18
Fecondazione eterologa
Fino a 600 euro per le donatrici
di Margherita De Bac
Mancano donazioni di ovociti per la fecondazione eterologa. L’Italia potrebbe imitare la Spagna proponendo fino a 600 euro per donatrici e donatori. Ogni anno 10 mila coppie cercano soluzioni all’estero.
roma L’Italia come la Spagna per favorire la donazione di ovociti? È un’ipotesi ancora abbozzata eppure l’insistenza dei tecnici che si occupano di procreazione medicalmente assistita (Pma) nel rilanciarla anche nei resoconti di riunioni ufficiali rende meno fittizia la prospettiva.
L’ultima uscita è in una sintesi di un incontro avuto al ministero della Salute il 18 dicembre dal gruppo di lavoro incaricato dalla Conferenza Stato Regioni (l’organo di raccordo tra le due istituzioni) di seguire l’applicazione in Italia della legge sulla fecondazione artificiale. Tra le criticità collegate alla Pma eterologa, diventata legale nel 2014, si fa esplicito riferimento all’assenza di modalità di rimborso ai donatori. Da noi non si può.
La proposta è di «realizzare anche in Italia una rete di donazione così come avviene in altri Paesi europei». Secondo il coordinatore del gruppo di lavoro Carlo Foresta, andrologo dell’università di Padova, se non si trova una soluzione «le coppie italiane saranno sempre svantaggiate» perché dovranno importare dall’estero gameti, soprattutto ovociti, la cui qualità «non è sempre garantita e rischia di essere compromessa dal trasporto».
I principali Paesi fornitori di cellule riproduttive femminili sono Spagna e Repubblica Ceca seguite dalla Grecia, distaccata: circa 25 mila invii suddivisi in più contenitori nel 2016. Spagna, Danimarca e Svizzera inviano liquido seminale. I gameti che arrivano in Lombardia sono quasi esclusivamente elvetici. Nel 2017 ci si aspetta un netto aumento in quanto gli ostacoli per attuare un sistema di approvvigionamento interno, nazionale, non sono stati rimossi. Foresta ritiene che una cifra congrua ed eticamente accettabile per ripagare le donne volontarie di casa nostra potrebbero essere 600 euro. I Paesi fornitori hanno uno «straordinario numero di donatrici» grazie alla possibilità di rimborsarle con cifre che si aggirano attorno ai 1.000 euro a prelievo. Non basta. Un numero incalcolabile di spermatozoi di uomini italiani vengono spediti all’estero per fecondare ovociti donati da donne straniere alle italiane. Una volta fecondati gli embrioni vengono rispediti in Italia. Il traffico di crio-contenitori in arrivo e in partenza è sempre più fitto. E poi c’è una terza soluzione. Le coppie che vanno direttamente in cliniche estere sarebbero 10 mila all’anno.
In pratica l’apertura all’eterologa avvenuta nel 2014 in seguito a una sentenza della Corte Costituzionale non ha eliminato le diseguaglianze, obiettivo auspicato dai giudici. Nei centri pubblici l’eterologa seppure ammessa continua ad essere proibitiva in quanto la materia prima (principalmente ovociti) deve venire da fuori ad eccezione di una minima parte derivante dal cosiddetto egg sharing: giovani pazienti in trattamento per infertilità accettano di donare gratuitamente alcuni ovociti a chi non ne ha. Ermanno Greco, responsabile di uno dei centri italiani dalle migliori performance, all’European Hospital di Roma, fa una considerazione etica: «In Italia si parla tanto della giusta attenzione per gli embrioni eppure si lascia spazio a questo scambio. Noi importiamo ovociti da due banche di Siviglia ma per un fatto morale non importiamo embrioni formati altrove e spediti come pacchi. Sono perfettamente d’accordo con la proposta di aprire ai rimborsi».
Corriere 23.12.18
Domande e risposte
Cosa prevede la legge italiana e come funziona negli altri Paesi
di M.D.B.
1 Cosa prevede la legge italiana sulla donazione di gameti da utilizzare nelle tecniche eterologhe di procreazione medicalmente assistita quando uno dei partner è infertile?
La donazione di gameti maschili e femminili (liquido seminale e ovociti) è regolata da una circolare del ministero della Salute che ha stabilito le modalità di applicazione della sentenza della Corte Costituzionale del 2014 con la quale l’eterologa è diventata legale dopo essere stata vietata dalla legge del 2004. La donazione è gratuita e non viene consentita nessuna forma di rimborso neppure in caso di donazione di ovociti che richiede un impegno da parte della donna in termini di ore e di terapie preparatorie.
2 Che cos’è l’egg sharing?
È una forma di donazione gratuita. Una donna giovane in trattamento per infertilità può scegliere di donare alcuni degli ovociti prodotti in eccesso a un’altra paziente che non ne possiede. In Italia c’è enorme difficoltà a reperire gameti rispetto all’offerta estera. Ogni anno vengono eseguiti da noi circa 6-7 mila cicli di eterologa.
3 Come funziona nel resto d’Europa?
In Portogallo è ammesso il rimborso forfettario alle donatrici di 627 euro, in Gran Bretagna 750 euro, in Spagna 900 euro, in Francia il rimborso è determinato dalla documentazione presentata dalla donatrice, in media 600 euro. Il New England medical Journal ha quantificato in 56 ore il tempo in base al quale calcolare il rimborso della prestazione in maniera oggettiva prendendo in considerazione alcuni parametri. I gameti maschili, più facili da raccogliere, provengono principalmente da Spagna, Danimarca e Svizzera. In questo caso il rimborso è simbolico e non viene riportato. Le regioni italiane importano gli ovociti prevalentemente dalla Spagna tranne la Calabria che si rifornisce nella Repubblica Ceca e il Piemonte che si divide tra Spagna e Grecia.
il manifesto 23.12.18
I quarant’anni che sconvolsero il capitalismo
Cina. Nel dicembre 1978 Deng Xiaoping lanciava l’epoca delle riforme e aperture trasformando il paese nella seconda potenza mondiale. Negli anni ’80 furono dismesse le aziende di stato, fulcro dell’industrializzazione nel periodo maoista
di Simone Pieranni
Nel dicembre 1978 Deng Xiaoping avviava le aperture e le riforme della Cina, battezzando l’inizio di un periodo di trasformazioni storiche colossali del paese, qualcosa che siamo sempre stati abituati a misurare – per altri territori – nell’arco di secoli. Dobbiamo ricordare, innanzitutto, cos’era la Cina nel 1978: un paese per lo più rurale e povero, uscito dilaniato dagli eccessi della rivoluzione culturale. Allo stesso modo, però, bisogna pure sottolineare le «basi» che il periodo maoista aveva posto per una trasformazione così clamorosa del paese.
IN OCCIDENTE SI TENDE spesso a far rientrare la Cina nella modernità proprio grazie alle riforme denghiane, come se prima il paese fosse ancora sprofondato nel medio evo. Insomma, si associa la modernità al capitalismo. Su questo non pochi autori hanno tenuto a precisare alcuni aspetti. Uno di loro è sicuramente Giovanni Arrighi. In Capitalismo e (dis)ordine mondiale (a cura di Giorgio Cesarale e Mario Pianta, Manifestolibri, 2010), Arrighi scriveva che le riforme denghiane si sarebbero realizzate proprio grazie a due fattori: la «rivoluzione industriosa» dell’Ottocento, termine preso in prestito da Kaoru Sugihara, e la rivoluzione socialista.
La «rivoluzione industriosa» consentì alle istituzioni di assorbire il lavoro delle unità familiari, un tratto ancora molto comune in Cina (e nei cinesi all’estero), all’interno di attività che contrariamente alla rivoluzione industriale europea, premiavano la molteplicità dei ruoli, anziché la specializzazione: le capacità manageriali, con un generale background di abilità tecnica, erano attivamente sviluppate a livello familiare.
Fonte: World Bank, UN, Global Carbon Project, World Inequality Database. Elaborazione dati Afp
Il secondo punto è la rivoluzione socialista che, secondo Arrighi, ha permesso a questa eredità di non perdersi, ma anzi di essere rivitalizzata e inserita nella narrazione rivoluzionaria: «se il maggiore incremento nel reddito pro-capite della Cina è avvenuto a partire dal 1980, il grosso del miglioramento dell’aspettativa di vita degli adulti e, in misura minore, della loro alfabetizzazione, vale a dire delle condizioni essenziali di benessere, è avvenuto prima del 1980».
E proprio le caratteristiche intrinseche della Cina, premaoista, maoista e poi quella delle riforme, comportano, secondo Arrighi, la possibilità che la nuova eventuale egemonia cinese possa essere esercitata con modalità e caratteristiche diverse da quelle passate. In questo caso siamo di fronte al dilemma dei dilemmi. Deng coniò l’espressione «socialismo di mercato con caratteristiche cinesi» per definire il modello che stava prendendo vita. Un modello sul quale ancora oggi la letteratura si divide.
Secondo Arrighi, ad esempio, una eventuale egemonia cinese si distinguerà dal passato per tre fattori principali: in primo luogo riporterebbe a un equilibrio mondiale il rapporto di potere tra gli Stati; si tratterebbe, poi, di uno sviluppo pacifico e non militare; in terzo luogo potrebbe aprire – sosteneva Arrighi – a nuovi modelli economici non necessariamente «capitalistici».
RIMANE PERÒ UN DATO, all’interno del dibattito su cosa sia oggi la Cina, dopo 40 anni di aperture: le riforme, oltre ad aumentare considerevolmente le condizioni di vita medie dei cinesi e a consentire l’iniziativa privata hanno creato nuove e potenti diseguaglianze nonché problematiche legate all’ambiente. Le riforme, infatti, si basarono sullo sfruttamento dei lavoratori, bassi salari e alta intensità di lavoro, e furono un’operazione neoliberista, nel momento in cui finirono per espellere dalle aziende di stato milioni di lavoratori.
Lu Tu è una sociologa cinese; negli anni scorsi si è finta operaia e ha raccolto le sue esperienze in un libro, Zhongguo xingongren, mishi yu juechi, (I nuovi operai cinesi, un boom senza identità, Pechino 2013). Lu Tu ha potuto osservare in presa diretta che il processo di accumulazione capitalistico iniziato negli anni ’90, con il colpo di grazia post 1989 – una vera e propria shock terapy nonché «patto sociale» sancito con la forza dal Pcc di Deng, «arricchitevi» ma al resto ci pensa il partito – ha dato vita a una nuova «sottoclasse urbana», che ha inserito la Cina in un contesto capitalistico, seppure protetto da un ruolo ancora primario dello Stato.
Un dato inequivocabile – infatti – delle riforme, in relazione al lavoro, è stata la campagna di privatizzazioni, iniziata da Deng e poi portata a termine da Jiang Zemin, colui che ha sancito il cambiamento epocale attraverso la teoria delle «tre rappresentanze» che giustificò l’iscrizione in massa – già in corso – nel partito comunista, fino ad allora composto in prevalenza da operai e contadini, di imprenditori privati, di cui oggi Jack Ma, il fondatore di Alibaba, nata nel 1999 ed esempio delle trasformazioni cinesi, è testimone.
Deng Xiaoping (LaPresse)
Le aziende di stato erano state il fulcro dell’industrializzazione maoista, pari a quasi quattro quinti della produzione non agricola. La maggior parte di questi colossi erano situati nelle città, dove erano impiegati circa 70 milioni di persone nel 1980. Il primo smantellamento è cominciato nel 1988, dando luogo ai licenziamenti di massa alla fine del 1990, quando, come scrivono Walker R. & Buck D. in The Chinese road, Cities in the Transition to Capitalism (New Left Review, agosto 2007) «il capitalismo cinese ha conosciuto la sua prima crisi di sovrapproduzione, segnando una netta transizione dalla vecchia economia della scarsità alla nuova economia del surplus». Il risultato fu clamoroso: nei primi anni del 2000 l’occupazione nelle imprese statali era stata dimezzata, 40 milioni di persone si ritrovarono senza la tradizionale «ciotola di riso», simbolo e garanzia delle vecchie imprese di stato.
PER QUESTO GRUPPO di individui, quasi sempre di mezza età, si apriva la prospettiva di trasformarsi in quanto ha osservato Lu Tu, ovvero una «sottoclasse urbana»: Dorothy Solinger in Social Exclusion and Marginality in Chinese Societies (Hong Kong, 2013) spiega che «invece dell’aumento dei livelli di istruzione e l’imborghesimento di una larga parte della classe operaia come è successo in altri luoghi in concomitanza con lo sviluppo economico, questa informalizzazione dell’economia urbana ha rappresentato invece una regressione». E a testimoniare un modello che ancora oggi prevede sfruttamento, ci sono le proteste operaie, mai sopite e indomite, anche 40 anni dopo le riforme
Corriere 23.12.18
Il leader del 2018? Il voto a Xi Jinping
di Maria Elena Zanini
È Xi Jinping il personaggio dell’anno. Un sondaggio tra i giornalisti e gli editorialisti economici del Corriere della Sera ha eletto il premier cinese come l’uomo che ha maggiormente influenzato l’assetto economico mondiale. Solo Xi Jinping, scrive Guido Santevecchi sulle pagine de L’Economia, in edicola domani con una doppia copertina, è stato in effetti «leader». Di fronte all’incapacità britannica di gestire il divorzio con la Ue, all’addio della cancelliera tedesca Angela Merkel, ai problemi di politica interna dell’amministrazione Trump, gli altri capi di Stato hanno agito seguendo i movimenti ondivaghi dei propri elettori. Xi, insomma, vince anche per mancanza di avversari credibili. Non c’è nessuno al governo in Occidente che si sia battuto bene come lui per rafforzare il proprio Paese senza confondere l’interesse nazionale con il proprio di breve respiro e che abbia al tempo stesso cercato di presentare la propria nazione come portatrice di valori.
