La Stampa 22.12.18
Diplomatico nell’Argentina della “junta”
quando l’Italia preferì chiudere gli occhi
di Michele Valensise
Non
c’è solo il Cile nei ricordi di gioventù di chi oggi ha i capelli
grigi. A metà degli anni Settanta, in parallelo al golpe di Pinochet,
anche l’Argentina fu protagonista e vittima di convulsioni sanguinose e
della violenta presa del potere da parte di una giunta militare,
Videla-Massera-Agosti, auto-investitasi della missione di salvare la
patria (marzo 1976). L’agonia delle istituzioni argentine era già
evidente con la breve presidenza di Héctor Campora, il ritorno
dall’esilio e la morte di Juan Domingo Peron e l’ascesa della moglie
Isabelita, succedutagli in quanto vice presidente della Repubblica. Vi
contribuì la spaccatura del peronismo in due tronconi, la destra retriva
e la sinistra rivoluzionaria, sempre più inclini a farsi valere con le
armi.
Con una ricostruzione puntuale (Tre anni a Buenos Aires,
1975-1978, Edizioni Viella, € 26) un diplomatico italiano, Bernardino
Osio, apre ora uno squarcio su quegli anni bui, toccante per umanità e
lucido circa errori, viltà e responsabilità politiche. Sullo sfondo di
documenti d’ufficio e ricordi, intrecciati con il destino di tanti
desaparecidos di origine italiana eliminati dai militari, Osio,
all’epoca consigliere all’ambasciata d’Italia a Buenos Aires, rievoca
senza vanagloria l’impegno suo e dei colleghi per salvare gli scomparsi e
sollecitare (invano) l’intervento delle autorità argentine. E per
restare vicini alle famiglie delle vittime, finite senza pietà nelle
fosse comuni o scaraventate dagli aerei in fondo al Rio de la Plata.
Se
in Italia la vicenda cilena era seguita con forte partecipazione, sia
per i solidi rapporti tra partiti dei due Paesi sia per la novità, con
Allende, dell’arrivo della sinistra al governo tramite elezioni,
l’Argentina non godeva della stessa attenzione. Prima per una certa
diffidenza verso il peronismo, poi per una colpevole sottovalutazione
dei misfatti dei militari. La junta fu abile nell’alimentare la leggenda
del complotto internazionale contro l’Argentina e i suoi custodi
dell’ordine. Come nell’accreditare all’estero la tesi infondata di due
anime, radicale e moderata, in seno al governo golpista, con l’obiettivo
di contenere le proteste per il suo brutale operato di quanti avrebbero
temuto così di rafforzare i falchi.
La pressione della dittatura,
accresciuta con il piano Condor dalla collaborazione con i regimi
militari dei Paesi vicini, fu troppo a lungo ignorata. Né si raccolsero
gli appelli di quanti rivendicavano libertà e legalità, come «le regine
delle lettere argentine» Vitoria Ocampo e Maria Rosa Oliver delle quali
Bernardino Osio era amico personale. Poi su quegli anni di sangue si
stagliò anche l’ombra cupa della P2, alla quale risultarono affiliati
uomini di governo argentini di primo piano, tra cui il comandante della
Marina e i ministri degli Esteri e dell’Interno.
Fautrice di una
Realpolitik pur tra imbarazzi e distinguo, la Farnesina fu poco propensa
a passi energici contro il regime militare. Si chiusero gli occhi sul
dramma dell‘Argentina, peraltro in gran parte abulica dinanzi alla
violenza di regime («por algo serà», ci sarà pure una ragione, si
ripeteva a Buenos Aires). Per Osio e i suoi giovani colleghi divenne
prioritario e rischioso il lavoro a difesa dei desaparecidos
italo-argentini e dei loro congiunti. Tra tensioni