Ma L’Economia in questo numero speciale di bilanci e previsioni ha anche una seconda copertina dedicata a Giuseppe Guzzetti, il traghettatore della finanza italiana, presidente della Fondazione Cariplo dal 1997 che si trova ora ad avviare la transizione del grande socio di Intesa Sanpaolo, un gigante da 8 miliardi di patrimonio. Il rinnovo degli organi della Commissione centrale di beneficenza è appena iniziato e dovrà concludersi l’anno prossimo, con la scelta (soprattutto) del nuovo presidente, mantenendo però, come ha sempre ripetuto lo stesso Guzzetti, la «coesione sociale». Sul prossimo numero si fa anche il punto sul «cammino per l’indipendenza» delle regioni del Nord (Lombardia e Veneto in primis) e sulla redistribuzione delle risorse. Un cammino che acuirà inevitabilmente il contrasto tra Settentrione e Meridione, soprattutto per quanto riguarda i residui fiscali, ossia il saldo tra entrate e spesa, che vede al Nord un segno positivo e al Sud un segno negativo.
Altro dato inquietante, come sottolinea Ferruccio de Bortoli, è la spesa per il debito pubblico, decisamente più alta rispetto a quella dedicata a scuola e università. Contando che il nostro Paese è un paradiso fiscale delle tasse di successione, si potrebbe pensare di renderle più eque creando un fondo per i giovani «incagliati», investendo sul futuro del Paese e non solo sul passato. Senza un solido patto generazionale, il futuro del Paese è ancora più incerto, se non compromesso.
E parlando di investimenti, le pagine di risparmio si interrogano sui trend del 2019, dopo un 2018 particolarmente complesso. Tra le sorprese per il prossimo anno potrebbero esserci gli Emergenti e la zona euro, una volta rientrato il «conflitto» Italia-Ue. Le stime dei profitti aziendali sono ancora positive, ma il primo trimestre potrebbe portare diverse incertezze. Tanti dunque i temi sul piatto.
Per aggiornarsi e trovare il filo conduttore tra l’evoluzione dell’economia e della società, ecco infine una piccola biblioteca di consigli di lettura, scelti da giornalisti e collaboratori de L’Economia. Tra questi, Becoming: La mia storia di Michelle Obama o Illuminismo adesso di Steven Pinker, un saggio che invita a ragionare con i piedi per terra. In Siamo noi i sognatori Imbolo Mbue, scrittrice nata in Camerun, si interroga su quello che è accaduto con il crollo di Lehman Brothers. Romanzi e analisi del mondo che cambia.
il manifesto 23.12.18
Nella nuova era di Xi Jinping più stato che mercato
Cina. Il discorso del "presidente eterno". «Efficienza» è il tema chiave della prolusione di Xi nell’anniversario delle riforme di Deng Xiaoping. Nel testo la parola «partito» ricorre 128 volte, «riforme» 87, apertura» 67 e «mercato» 5
di Alessandra Colarizi
Un paio di anni fa, in un incontro all’Università di Roma La Sapienza, l’ex ambasciatore italiano in Cina Alberto Bradanini sintetizzava il significato delle riforme cinesi in una sola parola: «efficienza». Non necessariamente libero mercato né tanto meno un sistema politico più democratico. Semplicemente di quel che meglio si adatta al paese.
Il concetto di «efficienza» torna tra le righe del lungo discorso tenuto dal presidente cinese Xi Jinping martedì scorso per commemorare il 40esimo anniversario delle riforme lanciate da Deng Xiaoping all’indomani della rivoluzione culturale, quando la Repubblica popolare era «sull’orlo del collasso economico». Definendo la rapida ascesa cinese «un miracolo senza precedenti», il leader ha assicurato che il gigante asiatico sosterrà le riforme economiche, ma non cambierà il proprio sistema politico né permetterà ad altri paesi di dettare la propria agenda interna.
Piuttosto, continuerà ad aggiornare il proprio modello di sviluppo con quella stessa adattabilità/efficienza che quest’anno ha permesso al regime cinese di superare per longevità l’Unione Sovietica. Lo farà «rafforzando le aziende statali» e «sviluppando l’economia privata», ma senza soddisfare nell’immediato le richieste della comunità internazionale per nuove e più concrete agevolazioni sui capitali esteri e l’imprenditoria privata che oggi – pur contando per oltre il 60% del Pil e l’80% dei posti di lavoro – è la vera vittima del connubio deleveraging – rallentamento economico.
Il presidente cinese Xi Jinping alla conferenza per il 40esimo anniversario della nuova politica di Deng (Foto: Ap)
D’ALTRONDE, se la buona riuscita delle riforme si misura in «efficienza», finora il «socialismo con caratteristiche cinesi» ha svolto al meglio la sua funzione. Ma continuerà a essere così? Sono passati cinque anni da quando il terzo plenum ha promesso più mercato e una ristrutturazione dei monopoli statali. Sei da quando, appena nominato segretario generale del Pcc, Xi visitò Shenzhen, la megalopoli del Sud scelta da Deng Xiaoping come laboratorio per i primi esperimenti capitalistici.
Al tempo, il viaggio parve suggerire una possibile attitudine liberale della nuova amministrazione. Complici i precedenti paterni del nuovo Timoniere. Come mette in rilievo l’agenzia Xinhua in un articolo dal titolo Xi Jinping: The man who leads China’s reform into a new era, negli anni ‘80 il padre Xi Zhongxun svolse un ruolo chiave nell’istituzione della prima zona economica speciale come segretario provinciale: «Il coraggio e il senso della missione del padre hanno lasciato un’impressione profonda sul figlio».
Da allora tuttavia alcune delle riforme strutturali avviate da Deng sono state completamente smantellate: il limite dei due mandati presidenziali, la leadership collegiale, la separazione tra partito e governo, e la strategia del basso profilo in politica estera hanno lasciato il posto, in casa, a un accentramento dei poteri nelle mani di un unico lider maximo e a un maggiore controllo politico sull’economia privata. All’estero, a un’assertività minacciosa, talvolta arrogante. L’immagine di Deng è andata sbiadendo, relegata nelle retrovie dei complessi museali dove oggi primeggiano con toni futuristici i successi della Nuova Era firmata Xi Jinping.
QUANDO LO SCORSO ottobre Xi è tornato a Shenzhen per battezzare una nuova megaregione economica nel delta del fiume delle Perle, la portata simbolica della visita risultava compromessa in partenza dall’appoggio al «ruolo insostituibile» dei colossi statali rinnovato dal presidente durante una precedente trasferta nell’ex Manciuria, la patria dell’industria pesante e petrolifera cinese. Quella meno incline a rinunciare alle lusinghe economiche del capitalismo di stato, dopo aver contribuito ad ammortizzato la crisi finanziaria mondiale investendo e producendo nell’interesse nazionale senza curarsi delle logiche di mercato.
Le resistenze infatti non mancano. Se per Xi, il futuro riserva alla Cina «pericoli inimmaginabili», secondo la stampa ufficiale «concetti ideologici mal concepiti e meccanismi istituzionali stanno diventando un ostacolo per le riforme e l’apertura». Mentre lo scenario internazionale si via via fa più ostile, sfide anche più cruciali provengono dalla scarsa popolarità riscossa in alcuni ambienti dalle politiche muscolari e ultra-stataliste del «presidente eterno».
Lo dimostra la rimozione dall’agenda 2018 del consueto plenum autunnale, che per la liturgia del partito avrebbe dovuto fare da sfondo a grandi annunci di natura economica. Negli ultimi mesi, le critiche sono arrivate nientemeno che dai figli di Deng Xiaoping e Zhu Rongji, l’artefice della ristrutturazione delle aziende di stato anni ‘90.
Auspicando una maggiore unità, nel suo discorso Xi ha chiesto sostegno «alla guida autorevole e centralizzata del Comitato Centrale del Pcc» affinché la leadership del partito venga attuata in materia di riforma, sviluppo, stabilità, affari interni ed esteri, difesa nazionale, partito, stato, esercito e altri settori. Ben 128 sono le volte in cui è ricorsa la parola «partito», più di «riforme» (87), «apertura» (67) e «mercato» (5). Al contempo, la riabilitazione dei predecessori Jiang Zemin e Hu Jintao – fin’oggi sacrificati in nome di una simbolica discendenza diretta da Deng e Mao – parrebbe smascherare il bisogno di maggiore coesione al vertice. E non solo.
«RIFORMA, sviluppo e perseveranza non sono rari al mondo. Ciò che sorprende è il modo in cui la Cina ha bilanciato perfettamente riforma, sviluppo e stabilità», spiega il tabloid in lingua inglese Global Times, «ma mentre gli interessi interni del paese si stanno rapidamente dividendo, diventa più difficile per il popolo cinese raggiungere un consenso. In passato, quando le persone erano relativamente povere, la priorità per la maggioranza era migliorare gli standard di vita e accumulare ricchezza. Ma la disuguaglianza economica porta alla divisione dei pensieri, rendendo più difficile unire la società su questioni significative».
Il Fatto 23.12.18
Congo, rinvio elezioni Cina e Usa si dividono un Paese troppo ricco
Alle urne il 30 dicembre - Incendiati i seggi elettorali Ma i candidati sono solo comparse di un gioco più grande in cui oltre a Pechino e Washington c’è anche l’Eni
di Massimo A. Alberizzi
Spostate di una settimana le elezioni presidenziali nella Repubblica Democratica del Congo: erano previste per oggi, invece si voterà il 30 dicembre. Il ritardo è dovuto a un incendio che ha distrutto 8 mila computer per il voto elettronico in attesa di essere distribuiti ai seggi. La Costituzione prevede un solo turno. In lizza 21 candidati, molti dei quali sconosciuti: prenderanno soltanto i voti della loro tribù.
In pole position il delfino del presidente uscente, Joseph Kabila, Emmanuel Ramazani Shadary, cofondatore del Parti du Peuple pour la Reconstruction et la Démocratie (Pprd). Dall’altra parte, Felix Tshisekedi, figlio di Etienne Tshisekedi, leader storico dell’Union pour la démocratie et le progrès social, rimasto all’opposizione prima del dittatore Mobutu Sese Seko e poi di Laurent Kabila e del figlio Joseph, e Martin Fayulu, un uomo d’affari molto conosciuto.
La commissione elettorale indipendente (ovviamente, solo un modo di dire) ha escluso dalla competizione i due candidati più temibili per l’establishment: Jean Pierre Bemba, ex signore della guerra e vicepresidente del Paese, e Moïse Katumbi, ex governatore del Katanga. Katumbi, il cui padre è italiano, ha tentato di rientrare dall’esilio il 5 agosto scorso per poter registrare la sua candidatura entro la scadenza dei termini, l’8 agosto. Fermato alla frontiera gli è stato proibito l’ingresso.
Ma gli attori sul terreno sono solo comparse. I veri protagonisti, dietro le quinte, sono stranieri che guardano con ingordigia alle enormi ricchezze del Paese. In Congo c’è tutto: minerali pregiati, tecnologicamente importanti, diamanti, oro, coltan, cobalto, zinco, rame, uranio e petrolio, solo per citarne alcuni. Le ricchezze, sparse su un territorio grande come l’Europa, potrebbero permettere alla popolazione di vivere a un buon livello di benessere. Invece poche famiglie razziano e saccheggiano tutto. I soldati, i poliziotti, gli impiegati degli uffici pubblici, i maestri e i professori, insomma gli statali in genere ricevono i salari a singhiozzo. Nelle baraccopoli i politici si muovono in giganteschi macchinoni. L’ostentazione di tanta ricchezza genera ammirazione tra la gente. Pochi si curano di sapere da dove viene e come sono state create simili fortune.
Joseph Kabila, il cui mandato è scaduto da un paio d’anni (ha represso nel sangue manifestazioni di protesta) ha designato il suo successore, Emmanuel Ramazani Shadary. Il loro maggiore sponsor è la Cina e i grossi gruppi imprenditoriali capital-comunisti. Ma il giovane presidente intrattiene ottimi rapporti anche con Israele e in particolare con l’imprenditore di diamanti e materie prima in genere, Dan Gertler, suo testimone di nozze qualche anno fa. La critica più feroce che viene addossata a Kabila dai suoi detrattori è di aver venduto il Congo a Pechino.
Martin Fayulu è stato designato da un imprecisato numero di gruppi di opposizione e dai due leader esclusi, Jean Pierre Bemba e Moïse Katumbi che, non potendo partecipare, lo hanno scelto per rappresentarli e rappresentare, soprattutto, gli interessi dei loro sponsor, americani e occidentali in genere.
Gli schieramenti non sono così precisi e distinti. Gli americani giocano su tutti i tavoli dell’opposizione e per esempio l’Eni che ha interessi petroliferi nel bacino del lago Alberto, a cavallo del confine tra Congo e Uganda, tifa per Ramazani. I sudafricani sperano che Kabila e il suo delfino scompaiano dalla scena politica. Sul terreno la partita delle risorse coinvolge anche Russia e India e in campo c’è anche Nursultan Nazerbayev, il dittatore del Kazakistan. Nell’est del Congo, zona di guerra permanente, si aggirano milizie e uomini armati che parlano inglese con accento russo e hanno gli occhi a mandorla. Controllano i luoghi dove ci sono le miniere in concessione ai magnati ex sovietici, tra cui, appunto, Nazarbayev.
La Stampa 23.12.18
Putin e Xi mostrano i muscoli
di Maurizio Molinari
Platee imponenti, discorsi-fiume, esaltazione della leadership personale, attacchi duri all’America ed all’Occidente nonché una marcata attenzione a celare errori e debolezze in casa propria: i recenti interventi pubblici di Xi Jinping e Vladimir Putin evidenziano una convergenza di metodo e contenuti nell’esaltare il modello autocratico per sfidare a viso aperto le democrazie in affanno.
Partiamo dal metodo di comunicazione. Xi ha parlato per un’ora e mezzo davanti a circa 3000 delegati del Partito comunista cinese riuniti nell’imponente Sala del Popolo e Putin per oltre quattro ore a 1700 giornalisti, russi e stranieri, nella cornice del Cremlino. In entrambi i casi con dirette tv e ampia copertura social e digitale. Ovvero, a Pechino come a Mosca, una cornice di immagine tesa ad esaltare la centralità assoluta, incontrastata, del leader come caratteristica identitaria del proprio modello politico e della conseguente proiezione internazionale. Non c’è alcun dubbio sul fatto che la Repubblica popolare cinese sia un regime monopartito dal 1949 e la Federazione russa sia nelle salde redini del partito di Putin dal 2000 ma ciò che colpisce è la volontà di esaltare queste forme di autocrazia al fine evidente di attestarne la superiorità rispetto al maggiore rivale sulla scena globale: la democrazia rappresentativa dell’Occidente. Tanto più Europa e Stati Uniti hanno sistemi politici indeboliti, leader incerti e vulnerabili, Parlamenti paralizzati ed inefficaci, tanto più le maggiori autocrazie del Pianeta puntano a sfruttare la comunicazione di massa per vantare la loro superiorità. Perché si tratta, anzitutto, di una sfida globale fra modelli di Stato e governo alternativi, rivali.
Poi veniamo ai contenuti. Xi difende con orgoglio l’identità «socialista» della Cina, come espressione di un passato millenario, accusa l’Occidente di volerla mettere in discussione, assicura di non intendere «sottomettere alcun Paese» e tace sul rallentamento della crescita, sulla violazione dei diritti delle minoranze, sul divieto di dissenso politico, sul massiccio controllo delle comunicazioni personali e sul misterioso arresto del capo dell’Interpol. Putin invece accusa gli Stati Uniti di voler la «guerra nucleare», irride il ritiro di Donald Trump dalla Siria dicendosi «d’accordo», rimprovera al presidente francese Macron di aver causato la rivolta dei «gilet gialli» aumentando il prezzo della benzina, sprona i britannici a «rispettare il volere del popolo» sulla Brexit e rivendica con energia il sequestro di tre navi ucraine nel Mar Nero al fine di dimostrare che è la propria versione dell’ordine internazionale - frutto di intrusioni cibernetiche in Occidente, violazioni di sovranità in Ucraina, sviluppo di nuovi armi nucleari e interventi militari in Siria a favore di un sanguinario dittatore - che si sta realizzando con indubbia efficacia sotto i nostri occhi. Vantare tali e tanti successi lo spinge perfino a rimproverare alle democrazie occidentali di applicare un «doppio standard» perché hanno reagito «solo a parole» al brutale omicidio del giornalista Jamal Khashoggi da parte dei sauditi nel consolato di Istanbul mentre hanno varato «sanzioni» alla Russia per l’attacco all’ex spia Sergei Skripal in Gran Bretagna «che non è morto». Come dire: noi i dissidenti li avveleniamo soltanto, non li facciamo a pezzi, ma l’Occidente ci punisce di più solo per partito preso.
La lettura comparata di parole e messaggi di Xi e Putin porta a dedurre che entrambi si sentono dalla parte vincente della Storia, vedono nei movimenti populisti il sintomo dell’inesorabile declino delle democrazie liberali ed offrono agli Stati indeboliti dell’Occidente di affidarsi a loro per fare business o ricevere garanzie di sicurezza. La loro scommessa è, in ultima istanza, sulla possibilità di raccogliere la resa del modello rivale, incassandone i frutti, strategici ed economici. Resta da vedere se e come le democrazie comprenderanno e sapranno reagire a questa temibile sfida.
Corriere 23.2.18
L’ago della bilancia
Brexit, se Londra ci ripensa
Tutti gli ostacoli per il «Remain»
di Sergio Romano
Theresa May, primo ministro del Regno Unito, non ha perso ogni speranza e cercherà di convincere il Parlamento britannico che l’accordo raggiunto con la Commissione, per l’uscita del suo Paese dall’Unione Europea, è la migliore delle soluzioni possibili. Ma approfitta delle feste per prendere tempo e non chiederà un voto alla Camera dei Comuni prima della metà di gennaio. Nel frattempo cercherà di persuadere i suoi avversari nel partito conservatore che l’accordo è meglio di un nuovo referendum da cui i paladini del Leave potrebbero uscire sconfitti. Se vincerà, resterà al governo, verosimilmente, sino alle prossime elezioni. Se perderà dovrà dimettersi e il nuovo governo dovrà prepararsi a una «hard Brexit», un percorso rischioso, pieno di complicati imprevisti. Comincerà allora una fase in cui il problema non sarà esclusivamente britannico e anche l’Unione Europea dovrà avere una strategia. Credo che convenga fare sin d’ora qualche ipotesi. Se Theresa May dovrà dimettersi, la prospettiva di un secondo referendum diventerà sempre più concreta. Vi è certamente una parte importante della Gran Bretagna che non desidera trasformare la «madre dei parlamenti» in una democrazia referendaria. Ma vi sono anche personalità politiche ed elettori ormai convinti che le esperienze degli ultimi mesi e le preoccupanti previsioni di molti economisti abbiano modificato il rapporto di forze tra i paladini del Leave e quelli del Remain. Dobbiamo prepararci quindi alla possibilità che la Gran Bretagna torni alle urne e rovesci la decisione del referendum precedente. Che cosa farà il suo governo? Non sarei sorpreso se gli inglesi, in questo caso, tentassero di rientrare nell’Unione alle stesse condizioni di cui godevano prima di uscirne, con tutti i trattamenti eccezionali che il governo britannico aveva strappato ai suoi partner. Ma la Commissione potrebbe opporsi ricordando che un articolo dei trattati europei (il 49) richiede, in questi casi, un nuovo negoziato. Esiste tuttavia un altro testo giuridico cui gli inglesi potrebbero ora ricorrere. Un tribunale del Regno Unito, sollecitato da alcuni parlamentari inglesi, scozzesi e europei sulla possibile revoca della decisione presa nel marzo del 2017 (quando annunciò ufficialmente la sua decisione di uscire dall’Ue), ha dichiarato che una revoca unilaterale è possibile e legittima. La Corte di giustizia europea ha confermato con una delibera dell’8 dicembre che Londra avrebbe effettivamente il diritto di tornare sui suoi passi a una condizione: che la revoca avvenga entro due anni dalla decisione di uscire, vale a dire prima del 29 marzo 2019. Se questo accadesse avremmo perso due anni e parecchi milioni di euro per un negoziato inutile. «Molto rumore per nulla», come avrebbe detto Shakespeare; ma anche la dimostrazione di quanto sia difficile fare a pezzi l’Unione Europea.
Repubblica 23.12.18
Polemica in Gran Bretagna
Tutti contro Corbyn l’euroscettico " Avanti Brexit anche con il Labour"
Il leader di opposizione si schiera apertamente per l’uscita dalla Ue E il partito ora rischia davvero la scissione
di Enrico Franceschini
Londra Finora l’ombra peggiore sulla sua reputazione era un sospetto di antisemitismo. Adesso Jeremy Corbyn ha un’altra colpa, almeno agli occhi dei detrattori: l’antieuropeismo.
Molti lo consideravano tale già da tempo, perché non si ricordano interventi del leader laburista appassionatamente a favore della permanenza in Europa. Ma ora non ci sono più dubbi.
Intervistato dal Guardian, il 69enne capo della sinistra britannica dichiara apertamente per la prima volta: « La Brexit ci sarebbe anche se il Labour vincesse un’elezione anticipata » , possibilità che potrebbe diventare concreta se l’accordo di uscita del Regno Unito dalla Ue negoziato da Theresa May verrà bocciato dal parlamento di Westminster il prossimo 16 gennaio.
Agli attivisti che sperano in lui per fermare la Brexit, risponde: «Dobbiamo riconoscere che, se il 60 per cento degli elettori laburisti ha votato per rimanere nella Ue, il 40 ha votato per uscirne, e noi abbiamo il compito di unire il Paese». Quindi spiega come farebbe: « Andrei a Bruxelles, tratterei per restare in un’unione doganale e per mantenere un accesso al mercato».
Un piano non molto diverso da quello dell’attuale premier conservatrice, che accetta l’unione doganale come soluzione teoricamente provvisoria, sebbene senza porvi una scadenza precisa. Infine Corbyn ribadisce cosa non gli piace della Ue: « Le regole sugli aiuti di Stato alle imprese. Se intendi rilanciare l’economia, come farebbe il mio governo, non voglio che qualcun altro mi dica che non posso usare gli aiuti di Stato per sviluppare la politica industriale».
Due anni or sono lo studio di due docenti di diritto europeo del King’s College di Londra, fra cui un italiano, il professor Andrea Biondi, chiarì che non esistono proibizioni di questo tipo da parte della Ue verso gli Stati membri. Ma Corbyn appare fissato sull’idea dell’Europa unita come club neo-liberista, contrario ai principi del socialismo che sogna di instaurare nel proprio Paese: e finora nessuno è riuscito a fargliela cambiare.
« Profondamente deprimente e deludente » , dice delle sue dichiarazioni il deputato laburista pro- Ue Chuka Umunna, e non è escluso che sia il prologo di una scissione di cui si vocifera da mesi. « Corbyn si rivela la levatrice della Brexit», commenta Ian Blackford, capo dei deputati scozzesi alla camera dei Comuni. « Esprime una linea indistinguibile dai Tories», accusa il leader liberal- democratico Vince Cable.
Non è servito nemmeno che un sondaggio recente su un secondo referendum assegni 18 punti di vantaggio a rimanere nella Ue (63% contro 45%) e predica che il Labour scenderebbe da secondo a terzo partito nazionale, dietro i lib- dem, se non si opporrà alla Brexit: le convinzioni del leader sembrano più forti di ogni calcolo politico.
La morale è semplice: per Corbyn l’Europa unita non è un valore di sinistra. D’ora in poi i suoi seguaci, in Gran Bretagna e altrove, sapranno con certezza che si può essere corbynisti oppure europeisti: di certo non entrambe le cose allo stesso tempo.
Corriere 23.12.18
Il cinismo politico condanna i curdi (ancora una volta)
di Guido Olimpio
La Storia, con alcuni popoli, non è mai generosa. E lo è ancora meno quando hanno solo degli amici interessati. È questa la condanna dei curdi, schiacciati da giochi di cinismo politico, geografia, territorio, rivalità, nemici irriducibili.
Gli Usa li hanno usati per liberare ampie porzioni della Siria finite sotto il controllo dello Stato Islamico. I guerriglieri Ypg, gemelli e cloni dei loro fratelli di Turchia (fazione Pkk), non si sono sottratti. Volevano sventare la minaccia islamista, ma anche rilanciare le loro ambizioni di crescita. Sapevano che era un patto precario, non infinito. Il loro disegno si scontrava con la «naturale» opposizione non solo della Turchia, ma anche di altri protagonisti della grande crisi. Hanno provato ad adeguarsi, saltellato da una posizione all’altra, alla fine sono stati lasciati indietro. Donald Trump ha girato loro le spalle ricucendo i rapporti con il presidente Erdogan, alleato non certo affidabile, molto ambiguo, ma sempre un membro della Nato. Svolta ingiusta, scelta non sorprendente.
E se andiamo indietro nel tempo hanno sofferto tradimenti anche gli «altri» curdi. Quelli dell’Iraq, alleati nella lotta contro Saddam e dimenticati quando scattò la vendetta del raìs. Quelli dell’Iran, coccolati per infastidire gli ayatollah però non tutelati fino in fondo: per due volte la loro leadership è stata decapitata da attentati attribuiti a Teheran compiuti a Vienna e Berlino. Esperienze dure, brutali, ripetutesi in epoche diverse.
Certo, i dirigenti avrebbero dovuto essere più cauti, evitando anche politiche che hanno messo in allarme le altre etnie, timorose di essere sottomesse, ma gli avversari non gli hanno lasciato troppe alternative. L’avanzata del Califfato, l’assedio di Kobane, i massacri dei jihadisti hanno creato le condizioni per l’azione comune con gli occidentali. I curdi hanno sacrificato molti uomini e donne per sradicare le bandiere nere. Non è bastato a fermare la Storia.
il manifesto 23.12.18
Come mai Gesù fu deposto proprio in una mangiatoia?
Storia sacra, strenne. La grotta, la stella, il bue e l’asino... Nel suo nuovo, affettuoso saggio su Il presepio (Einaudi) Maurizio Bettini dipana, da antropologo, una iconografia tradizionale
di Giuseppe Pucci
Alla fatidica domanda di papà Cupiello «te piace o’ presepio?» Maurizio Bettini avrebbe risposto con un netto sì. L’ultimo libro del noto filologo, scrittore e giornalista non lascia dubbi: Il presepio Antropologia e storia della cultura (Einaudi «Frontiere», pp. 192,
Il filologo sfodera gli acuminati ferri del mestiere. Dei testi evangelici è messa a fuoco la non perfetta coincidenza sulle circostanze della Natività. Della stella parla Matteo, ma non Luca, della mangiatoia Luca ma non Matteo. Della grotta, e soprattutto del bue e dell’asinello, nessuno dei due. Ecco allora che Bettini dipana per noi la complessa questione della formazione dell’iconografia tradizionale. La grotta, ci spiega, la troviamo citata dal Protovangelo di Giacomo (II secolo d.C.) e anche dall’apologeta Giustino; e a Betlemme già dal II-III secolo si era creata una topografia della natività a uso dei pellegrini, ai quali veniva mostrata la ‘vera’ grotta, completa di ‘vera’ mangiatoia. Ma perché una grotta? Solo perché le mangiatoie stanno nelle stalle e le stalle sono spesso delle grotte? No, il filologo, che è anche un antropologo, ci ricorda che la grotta è un luogo che in varie culture è associato alla nascita e/o al culto di una divinità: tra gli altri, Mitra, Adone, Dioniso, Ermes, lo stesso Zeus. Degli ultimi tre, poi, si dice che furono deposti in un líknon, sorta di canestro che serviva a vagliare il grano. L’analogia con la mangiatoia di Gesù è evidente. Del resto, ceste o altri singolari contenitori figurano spesso nei racconti leggendari relativi all’infanzia di personaggi eccezionali, come Mosé, Romolo e Remo, Cipselo, e perfino papa Gregorio Magno. C’è di più: Zeus, dopo la nascita in una grotta del monte Ida, fu accudito da una capra e un’ape. Quindi anche la presenza di due animali accanto alla mangiatoia del Salvatore è anticipata dal mito classico. Il racconto della nascita di Gesù ha in verità molto in comune con tante altre storie di bambini meravigliosi, deposti in strani recipienti e protetti da animali caritatevoli.
Ma perché a Gesù toccarono un bue e un asino? Come mai a un certo punto comparvero accanto a lui queste figure che né Luca né Matteo nominano mai? Potrebbe trattarsi di un banale desiderio di realismo, o della persistenza di un antico modello culturale. Ma queste spiegazioni non bastano al nostro autore, che da filologo e antropologo si fa anche un po’ teologo. O meglio, ci fa considerare la questione dal punto di vista di un teologo dei primi secoli del cristianesimo, Origene, che leggeva le Scritture in chiave allegorica. Non aveva detto Isaia «il bue riconosce il suo proprietario e l’asino la mangiatoia del suo padrone»? Per il principio della ‘risonanza’ scritturale era logico mettere in relazione la mangiatoia di Betlemme con quella di Isaia. E dato che Isaia affermava che a riconoscere la mangiatoia del padrone era l’asino, non il bue, per Origene il senso era chiaro: il bue, animale puro che simboleggia il popolo di Israele, non aveva riconosciuto il Messia; l’asino, animale impuro che simboleggia i Gentili, sì. Il bue e l’asino, insomma, non fanno concretamente parte della vicenda, stanno lì per farci vedere nella mangiatoia il segno dal quale tutti dobbiamo riconoscere il nostro Signore.
Bettini ha molto da dire anche sugli altri attori – i Magi e i pastori – che affollano i nostri presepi, così diversi dal primo, quello che Francesco creò a Greccio nel natale del 1223, che aveva solo la mangiatoia, il bue e l’asinello. Si capisce che gli piacciono davvero quelle ingenue statuine, ama tirarle fuori dalle scatole della sua «memoria presepiale» e passarle in rivista. Ne apprezza – nei presepi d’epoca – il valore documentario, etnografico; ma non si ritrova in quei presepi incongruamente pletorici in cui «la massaia si reca dall’arrotino per poi fermarsi a litigare con l’acquaiola». Considera abusiva l’inserzione forzata nell’acronia del presepe classico di quei personaggi della cronaca contemporanea che si propongono chiassosamente dalle vetrine di San Gregorio Armeno. Lui preferisce quelle immaginette che più discretamente presentificano un’assenza, e che attraverso l’adesione al rito perpetuano un patto di fedeltà. E il rito, per essere significante, deve svolgersi e concludersi in un periodo prefissato. Un presepe perennemente esposto in un museo è, a ben vedere, un controsenso. Il presepe, ha detto uno scrittore (napoletano ça va sans dire), «è bello quando lo fai» – che poi à la stessa cosa – «quando lo pensi». Bettini, credo, sarebbe d’accordo.
il manifesto 23.12.18
Bibbia, mappe del mondo e mirabilia: gi animali della Frugoni
Iconografia, strenne. Dalla Genesi a San Francesco: in Uomini e animali nel Medioevo, per il Mulino, Chiara Frugoni attraversa una fitta rete di immagini e testi alla scoperta dell’ideale (perduta) armonia degli esseri viventi
di Francesco Stella
Nel romanzo Baudolino del 2000 Umberto Eco immagina che il protagonista, giunto ai confini del leggendario Regno del Prete Gianni, uno stato «ideale» collocato in un Oriente estremo e indefinito ma non immaginario, assista a guerre combattute da specie umane mostruose (nel senso latino di «prodigiose»), come gli sciapodi, uomini a gamba unica con piedone utile a proteggersi dal sole facendo ombra (skia in greco), e per questo capaci di una corsa velocissima, o i blemmi, esseri con la testa nel torace simili agli Spongibob dei cartoni animati. Queste razze abitavano regioni della terra poco conosciute e perciò suscettibili di ospitare uomini e animali fuori dagli standard europei. Per la sua narrazione Eco attingeva a quelle raccolte di esotismi che erano i cataloghi di monstra e i bestiari, descrizioni di animali (ma anche piante, herbaria, o pietre, lapidaria) familiari o conosciuti solo da racconti di viaggiatori o da fonti autorevoli come la Bibbia o la Storia naturale di Plinio e i suoi derivati. Ma sempre e comunque reali, in quanto parte della creazione voluta da Dio: come scriveva Agostino, la loro apparente stranezza dipende dall’insufficienza della nostra conoscenza scientifica e non da un difetto di attendibilità.
Negli ultimi anni su questo genere letterario, grazie anche alla maggiore facilità sia di reperire sia di stampare illustrazioni a colori del magico mondo medievale, sono stati pubblicati anche in Italia saggi e raccolte di cui «Alias» ha spesso dato conto: da Bestiari del Medioevo di Michel Pastoureau (Einaudi 2012) all’imponente antologia di testi edita per Giunti da Francesco Zambon pochi mesi fa. Sembrava perciò un’impresa impossibile riparlarne trovando una chiave nuova. Ma il Medioevo è un arsenale inesauribile e Uomini e animali nel Medioevo Storie fantastiche e feroci (il Mulino «Grandi illustrati», pp. 387, con 235 immagini a colori, euro 40,00) di Chiara Frugoni, storica di instancabile generosità (di un anno fa il suo accattivante Vivere nel Medioevo), riesce nell’impresa, pur ricorrendo in parte a materiali familiari agli appassionati di immaginario medievale e ancor più accessibili da quando portali web di straordinaria ricchezza come http://bestiary.ca/ mettono a disposizione centinaia di immagini anche rare con relative interpretazioni, spesso inedite a stampa.
La Frugoni, maestra della ricerca sul rapporto immagine/testo, sceglie sostanzialmente tre chiavi, distribuite in cinque capitoli. La prima riguarda gli animali della Bibbia, e in particolare quelli legati al loro primo apparire, nella Genesi. Dei due racconti biblici sulla creazione, sensibilmente diversi fra loro, il volume indaga con magistrale chiarezza le problematiche, ponendosi domande che rendono questo moderno bestiario diverso dagli altri: come comunicava Adamo con gli animali? E le bestie dell’Eden si esprimevano in qualche modo? La risposta, che muove dalla lingua pre-umana a quelle successive al peccato originale e alla torre di Babele, si dipana navigando in scioltezza fra fonti teologiche e capitelli romanici, documenti canonistici ed esplorazioni di opere celebri e composite come il tappeto o arazzo di Girona (XII secolo), sorta di sommario del mondo e delle sue figurazioni e scansioni principali.
La capacità di guidarci in una rappresentazione complessa si manifesta al massimo grado nel capitolo forse più nuovo del volume, quello dedicato alle mappae mundi, raffigurazioni cartografiche che ambivano a riassumere le conoscenze sulla Terra, da quelle antropologiche a quelle zoologiche, geografiche, storiche, religiose, offrendo allo spettatore quella vista dall’alto già immaginata da Cicerone nel Somnium Scipionis così caro al Medioevo. In particolare è illuminante il capitolo sulla Mappa custodita un tempo a Ebstorf in Sassonia, distrutta durante la guerra ma ricostruita sulla base di riproduzioni da una fotografia, poi perduta anch’essa, del 1888. Composta da trenta pelli di capra e larga tre metri e mezzo, raffigurava un globo equivalente al corpo di Cristo (di cui si vedono spuntare la testa a nord, i piedi a sud, le braccia a est e ovest) e abitato da centinaia di edifici e figure botaniche, zoologiche e umane distribuite in coloratissimi territori separati da fiumi e montagne e circondati dall’Oceano circolare: al margine di questa cintura vivono appunto sciapodi, blemmi e le altre varietà umane a cui, dopo le enciclopedie di Plinio e Isidoro, il Medioevo dedicò cataloghi specifici come il Liber Monstrorum (VIII-IX secolo), qui non utilizzato. Frugoni ci accompagna riquadro per riquadro lasciandoci scoprire le dyomede delle Isole Tremiti, il serpente moas e lo iaculo, lo stellio e la cerasta, ma anche i popoli «grifi» del nord Europa e i biondi albanesi, la Amazzoni e i cannibali Massageti, i mille papaveri rossi cui re Dario paragonava la moltitudine dei suoi guerrieri poi sterminati da Alessandro e i luoghi d’Africa e d’Asia dove erano stati martirizzati gli apostoli. Questa mappa, che molti studiosi hanno attribuito a Gervasio di Tilbury, estensore a inizio Duecento di un atlante testuale di mirabilia tradotto in italiano da Elisabetta Bartoli nel 2009 (Il libro delle meraviglie, Pacini Editore), è diventata più comprensibile grazie alla prima trascrizione dei testi che la circondano, dovuta nel 2007 a Hartmut Kluger e collaboratori, e la Frugoni ci aiuta a farne tesoro riportandone e traducendone i passi più interessanti.
Lo stesso percorso avviene con la più ridotta Mappa di Hereford, conservata ancora in originale, e col mirabile mosaico della cattedrale di Otranto, che era stato oggetto fin dal ’68 di un celebre studio di Frugoni e Settis. Anche qui solo grazie al ricorso ai bestiari si riesce a capire, ad esempio, perché il grande albero di fico che regge il mondo e la storia sia sostenuto da due elefanti, uno dei quali è aiutato da un elefantino sottostante. Secondo il Physiologus, matrice di tutti i bestiari, gli elefanti (qui Adamo ed Eva) dormivano appoggiandosi a un albero perché non avevano articolazioni al ginocchio e, se l’albero veniva abbattuto dai cacciatori, morivano prigionieri del proprio peso, a meno che un cucciolo della stessa specie (simbolo di Cristo che salva l’umanità) non li facesse risollevare con la proboscide.
Il segreto dell’inesauribile fascino del Medioevo è appunto questa vertiginosa pansemiosi del creato, celebrata da Eco nel suo Arte e bellezza nell’estetica medievale, per la quale ogni essere, oggetto, personaggio, episodio o fenomeno è sempre segno di altro e di altro ancora, una macchina generativa che solo la cultura simbolista di fine Ottocento ha saputo riprendere e sviluppare, sia pure su basi completamente diverse.
Il volume si chiude sul tema degli animali pericolosi, che recupera un oggetto privilegiato della ricerca di Frugoni: l’iconografia di san Francesco. In questo caso fulcro dell’indagine è il celebre Fioretto sul lupo di Gubbio, ammansito dal santo a patto che i paesani gli diano da mangiare, «imperocché io so bene che per la fame tu hai fatto ogni male», come efficacemente rappresentato nelle tavole del Sassetta ora alla National Gallery: un giustificazionismo biologico (e, per estensione, sociologico) del male che ancora oggi fa il suo effetto. Ci illumina così, anche oltre l’eccezionalità individuale del poverello di Assisi, sull’alterità di un modello culturale in cui, sia pure su un piano più ideale che pratico, l’armonia degli esseri viventi, nella riconquista di un adamitico linguaggio comune, è un segno di santità – ancora poco esplorato – che attraversa il Millennio, da Antonio abate a Mammes di Cesarea agli eremiti irlandesi o a sant’Eustachio fino appunto all’Umbria francescana.
il manifesto 23.12.18
La scienza non può sembrare un atto di magia
Intervista. Un incontro con il fisico teorico Giorgio Parisi, nuovo presidente dell'Accademia dei Lincei. «Aveva ragione Marcello Cini: la cosa più interessante che abbiamo visto sulla Luna è stata la Terra»
di Andrea Capocci
Giorgio Parisi, professore ordinario alla Sapienza, è uno degli scienziati italiani più riconosciuti al mondo. Ha dato contributi originali e fondamentali in diversi campi della fisica teorica, dalle particelle alla meccanica statistica. I suoi studi sui sistemi magnetici disordinati detti «vetri di spin» (in questi particolari materiali, l’interazione fra atomi vicini è casuale e disordinata; sono stati usati per spiegare i comportamenti del cervello, dei mercati finanziari, delle proteine, ndr) hanno aperto un nuovo campo di ricerca con ricadute in campi lontanissimi. Lo incontriamo nella sontuosa sede trasteverina dell’Accademia a Palazzo Corsini quando ormai è sera e molti impiegati sono già andati a casa.
Potrebbe sembrare una carica onorifica, invece lei si sta impegnando molto nel nuovo incarico. Che indirizzo vorrebbe dare all’Accademia dei Lincei?
L’Accademia ha già diversi compiti istituzionali. Deve fornire pareri scientifici al Presidente della Repubblica e diffondere l’alta cultura. A me piacerebbe rafforzare questo compito, anche usando altri canali: il canale Youtube, per esempio, può allargare la platea delle nostre conferenze. Mi piacerebbe fornire dati accurati su tematiche che interessino anche il grande pubblico. Penso a temi come le droghe leggere, su cui sarebbe utile avere un quadro chiaro delle evidenze scientifiche sui danni a breve e a lungo termine e sui risultati delle sperimentazioni legislative adottate nei vari Paesi.
Nel discorso di inaugurazione ha affermato: «la scienza non deve presentarsi come una magia». Cosa intendeva dire?
Quando la fata di Cenerentola trasforma una zucca in carrozza, parliamo di magia perché non vediamo un nesso razionale tra la bacchetta e la trasformazione della zucca. Ebbene, se nel presentare la scienza si omettono i passaggi intermedi che trasformano un’idea in una verità scientifica, il risultato potrebbe essere simile. Si tratta di rendere chiaro il processo con cui si costruisce il consenso scientifico. Altrimenti si diffonde il complottismo.
Per i suoi settant’anni, l’università ha organizzato una conferenza dedicata ai suoi risultati scientifici, a cui hanno partecipato scienziati di mezzo mondo. Qual è quello più importante, secondo lei?
Innanzitutto, una serie di lavori in fisica delle alte energie fatti con Guido Altarelli negli anni ’70 intorno alla natura dell’interazione forte dei quark (una delle quattro forze fondamentali, ndr). Poi, negli anni ’80, sempre per i calcoli sulla fisica delle particelle, realizzammo a Roma il primo super-computer della serie «Ape».
Fu decisiva l’esperienza di Nicola Cabibbo e la collaborazione con alcuni ottimi laureandi. Per un paio di mesi Ape fu forse il computer più veloce al mondo. Ma i risultati più rilevanti li ho ottenuti nel campo dei sistemi magnetici detti «vetri di spin». Non lo capii subito, ma poi quelle scoperte hanno avuto applicazioni in moltissimi campi, dalle reti neurali allo studio degli algoritmi, dai sistemi granulari fino al «deep learning» che oggi si usa nel settore dell’intelligenza artificiale. È il tema su cui lavoro tuttora.
Esiste un argomento di cui avrebbe voluto occuparsi ma per il quale non ha ancora avuto l’occasione?
L’immunologia: oltre alla curiosità per l’argomento, mi sembra un campo in cui poter usare la «cassetta degli attrezzi» che mi sono costruito nel corso degli anni. Me ne sono occupato per un breve periodo, ma non ho più avuto il tempo di approfondire.
Partiamo dai suoi studi universitari: lei proviene da una famiglia di scienziati?
Mio padre voleva studiare ingegneria. Ma si era diplomato da ragioniere. Non superò l’esame di stato e quindi finì per laurearsi in Economia e commercio. Fisica fu un’idea tutta mia.
Sui primi anni da studente, una volta ha scritto una frase divertente: «Nel 1968 arrivò il Sessantotto». Fu importante?
Quasi nessuno se lo aspettava. È stato rilevante perché ha politicizzato molte persone. Mi colpiva l’atteggiamento violento della polizia, le cariche immotivate. Era una polizia abituata a controllare le manifestazioni degli operai. Ma non sono sicuro che fosse più violenta di quella di oggi.
Il suo impegno politico non si è fermato al 1968. Ha partecipato alla vicenda di Sinistra Ecologia Libertà…
Mi sono impegnato molto tra il 2007 e il 2013. Non avevo una base elettorale, ma mi sono speso finché ho fatto parte dell’assemblea nazionale di Sel. Poi la sinistra italiana ha fatto un errore clamoroso. Dopo la batosta del 2008, si parlò di un nuovo modo di fare politica, di un’apertura alla società civile. C’era la possibilità di occupare lo spazio che poi fu preso dai grillini. Ci si sarebbe dovuti presentare come un partito diverso dagli altri, come poi è riuscito a fare il Movimento 5 Stelle. La sinistra non ha colto un malumore popolare enorme, chiamandolo con disprezzo «antipolitica». In realtà era una richiesta di un nuovo modo di fare politica, ma quella finestra di opportunità è stata persa. Poi ci sono state divisioni e contro-divisioni rancorose poco appassionanti.
Giorgio Parisi
La politica ha influenzato il suo modo di essere scienziato?
Credo che lo spirito del tempo condizioni ciò che pensano le persone. E che la storia delle idee nella fisica non possa essere separata dal resto. È innegabile che le avanguardie moderniste degli anni ’20 e ’30 siano state influenzate dalla rivoluzione della meccanica quantistica, nel loro voler gettarsi alle spalle la tradizione. Ma queste cose è più facile vederle negli altri. Alla complessità ci sono arrivato un po’ per caso. C’era un calcolo che non tornava, e cercai di risolverlo. Per capirne il significato fisico e il legame con i sistemi complessi ci sono voluti molti anni. Fu un tipico caso di «serendipità».
Dopo il 1968, i fisici della Sapienza hanno messo in discussione il ruolo sociale della scienza: basti guardare al gruppo di Marcello Cini e del libro «L’ape e l’architetto», che allora fece scandalo. C’è qualcosa di quel dibattito che si può recuperare oggi?
Nel mio discorso di insediamento ho citato quasi alla lettera una frase de L’ape e l’architetto, ma nessuno se n’è accorto: oggi molte di quelle tesi sono diventate patrimonio comune. Il rapporto tra la scienza, la società e la tecnologia, ad esempio. Che gli scienziati siano immersi nel tessuto produttivo è ormai scontato. Così come l’idea che lo spirito del tempo influenzi anche il pensiero scientifico. O che la scienza vada avanti se la società la sostiene, e non è detto che ciò avvenga.
Nel 1969 Cini fu critico sullo sbarco sulla Luna, mentre tutti lo celebravano. Lei all’epoca non era d’accordo con Cini, ma recentemente ha scritto che aveva ragione…
Dopo il programma Apollo abbiamo smesso di andare sulla Luna. Sembrava che saremmo andati sulla Luna a costruire una base, come in un film di fantascienza. Invece, abbiamo raccolto reperti, abbiamo collocato uno specchio per misurare la distanza con il laser e poco più. Certo, abbiamo fatto delle bellissime foto al nostro pianeta. E sono state molto importanti, perché ci hanno dato un’idea della reale dimensione e della vulnerabilità del nostro pianeta. Per questo aveva ragione Cini: la cosa più interessante che abbiamo visto sulla Luna è stata la Terra.
Corriere 23.12.18
Classici
Ballando con la felicità
Il primo valzer di Natascia in «Guerra e pace»: l’attesa, la paura, l’incontro
Il capolavoro di Lev Tolstoj torna per Einaudi in una nuova traduzione. Il racconto di uno degli episodi chiave
di Giorgio Montefoschi
La sera del 31 dicembre, vigilia del nuovo anno 1810 — così leggiamo nella parte terza del secondo libro di Guerra e pace che in una nuova, magnifica traduzione di Emanuela Guercetti ha da poco pubblicato Einaudi — un grande dignitario dei tempi di Caterina dà un ballo, nel suo palazzo di Pietroburgo, al quale interverranno l’intero corpo diplomatico e il sovrano, Alessandro I. Anche la famiglia Rostov — che per qualche tempo ha temuto di essere esclusa da questo straordinario avvenimento mondano — ha ricevuto l’invito (che è per le ore dieci) e adesso, in casa, l’agitazione è grande. Il conte Il’jà Andrèevic, nonostante la pancia provetto ballerino — come ben sanno tutti coloro, ospiti, parenti, camerieri e cameriere che morendo dal ridere hanno assistito all’assolo in cui si è esibito al termine del pranzo per il compleanno di sua moglie Natal’ja Rostova —, è elegantissimo, con calze lunghe e scarpini, nel suo frac blu. La contessa è quasi pronta. Chi è in tutti gli stati — più ancora di sua cugina Sonja — è Natascia. L’adolescente irruente e allegra coi riccioli neri e gli occhi lucenti che abbiamo conosciuto nei primi capitoli del romanzo, ha ora sedici anni ed è al suo primo ballo. La preparazione va avanti dalle otto di mattina. Le due ragazze, lavate e profumate, devono indossare calze di seta traforate, scarpette di raso bianco con i fiocchetti, abiti uguali di velo su sottogonne rosa, con roselline sul corpetto. La pettinatura deve essere à la grecque . Ma Natascia, che si è data da fare per tutti, è in ritardo. Siede, con uno scialletto sulle spalle magroline davanti allo specchio, i capelli sono in disordine, ha scoperto che la gonna del vestito è troppo lunga e ha ordinato a due ragazze di accorciarla in fretta e furia. E il conte freme. Poi, finalmente ogni problema è risolto e, attenti a non sciupare acconciature e abiti, i Rostov si accomodano nelle carrozze; i cavalli volano sul ghiaccio e arrivano al palazzo del dignitario, illuminato da miriadi di luci, sul lungofiume Anglijskaja; il conte, la contessa, le ragazze consegnano le pellicce e salgono lo scalone, fra gli specchi che riflettono dame in abiti bianchi, azzurri, rosa, con brillanti e perle sulle braccia nude e sul collo; Natascia fa il suo ingresso nel salone da ballo. Com'è bella! Commentano le nobildonne di Pietroburgo. Lei ha i battiti a cento, il sangue le pulsa nel cuore, gli occhi le corrono ovunque e ha l’impressione di non vedere nulla.
Vede, ma non riesce a soffermarsi sull’ambasciatore olandese, l’arzillo vecchietto che dice spiritosaggini alle signore da cui è attorniato, e l’ambasciatore francese. Assiste, come inebetita, all’ingresso nel salone di Hélène Kuragin, la donna più ambita di Pietroburgo, ora moglie di Pierre Bezuchov: dunque contessa Bezuchova, splendida questa sera nella scollatura che le scopre quasi interamente le spalle piene e il morbido seno, ed è seguita dal fratello Anatole Kuragin, l’angelo del male in divisa da cavaliere della guardia, il portamento eretto, lo sguardo rivolto al di sopra delle donne e delle ragazze che lo ammirano. Vede con gioia, perché questa è una faccia che conosce, Pierre Bezuchov fendere la folla, dondolando col suo grasso corpo, salutando a destra e a sinistra con la medesima «negligenza e bonarietà con cui avrebbe camminato fra la calca del mercato», e subito dopo identifica nel «giovane bruno di media statura, molto bello, in uniforme bianca» con cui Pierre sta parlando vicino a una finestra, il principe Andrej Bolkonskij. Vede, guarda, riconosce, ma non le basta; l’eccitazione la travolge; senza sapere esattamente cosa, vorrebbe di più. Quand’ecco che, all’improvviso, qualcosa si muove, la gente si ammassa e si divide in due ali, e nel salone da ballo, contornato dai suoi dignitari, entra il sovrano.
Che prodigio letterario, questo ballo! Il lettore che, attualmente, nell’edizione Einaudi, si trova a pagina 593 del romanzo e di pagine dovrà leggerne ancora mille, già sa parecchie cose di quasi tutti i personaggi che Tolstoj ha riunito nella fastosa occasione mondana, dedicando a ciascuno la pennellata veloce di un ritratto. Pierre Bezuchov lo ha seguito spaesato, incapace di pensare, nell’immenso palazzo in cui suo padre sta morendo, circondato dagli sciacalli appostati nei salottini in attesa dell’ultimo respiro per conquistare una fetta della colossale eredità, tra i quali primeggia il principe Kuragin, padre di Hélène - e ha dovuto partecipare al penoso fidanzamento «combinato» di Pierre e Hélène. Di Hélène conosce il fascino dissoluto. Dei Rostov sa tutto. Andrej Bolkonskij lo ha visto insieme alla piccola moglie grassottella, Lise, che ha una leggera peluria sul labbro superiore e lui non ama; lo ha visto combattere coraggiosamente, e rimanere ferito, nella battaglia di Austerlitz; lo ha visto tornare alla casa paterna, dove è rimasta Lise, che è incinta e nel parto morirà; finalmente, lo ha visto a Otradnoe, la tenuta di campagna dei Rostov, in cui è giunto per delle pratiche amministrative, e ha assistito alla meravigliosa scena notturna — simile a quella che ha per protagonista la Tatjana dell’Onegin di Puškin — nella quale la ragazzina coi capelli e gli occhi neri già incontrata all’arrivo sul viale, è affacciata alla finestra proprio sopra la sua, e canta, non vuole andare a letto, ammaliata dalla bellezza immobile della natura nel chiarore lunare, vorrebbe star lì per sempre.
Adesso, quella ragazzina, Natascia Rostova, impaziente di essere inviata a ballare — perché il sovrano ha dato inizio alle danze — ascoltando le note della polacca è sull’orlo delle lacrime, si dispera: «Possibile che nessuno mi si avvicini, possibile che io non sia fra i primi a ballare, possibile che non mi notino tutti questi uomini che sembrano non vedermi…». Intanto è iniziato il valzer; un aiutante di campo dello zar si avvicina alla contessa Bezuchova e, con consumata maestria, le cinge le spalle; e davvero, sospinta da quella musica struggente, Natascia sta per piangere, quando, come per miracolo, le si avvicina Andrej. È stato Pierre, il suo amico, a suggerirgli l’invito: «Qui c’è la mia protégé, la giovane Rostova, invitatela». Bolkonskij si inchina di fronte a Natascia; le dice che già una volta si sono visti; le propone un giro di valzer.
«Da tanto ti aspettavo», sembra dire il sorriso con il quale la bambina spaventata e felice posa la mano sulla sua spalla. Il collo e le braccia nude, i seni acerbi sono magri e brutti in confronto alle spalle di Hélène: Natascia — scrive Tolstoj con una intuizione sublime nella quale è concentrata la dinamica sentimentale di Guerra e pace — sembra una bambina che è stata spogliata per la prima volta, «e che si sarebbe vergognata molto, se non le avessero assicurato che così doveva essere». Ma Andrej, da uomo di mondo, ama incontrare persone che non appartengono alla mondanità, e Natascia, con la sua timidezza, la sua gioia, il suo stupore, lo commuove. I due fanno un ballo dopo l’altro; Andrej rivela a Natascia che nella notte di Otradnoe ha ascoltato la sua voce incantata dal paesaggio lunare e lei arrossisce; se non ballano, stanno seduti vicino, e lui le parla con dolcezza e premura; parte un cotillon e loro partecipano al cotillon; tornano a sedersi in attesa della cena che sarà verso le due (una cena coi candelieri sfavillanti, il caviale, gli storioni, la vodka, i più pregiati vini di Francia, alla quale ogni lettore moderno che si è rammaricato di non aver potuto stringere fra le braccia la ragazzina col velo bianco e la sottogonna rosa, ugualmente si rammarica di non esser stato presente); Andrej decide: la sposerò; quando il conte Rostov intercetta sua figlia ansimante e le chiede se è felice, lei risponde: «Mi diverto come mai in vita mia!».
Perché il cuore le batte. Ma stavolta non batte per il timore di essere ignorata. Le batte per il desiderio d’amore che le corre nel sangue: per quel mistero. Così, succede che battendo all’impazzata questo cuore comprime ogni spazio del grande salone; schiaccia al muro i personaggi che già conosciamo e daranno anima e vita al capolavoro assoluto della letteratura moderna; concede loro appena qualche riga. C’è solo Natascia (e con lei Andrej) in questa scena centrale del romanzo in cui tutti gli altri scompaiono, o quasi: «Sperimentava — scrive Tolstoj — quel grado supremo di felicità, quando una persona diventa perfettamente buona e gentile e non crede alla possibilità del male, dell’infelicità e del dolore».
Corriere 23.12.18
Il duplice capolavoro di Augusto
Costruì l’Italia e rigenerò Roma
Un leader accorto e pragmatico, abilissimo nell’arte della comunicazione
Con il principato realizzò un cambio di regime proiettato verso il futuro
di Livia Capponi
Le origini
Adottato dal prozio Giulio Cesare, alla morte del condottiero
diventò «Divi filius»
Propaganda
Impersonò la lotta dell’Occidente contro un Oriente visto come
dispotico e barbaro
«Camaleonte» fu il soprannome affibbiatogli nel IV secolo dall’imperatore Giuliano, mentre per lo storico Ronald Syme era uno showman, un personaggio dotato di eccezionali doti organizzative e un grande senso dello spettacolo. Per Cicerone, il giovane Gaio Ottavio, nato a Roma da famiglia non illustre, era il «ragazzo che deve tutto al suo nome»: adottato dal prozio Giulio Cesare, alla sua morte diventò Divi filius cioè «figlio del divino», formula che tradotta in greco suonava come «figlio di dio». Dal 27 a.C. gli fu conferito il nome di Augusto, in onore della sua auctoritas, nozione affine ad «autorità» o, se si preferisce, «autorevolezza», comunque extra-costituzionale. Proclamatosi il difensore della Repubblica contro la monarchia di Marco Antonio e Cleopatra, iniziò di fatto un regime completamente nuovo, il principato, in cui al Senato era affiancato, in una sorta di partnership, il princeps, cioè il «primo cittadino». Portatore di valori quali la moderazione, la guerra al lusso, il rilancio della religione, l’attenzione alla demografia e alle esigenze alimentari e sociali della città, diede il via a una reinvenzione della tradizione, che non mirava solo a soddisfare bisogni presenti, ma progettò consapevolmente un futuro straordinariamente longevo.
La guerra civile non fu solo scontro militare, ma anche battaglia d’idee, dèi e immagini. Ottaviano, presentandosi come protetto da Apollo contro Antonio e Cleopatra, equiparati a Dioniso-Afrodite e Osiride-Iside, impersonò la lotta dell’Occidente contro un Oriente dipinto come monarchico, animalesco, ignorante di istituzioni e leggi, e convinse i suoi concittadini che lo scontro fosse necessario per la sopravvivenza di Roma. Vincitore ad Azio (31 a.C.) grazie soprattutto al valore del suo ammiraglio Agrippa, fornì il resoconto ufficiale del suo operato nelle Res Gestae («I miei atti»), singolare testamento politico diffuso in tutto l’impero, perché s’imprimesse nella memoria dei posteri. «Tutta l’Italia giurò spontaneamente fedeltà a me e chiese me come comandante della guerra in cui vinsi presso Azio. (…) Dopo aver sedato l’insorgere delle guerre civili, assunsi per consenso universale il potere supremo, e trasferii dalla mia persona al Senato e al popolo romano il governo della Repubblica». Esagerazioni, forse, ma non così lontane dalla verità, sostiene Arnaldo Marcone nel volume Augusto, in uscita con il «Corriere» il 27 dicembre.
Coniugando flessibilità e pragmatismo, Augusto assestò il suo potere attraverso una dialettica fra diverse componenti sociali e una sapiente gestione della comunicazione, dell’arte e della religione, quest’ultima da intendersi come ritualità pubblica, non come fede o dogma. Bollare il tutto come propaganda è riduttivo. Le contraddizioni esplosero al momento della successione: quando il potere passò, seppure con i crismi della legalità, al figlio adottivo, Tiberio, fu chiaro a tutti che era ormai iniziato un nuovo regime, che Marcone definisce una «monarchia militare mascherata», e i cui successivi esponenti si dimostrarono quasi sempre inferiori al primo.
Uomo poliedrico e attento all’immagine, si fece raffigurare a Roma come generale vittorioso (Prima Porta) e pontefice massimo solenne e pio (Via Labicana), all’estero secondo il gusto locale, per esempio come faraone in Egitto, o invincibile signore di terra e mare ad Afrodisia in Turchia. Scelse di abitare senza sfarzi in una casa modesta, ma come un «secondo Romolo» la volle sul Palatino, sede dei leggendari inizi di Roma, ora nobilitati dall’opera dell’amico Virgilio. Al contempo, rivoluzionò la città, trasformandola in una capitale senza pari: «Ho trovato una città di mattoni, ve la restituisco di marmo». Diffondendo storie sul suo concepimento da parte di Apollo e pubblicando il suo oroscopo, creò l’idea che il suo futuro fosse scritto nelle stelle. L’obelisco in piazza Montecitorio, gigantesco gnomone di una altrettanto immensa meridiana, puntava la sua ombra sull’Ara Pacis nell’equinozio d’autunno, giorno del suo compleanno.
Il principato di Augusto è oggi valutato più positivamente che in passato, anzitutto come costruzione dell’Italia tutta (non più solo di Roma e del Lazio) come entità etnico-morale fatta di popoli diversi ma consanguinei, in costante dialogo con il mondo greco. Inoltre, il governo delle province si distinse perché non arbitrario e autocratico; il rifiuto di Augusto di un culto esplicito della sua persona, almeno a livello ufficiale, è coerente con tale scelta. Lo slogan di aver «restituito la Res publica», servì non tanto a ripristinare le istituzioni repubblicane, incompatibili con uno Stato così esteso, ma a far emergere una visione ecumenica del dominio territoriale di Roma: un governo regolato non più da capifazione in lotta perenne, ma attraverso una classe dirigente fatta di magistrati competenti e affidabili, secondo norme certe, che dovevano essere di garanzia per i cittadini e per i provinciali, minoranze etniche comprese. Legalità e competenza: due aspetti dell’eredità di Augusto validi ancora oggi.
Corriere La Lettura 23.12.18
Non esistono lingue geniali
Geniali sono i loro autori
Greco e latino non sono gli idiomi più intelligenti (e belli), come dicono Andrea Marcolongo e Nicola Gardini. Sono, piuttosto, quelli che hanno veicolato alcuni tra i testi più belli (e intelligenti) della storia grazie a Platone, Tacito...
di Marco Passarotti
Ciclicamente si ripropone in Italia la discussione sull’opportunità dell’insegnamento del greco e del latino al liceo Classico. Nel dibattito s’innestano diverse questioni. Una delle più frequenti, e tediose, solleva il presunto problema dell’utilità delle cosiddette lingue classiche. In vero, tutte le diatribe in merito sembrano ridursi ai diversi intendimenti che gli interlocutori hanno del termine «utilità». Ai due estremi opposti stanno gli accesi sostenitori di una scuola formativa di sole competenze immediatamente spendibili nella vita lavorativa e i convinti difensori dell’apprendimento delle lingue classiche quale strumento principe di accesso a ogni forma di conoscenza. Se i primi, iperrealisti, finiscono per ridurre tristemente l’esistenza a una serie di capacità professionali, i secondi, iperclassicisti, corrono il rischio di esaltare le lingue classiche al punto d’isolarle in una distante torre d’avorio. Gli iperrealisti considerano il greco e il latino alla stregua d’anticaglia da museo, mentre gli iperclassicisti finiscono per reputarle le lingue più belle della storia.
Ora, è facile portare argomenti contro gli iperrealisti, le posizioni dei quali si scontrano con l’esperienza di migliaia di italiane e italiani che hanno tanto beneficiato dall’aver letto Platone e Catullo in lingua originale sugli scalcinati banchi dei licei nazionali. Gli iperclassicisti sono, invece, più complessi da sgominare, perché sembrano avere pienamente ragione, al punto che a prima vista io stesso mi direi membro della compagnia, che di recente si è rafforzata grazie ai volumi di Andrea Marcolongo (La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco) e di Nicola Gardini (Viva il latino. Storie e bellezza di una lingua inutile, seguito da Le 10 parole latine che raccontano il nostro mondo). Tutto bene finché si tratta di difendere e diffondere l’apprendimento rigoroso del greco e del latino, quale condizione per apprezzarne i testi; tuttavia, pur nella sperticata lode della formazione classica e proprio per preservarla, bisogna evitare di cristallizzare il greco e il latino in una (ir)reltà favolosa e intatta. Il rischio è scadere nella sublimazione delle lingue classiche come modelli di bellezza irraggiunti e irraggiungibili. Eppure, se c’è un campo dove si deve essere relativisti, è proprio quello linguistico: non ha alcun senso sostenere che una lingua sia più bella di un’altra. Ciò non tanto per una forma perversa di pari opportunità o egualitarismo culturale, quanto per rispetto della corretta prospettiva di osservazione della questione.
Il greco e il latino non sono le lingue più belle (o geniali) della storia, semplicemente perché la competizione non si deve proprio porre, ma sono quelle che hanno veicolato alcuni dei testi più belli (e geniali) della storia, così importanti da aver costituito le fondamenta stesse del pensiero occidentale. Le lingue classiche sono strumenti che hanno beneficiato di testimonial strepitosi: Platone e Aristotele, Sofocle ed Euripide, Catullo e Properzio, Seneca e Tacito. Ciò che di quelle lingue antiche è giunto fino a noi, attraverso secoli di selezione, rappresenta quanto di meglio alcuni dei massimi autori della storia hanno prodotto. Costoro seppero sfruttare al massimo le potenzialità loro consentite dallo strumento che avevano tra le mani, fosse esso la lingua greca o latina. Dunque, ad essere belli non sono il greco o il latino, ma i testi scritti in greco o in latino. Non si confonda lo strumento con l’uso che si fece di esso.
Sembra una questione di accademica lana caprina: non lo è. Considerare il greco e il latino alla stregua d’intoccabili lingue-modello finisce per comportare che esse vadano trattate con una riverenza particolare. Ne consegue una sorta di conservatorismo scientifico che paradossalmente manca di rispetto nei confronti proprio dei testi classici, contribuendo, ad esempio, a determinare una certa arretratezza nello sviluppo e, soprattutto, nell’utilizzo e nell’insegnamento di metodi e strumenti per il loro trattamento automatico a computer. Uno dei tratti caratterizzanti la ricerca del XX secolo è stata, infatti, la miniaturizzazione del livello di analisi. Si pensi alla fisica, alla biologia, o alla chimica: nuovi strumenti, come il microscopio, consentirono di entrare per la prima volta nell’intimo degli oggetti da indagare.
In ambito umanistico e specialmente linguistico, filologico e letterario, questo significa usare metodi e strumenti per gestire e maneggiare i dati testuali a un livello sia quantitativo che qualitativo impossibile prima dell’avvento del computer, permettendo così di guardare ai testi greci e latini da una prospettiva nuova e, in ultima istanza, di conoscerli e comprenderli meglio. Eppure proprio i classicisti sono stati tra i primi a rendersene conto, se è vero che uno dei pionieri della disciplina dedicata al trattamento informatico dei testi fu un gesuita italiano, Roberto Busa, che trasferì su supporto elettronico (oggi diremmo digitale) tutte le opere, in latino, di Tommaso d’Aquino. E ancora sono stati i classicisti a sviluppare alcune delle più importanti biblioteche digitali, come Perseus, che raccoglie e mette a disposizione online centinaia di testi greci e latini. Ma questo è stato il Novecento, che in tale settore fu il tempo della semina: ciò che oggi ancora manca è la raccolta dei frutti di quel lavoro, ovvero un utilizzo di questa grande massa di dati che vada oltre la semplice estrazione delle occorrenze delle parole dai testi. L’applicazione di strumenti di trattamento automatico del linguaggio ai testi greci e latini, così come l’uso di metodi computazionali e di risorse linguistiche avanzate restano ancora relegati nei laboratori d’informatica umanistica e linguistica computazionale, senza esercitare un reale impatto sul complesso della comunità dei classicisti e, di conseguenza, su quegli studenti di Lettere Classiche che saranno i ricercatori del futuro. Anzi, l’approccio computazionale all’analisi del greco e del latino viene spesso guardato con scetticismo dai valorosi difensori dell’alterità delle lingue classiche, quasi che esse, proprio in quanto superiori, non meritino di venire martirizzate dai computer, considerati non tanto validi alleati al lavoro di ricerca quanto grevi bulldozer che schiacciano le delicate e gentili scienze umanistiche, di cui gli studi classici sono reputati essere la massima espressione.
Smettere di relegare il greco e il latino in un Olimpo linguistico ideale significa supportarne lo studio, anche rendendo abituali nella vita dell’insegnante e del classicista metodi e strumenti di analisi computazionale sullo stato dell’arte. Perché una ricerca che si bea di essere conservativa, rifiutando d’innovarsi in nome di una presunta superiorità del proprio oggetto d’analisi, semplicemente non è una buona ricerca.
Corriere La Lettura 23.12.18
Vietnam
Un eterno ritorno
«Finora ci si concentrava sul ruolo degli Usa ma quella fu la tragedia di una nazione: 40 vietnamiti morti per ogni americano caduto»
«L’America allora commise lo stesso errore che poi ha ripetuto in Iraq e Afghanistan: disprezzare chi pretendeva di aiutare»
di Luigi Ippolito
Per il «Sunday Times» è il libro di storia del 2018: uscito subito dopo l’estate, Vietnam. An Epic Tragedy 1945-1975 di Max Hastings ha rapidamente scalato le classifiche dei bestseller britannici. Un volume ampio, salutato come uno dei lavori definitivi sul conflitto in Indocina: un’opera in cui si intrecciano decisioni politiche, operazioni belliche ed esperienze umane. Hastings, già direttore di giornali e commentatore politico, è soprattutto uno storico militare: ma da giovane reporter della Bbc aveva vissuto in prima persona il conflitto in Vietnam e assistito alla caduta di Saigon.
Perché tornare oggi a rivisitare quella guerra?
«Molti libri scritti finora si concentrano sul ruolo degli americani, ma a me sembrava che fosse la tragedia di una nazione: 40 vietnamiti sono morti per ogni americano caduto. Adesso c’è una sufficiente distanza e sappiamo molte più cose. Per esempio, Nixon e Kissinger credettero fino alla fine che Mosca tirasse le fila del conflitto e desse ordini ad Hanoi: non era così, per i sovietici il Vietnam era una distrazione. Inoltre si pensava che Ho Chi Minh dirigesse il Nord, ma lui era soltanto una figura rappresentativa, il vero potere era nelle mani di Le Duan. Che era un esperto rivoluzionario, un fanatico del tutto indifferente all’enorme costo che la guerra infliggeva al suo Paese. Infine mi sono interessato alle vittime, specialmente alle donne».
La stagione del Vietnam fu anche quella delle proteste pacifiste negli Usa e nel resto dell’Occidente.
«Quelli che protestavano avevano ragione a dire che la guerra era un disastro, ma sbagliavano a pensare che, se la causa americana era sbagliata, l’altra parte fosse quella giusta».
Lei infatti nel suo libro sta attento a non dare un’immagine romantica dei vietcong.
«I vietcong erano spietati rivoluzionari comunisti, seppellivano la gente viva… Ho Chi Minh non era affatto “il buon zio Ho”, uccisero migliaia di persone della loro stessa gente. Non che gli americani fossero eroi, ma la verità sta nel mezzo».
Perché la definisce una tragedia epica?
«Fu una guerra di dimensioni epiche per l’enorme perdita di vite umane, molte di più che in Iraq o in Afghanistan o in Siria. E fu una tragedia perché non era una guerra necessaria».
Ma perché gli americani spesero 150 miliardi di dollari e persero 58 mila soldati se la guerra non era necessaria?
«Ho vissuto in America nei primi anni Sessanta e a loro sembrava che nulla fosse impossibile per la potenza degli Usa: l’idea che un pugno di guerriglieri comunisti male in arnese potesse resisterle appariva folle. E bisogna ricordare che la minaccia comunista mondiale negli anni Quaranta e Cinquanta era una cosa reale, non immaginaria. Ma l’errore americano fu di vederla dovunque e non guardare a ogni società in maniera diversa. Credevano che ciò che accadeva in Vietnam fosse provocato da Cina e Russia: non era così».
Dunque una guerra sbagliata.
«Gli americani non volevano nulla di male per il Sud Vietnam, volevano dargli libertà e democrazia: ma era folle pensare che potessero ottenerle mandando soldati e bombardando chiunque obiettasse. I comunisti erano sempre in grado di rammentare quanto fosse umiliante essere occupati dagli americani. Tutti al Sud sapevano che i leader di Saigon non potevano alzarsi dal letto la mattina senza chiedere prima agli americani da che lato scendere... E poi c’era il disprezzo razziale con cui gli americani trattavano i vietnamiti. Il Nord prevalse non tanto perché fossero brillanti soldati, ma perché erano patrioti vietnamiti. Ho Chi Minh, sconfiggendo i francesi, aveva ottenuto il monopolio sul nazionalismo vietnamita e il prestigio della vittoria. Al contrario, molti del regime sudvietnamita erano stati al servizio dei francesi. Inoltre i comunisti promettevano una rivoluzione che avrebbe scacciato proprietari terrieri e stranieri: erano vestiti con pigiami e sandali, mentre quelli del Sud andavano in giro sulle Mercedes e portavano gioielli».
Insomma, gli americani erano dal lato sbagliato della storia.
«Lo erano. Ma l’ironia è che oggi sono finiti dal lato giusto della storia per ragioni economiche e culturali. Se guardiamo oggi al Vietnam, si sono molto americanizzati: dove il potere militare ha fallito, YouTube si è dimostrato irresistibile. Gli americani hanno vinto alla fine sul piano culturale, anche se non su quello politico».
Un errore usare le bombe invece della Coca-Cola.
«È un errore la fede esagerata nel potere militare. Ho passato la vita a scrivere di guerre, ma, a questo punto della mia carriera, ho capito che la forza militare è solo un elemento: spesso va impiegata, ma devi guardare anche al resto. I generali sono addestrati a uccidere la gente, ma non sanno niente delle persone e delle altre culture. Puoi andare avanti a uccidere i cattivi all’infinito, ma non concluderai nulla. Il modo in cui gli americani trattavano i vietnamiti rendeva infelici anche coloro che odiavano i comunisti. E questi ultimi erano molto più bravi degli americani a conquistare i cuori e le menti. Una volta viaggiavo su un convoglio motorizzato, aveva piovuto e c’era quel fango terribile dappertutto: correvamo sollevando montagne di fango e ogni volta che passavamo accanto a un contadino con i suoi bufali lo sommergevamo. Può sembrare una cosa stupida, ma come ti potevi aspettare che quell’uomo simpatizzasse per gli americani? E lo facevano tutti i giorni…».
Una lezione valida anche per oggi...
«Lo vedo ancora succedere in Iraq e in Afghanistan: finché non impariamo a trattare la gente con rispetto, non c’è speranza che la forza militare possa prevalere. La lezione vitale del Vietnam è che se non riesci a impegnarti culturalmente e politicamente, puoi mandare tutti i soldati che vuoi, ma non serve a niente. Sono giunto a questa ferma convinzione riguardo agli interventi occidentali in Paesi lontani: non sono affatto un pacifista, ma a meno che non riesci a stabilire una connessione con la società, l’aspetto militare è perdente».
Quanto ha inciso nel libro la sua esperienza personale al fronte?
«Non ne parlo direttamente, ma quando scrivo so come stavano le cose. Ricordo quando ero sporco e sudato nella giungla con le truppe e c’era quel momento magico in cui venivi portato su in salvo da un elicottero. C’era questa straordinaria combinazione di stupefacente bellezza naturale e terribili orrori causati dagli uomini. Un giorno, la mattina molto presto, all’alba, una di quelle favolose albe rosse asiatiche, ero sulla pista di decollo della base e vidi tutti gli equipaggi correre verso gli elicotteri, con l’alba sullo sfondo: e quei 50 elicotteri avviarono i motori e le eliche, nella posizione di decollo, col muso abbassato, e si sollevarono contro l’alba. Non solo era incredibilmente bello... Anche se razionalmente sapevo che gli americani stavano perdendo la guerra, quando vedi 50 elicotteri decollare in quel modo, pensi: come possono perdere? Se poi sei un generale, è così facile innamorarti del tuo potere» .
Corriere La Lettura 23.12.18
Scenari
Musulmani in fuga dalla Birmania: una crisi, tre fronti
La persecuzione dei rohingya ha radici antiche che forse spiegano i silenzi di Aung San Suu Kyi. Nuovi volumi indagano
di Marco Del Corona
Dalla fine dell’agosto 2017 si calcola che più di 670 mila musulmani rohingya abbiano lasciato il Myanmar (la ex Birmania) per trovare rifugio in Bangladesh, scampando a eccidi, violenze e villaggi incendiati. Le autorità di Dacca dicono di averne accolto quasi un milione e 100 mila mentre il governo birmano ammette che il 90% della popolazione musulmana delle tre province più settentrionali dello stato di Rakhine se n’è andato. I morti, soprattutto: Medici senza Frontiere stima che almeno 6.700 siano le vittime rohingya delle violenze etniche. Le cifre rendono a malapena una tragedia che destabilizza la regione, turba le opinioni pubbliche e ha già compromesso il prestigio di Aung San Suu Kyi, il premio Nobel per la pace al governo in Myanmar, accusata prima di insensibilità verso la minoranza rohingya e poi di connivenza con la repressione dei militari e con i raid degli estremisti buddhisti.
Il disastro del Rakhine covava ben prima dello stupro e dell’omicidio di una sarta buddhista che, nel giugno 2012, scatenò la più recente ondata di pogrom antislamici. La crisi, etnico-politica e umanitaria, ha già rallentato la transizione del Myanmar alla democrazia dopo decenni di dittature militari, un passaggio al quale l’Occidente ha guardato con un ottimismo eccessivo: una benevolenza alimentata, peraltro, dall’appetito per le risorse naturali del Paese, per la sua posizione strategica e la manodopera a basso costo. Le diplomazie assistono impotenti o incapaci, le raccomandazioni del 2017 della commissione guidata da Kofi Annan restano di fatto lettera morta. Tuttavia «la violenza nel Rakhine non si attaglia allo schema netto ma semplificatore dei militari cattivi contro i civili buoni», avverte Francis Wade. Il suo Myanmar’s Enemy Within (2017) è uno dei libri che affronta la questione. Non solo indaga l’affermarsi di movimenti buddhisti estremisti e antislamici come il Ma Ba Tha (attivi ben oltre il Rakhine e non solo contro i rohingya), ma osserva come nel Paese «la storia della transizione abbia a che fare, più di ogni altra cosa, con il senso di identità e di appartenenza». E anche gli ancora più recenti saggi di Azeem Ibrahim (The Rohingyas, nuova edizione) e di Anthony Ware e Costas Laoutides (Myanmar’s «Rohingya» Conflict, dal quale sono tratti i dati citati in apertura) si muovono su questa linea provando a spiegare un conflitto «intrattabile».
Azeem Ibrahim, accademico con trascorsi ad Harvard e Yale, parla di genocidio tout court. «La persecuzione dei rohingya — nota — è stata pianificata in modo deliberato dallo Stato fin dagli anni Sessanta», cioè da quando, con il golpe di Ne Win (1962), la Birmania inaugurò un quarantennio di regimi xenofobi. Fu allora che venne sancita l’esclusione dei rohingya dalle 135 etnie ufficialmente riconosciute. Ibrahim sostiene che Aung San Suu Kyi non abbia mai preso le distanze dagli abusi nei confronti dei musulmani del Rakhine perché origini e ideologia della sua Lega nazionale democratica (Nld) non sono poi tanto diverse da quelle delle forze armate e del loro partito (Usdp). Si tratta — sostiene Ibrahim — di formazioni figlie di un’élite urbana senza legami con campagne e strati popolari, trasformatesi in «partiti etnici», espressione del gruppo egemone birmano (bamar). Tant’è vero che, con le elezioni democratiche del 2015, «per la prima volta dall’indipendenza, in parlamento non siede neppure un deputato musulmano», a prescindere dall’etnia di appartenenza. Lo stesso clero buddhista, già dalle manifestazioni per la democrazia represse nel sangue nel 1988 e nel 2007 alle quali aveva partecipato, si è via via radicalizzato. Arrivando a far coincidere fede e cittadinanza e «accordando un minor valore a ogni non-buddhista» (questo soprattutto racconta Wade).
Ware e Laoutides, accademici attivi sul campo, si impongono uno sforzo di equilibrio. Insistono: in Rakhine i legami con il potere centrale sono sempre stati difficili anche per i buddhisti. I birmani infatti sottomisero il regno indipendente e multiconfessionale del Rakhine solo nel 1784, anno del primo esodo di musulmani (altri seguirono nel 1942, nel 1978 e nel 1991-92). Durante la Seconda guerra mondiale, poi, rohingya musulmani e rakhine buddhisti combatterono su fronti opposti, i primi con i britannici, i secondi con i giapponesi. Una storia di frammentazione, dove non vanno dimenticate la «rabbia profonda, persino l’aperta violenza fra rakhine e rappresentanti dello Stato birmano». Il Rakhine, dunque, conosce un «conflitto multipolare» che coinvolge la popolazione buddhista locale (i rakhine, appunto, ben distinti dai bamar della Birmania centrale), quella musulmana (le cui tracce risalgono all’anno Mille, in opposizione alla propaganda secondo la quale sono immigrati recenti) e il potere centrale, incarnato soprattutto dall’esercito (Tatmadaw). Ciascuno dei tre gruppi ha una sua «narrazione» da difendere: l’«origine» per i rohingya (avere pieno titolo, cioè, per essere cittadini del Myanmar), l’«indipendenza» per i rakhine (che aspirano a una forte autonomia, se non alla sovranità) e l’«unità» nazionale per i birmani.
Signori coloniali dal 1826 al 1948 della Birmania (che fino al 1937 era parte dell’India), i britannici ci hanno messo del loro, introducendo «la distinzione fra gruppi autoctoni e non» e, con questa, «divisioni ancorate alle nozioni europee di razza, confine e territorialità» che mal si conciliavano a un universo di identità «fluide, porose e flessibili». Anche di fronte alle cruente azioni armate dell’esercito e delle milizie etniche (l’«Aa» dei rakhine e l’«Arsa» dei rohingya), lo status burocratico dei rohingya rischia così di apparire il corollario a una questione di metodo più rilevante, perché «è importante trattare l’“etnicità” — scrivono Ware e Laoutides — come categoria pratica e sociale, non entità definita e statica prodotta da un’appartenenza netta»: in un conflitto «sono più spesso i gruppi organizzati e non le “etnie” a essere implicati in azioni violente». C’è posto per tutti, in Myanmar. E per cominciare a disinnescare il dramma (forse) occorre riconoscerne la complessità: «Non si tratta di un conflitto sulla cittadinanza negata, sulla non appartenenza a uno Stato, sugli interessi economici, l’identità, l’etnia o il territorio in sé. Piuttosto riguarda in primis la possibilità dell’inclusione, in termini di parità, dei rohingya e (in misura minore) dei rakhine nella comunità politica dell’Unione del Myanmar». Un posto dove stare, un nome da portare.
Corriere La Lettura 23.12.18
Il virus della Rivoluzione
Nel 1787 un morbo sconosciuto contagia l’aristocrazia parigina, i nobili cominciano ad assassinare cittadini comuni, il dottor Guilliottin indaga ma il popolo furibondo prepara la ribellione
Netflix prepara “Sangue blu”
di Stefania Carini
È il 1787, e una serie di omicidi turba il sonno dei francesi. A indagare sul caso viene chiamato Joseph Guillotin, medico e futuro ispiratore — soprattutto nel nome — della ghigliottina. Durante l’inchiesta, Guillotin scopre l’esistenza di un misterioso virus, chiamato Sang Bleu: si diffonde con rapidità tra i nobili inducendoli a uccidere persone comuni. Il virus, presto, condurrà alla ribellione.
«E se la Rivoluzione francese non fosse avvenuta nel modo in cui ci è stato raccontato?»: sembra l’affermazione di qualche sito complottista, ma si tratta solo della frase di lancio della prossima serie che Netflix produrrà nel 2019 in Francia. Creata da Aurélien Molas, scritta da quest’ultimo assieme a Gaia Guasti, sarà composta da otto episodi da 50 minuti ciascuno. Così ha spiegato Erik Barmack, vice president international originals di Netflix: «Siamo entusiasti di offrire alla Francia e a un pubblico internazionale una serie ispirata a un momento così decisivo della storia». Tutto da verificare se la sua uscita susciterà un nuovo dibattito intorno a uno degli eventi cruciali dell’Occidente. La serie è una chiara rielaborazione fantastica, tanto che a confronto l’anime giapponese dedicato allo stesso tema, Lady Oscar, capace di influenzare l’immaginario di un’intera generazione negli anni Ottanta, sembra un raffinato trattato storiografico.
Dai romanzi al cinema, dalla televisione al fumetto fino ai media digitali: quando finzione e storia si incontrano il risultato scatena interpretazioni, riflessioni e polemiche. La storia è pur sempre una storia, una narrazione del passato frutto di ricerche e interpretazioni. Che cosa accade quando incrocia le esigenze di un’altra narrazione, quella basata sull’intrattenimento, anche nel senso più alto del termine, con regole proprie legate al media che la ospita?
Ne I Medici, serie di Raiuno, ci sono alcune deviazioni rispetto ai fatti reali, introdotte per ragioni stilistiche e drammaturgiche. Perché l’obiettivo primario di questi prodotti è, appunto, l’intrattenimento, non la ricerca scientifica. Eppure ambiscono a illuminare in maniera nuova certi aspetti del passato. Né, d’altra parte, gli accademici sono del tutto al riparo da errori e distorsioni. Tanto gli storici quanto gli scrittori-sceneggiatori lavorano sulle fonti, le interpretano, danno loro «forma narrativa». La separazione dei ruoli non è più così netta. Come se non bastasse, sempre più spesso gli storici sono anche consulenti, a loro volta autori, scrittori.
Il dibattito non è nuovo, ma si completa di nuovi tasselli di anno in anno, di titolo in titolo, di media in media. The Big Historical Fiction Debate si è svolto questo mese a Londra, durante l’HistFest (dal 7 al 9 dicembre), festival che ha mescolato diversi aspetti di quello che significa oggi «fare la storia». Il panel citato si chiedeva se la fiction storica avesse o meno delle responsabilità nei confronti dei fatti storici. È sempre giusto «giocare» con il passato che conosciamo? Come sceneggiatori e scrittori affrontano la complessità della storia? Il dibattito era moderato da S. J. Parris, autrice di thriller storici dedicati a Giordano Bruno, e comprendeva tra gli altri Stephen McGann (autore di saggi dedicati alla ricostruzione storica dei casi medici affrontati nella serie Bbc Call the Midwife), Hallie Rubenhold (scrittrice e storica le cui ricerche sui costumi sessuali inglesi, Jack lo squartatore e la Rivoluzione francese sono alla base di libri, documentari e serie tv) e Judith Flanders (storica e scrittrice, consulente per il videogioco Assassin’s Creed).
La diversità di temi, approcci e media dà la misura di come l’intreccio fra storia e narrazione sia una costante, ed emerga anche in territori spesso poco esplorati. Anche perché i media sono storia in un’accezione ampia del termine. Come sottolineato da diversi teorici dal secondo dopoguerra in poi (come Marc Ferro e Pierre Sorlin con le loro analisi sul cinema), i media sono una fonte storica non solo quando registrano il reale, ma anche quando raccontano storie di pura finzione. Il nostro immaginario, infatti, non solo rappresenta la nostra realtà, ma ne fa parte concretamente. I media mostrano un modo di vedere di una società e quello che quest’ultima ritiene rappresentabile. Allo stesso tempo ne rivelano gli aspetti nascosti e sfuggenti.
Con la fiction storica accade qualcosa di più. Quando l’immaginario del presente si mette infatti a giocare con il passato, c’è un altro passaggio di cui tenere conto. La narrazione storica di finzione diventa interessante non soltanto per come illumina alcuni aspetti della storia ma per come rivela il presente e il suo rapporto con il passato. Attraverso le regole stilistiche proprie del media per il quale è prodotta, la narrativa storica mette in forma l’immaginario attuale mostrando come si rispecchi nel passato e/o lo rimodelli.
Downton Abbey, serie sull’Inghilterra degli anni Dieci e Venti che si apre alla modernità, risveglia anche un sogno nostalgico negli spettatori. A Very English Scandal o Il caso O. J. Simpson ripercorrono fatti di cronaca per riflettere su cambiamenti sociali di cui capiamo la forza solo oggi. E questa Rivoluzione francese? È riproposta come evento fondamentale, proprio per le scelte stilistiche che la contraddistinguono: il fantastico è un genere in auge, il racconto seriale è ritenuto sinonimo di qualità, lo streaming è il futuro dell’intrattenimento. Se in The Crown la regina Elisabetta II è il simbolo della sacralità delle istituzioni in un momento, il nostro, di messa in discussione di quest’ultime, la Rivoluzione francese pare forse tornare di moda proprio perché rispecchia, con una distorsione significativa, certe odierne contrapposizioni, come quella élite versus popolo.
La realtà di oggi s’è già sovrapposta a quel passato a livello di immaginario: Macron è stato raffigurato come Luigi XVI durante una manifestazione a maggio in Francia, paragone in questi giorni utilizzato dai gilet gialli e da certi commentatori. Il virus maligno fa ormai parte tanto di cronache giornalistiche quanto del racconto fantastico, da I sopravvissuti (1975-1979) a The Walking Dead (cominciata nel 2010). Il contagio è un altro tema attuale: la nostra società è un organismo connesso, ma fragile, quindi può essere messa in crisi da un elemento singolo, che sia un virus reale, informatico, finanziario... È l’idea anche della «fine di un’era»: è quello che viene percepito oggi, a torto o a ragione, nel sentire comune, è quello che accadde in qualche modo allora. Il gioco è tra utopia e distopia, come ad esempio in The Man in the High Castle, che immagina la vittoria finale dei nazisti per mostrare certe pulsioni ancora latenti nella società contemporanea.
Le parole scelte per lanciare la serie sulla Rivoluzione sono emblematiche: non si promette di raccontare un’eccitante versione altra della storia, ma viene detto che forse la storia non è come «ci hanno detto». Credevamo di sapere e invece ci hanno manipolati: c’è un po’ del complottismo di oggi, almeno nei toni. Soprattutto, se confermata dalla futura visione, l’idea di un virus come motore di uno scontro sociale e di una Rivoluzione è molto attuale. Perché è semplice, quindi rassicurante: un solo fattore origina tutto. Non c’è bisogno di analisi dotte. Non c’è bisogno di complessità. E cioè della parola che oggi fatichiamo a usare per spiegare il nostro sfuggente e molteplice reale, e quindi pare anche il nostro passato.
Repubblica 23.12.18
Miti al tramonto
Finisce all’asta "Giubbe Rosse" il caffè dei letterati
Firenze, fallita la società che gestiva il locale ritrovo di Marinetti e Palazzeschi
di Gerardo Adinolfi
FIRENZE In una sala delle Giubbe Rosse è ancora conservato il tavolo intorno a cui negli anni Venti si riunivano i redattori della rivista Solaria, sprovvisti di una redazione. E sulle pareti del caffè letterario di Firenze quadri, giornali e cimeli ricordano una storia lontana ormai quasi un secolo popolata di artisti e poeti, scrittori e intellettuali seduti ai tavolini dove oggi si vedono quasi solo turisti. Da qui sono passati Eugenio Montale e Mario Luzi, il fotografo Henry Cartier Bresson e Dylan Thomas. E qui è nato il futurismo, dopo la celebre rissa tra i fiorentini e i milanesi di Marinetti e poi la saldatura tra le due anime che cambiò la cultura italiana. Ma l’epoca dello storico Caffè delle Giubbe Rosse rischia di finire se entro tre mesi il curatore nominato dal tribunale fallimentare di Firenze non riuscirà a trovare un nuovo compratore.
«Andiamo da quelli delle giubbe rosse» dicevano i fiorentini di fine Ottocento diretti al Caffè Reininghaus. Non riuscendo a pronunciare correttamente il cognome dei proprietari, due fratelli tedeschi fabbricanti di birra, gli avventori preferivano chiamarlo con il colore delle divise rosse usate dai camerieri, secondo una moda viennese del tempo. Era il 1897, l’inizio di un’era su cui ora incombe la parola fine.
Negli scorsi giorni i giudici hanno dichiarato il fallimento della Gr srl, l’ultima società ad aver gestito le Giubbe Rosse. Il bandone però non è stato ancora tirato giù: il Caffè di piazza della Repubblica resta aperto e fino a marzo gli eventi, gli incontri e le mostre sono assicurate. «La cessazione immediata dell’attività potrebbe determinare un danno grave perché verrebbe azzerato il valore dell’avviamento e si perderebbe il know how », hanno scritto i giudici.
Il conto alla rovescia per il socio che possa salvare la storia è allora iniziato. Qualche nome, anticipato dalla Nazione, già circola, ma in ogni caso per acquisire le Giubbe Rosse sarà necessaria un’asta. «È un locale che ha due anime – spiega Jacopo Chiostri, curatore degli eventi degli Amici delle Giubbe Rosse – per pagare l’affitto bisogna vendere tante pastasciutte, perché nella società mercantile di oggi con la cultura non si va avanti».
Eppure, prima di un presente di grave incertezza e dell’arrivo, il caffè letterario ha vissuto una vita di avanguardia culturale. Fin dai primi suoi anni di vita qui si ritrovavano i rivoluzionari russi e filosofi e giocatori di scacchi, tra cui Lenin come narra la leggenda. Dal 1913 divenne sede fissa dei futuristi fiorentini raccolti intorno alla rivista La Voce. Un articolo scritto in quell’anno da Ardengo Soffici contro l’anima futurista milanese, capeggiata da Filippo Tommaso Marinetti, provocò la famosa scazzottata in piazza tra le due fazioni. Tra gli avventori delle Giubbe Rosse, negli anni, anche Gadda e Palazzeschi, Quasimodo e Ungaretti.
Cosa resterà di quell’epoca saranno dunque i prossimi tre mesi a stabilirlo. Per ora ci sono solo allarmi e polemiche: gli ormai ex titolari puntano il dito anche sul calo degli affari dovuto alle lungaggini del cantiere in piazza della Repubblica, stoppato dalla Soprintendenza dopo il ritrovamento di alcuni reperti storici: «Ci hanno lasciati soli», hanno detto. Dal Comune spiegano che la società aveva 90 mila euro di occupazione di suolo pubblico non pagato. Il dehors in piazza, scadute le licenze, sarebbe dovuto essere smontato ad aprile. Ma proprio per le difficoltà economiche era stata concessa una proroga.
TONI ANZENBERGER
Verso la chiusura Il Caffè Giubbe Rosse rischia di chiudere se entro tre mesi non si troverà un nuovo compratore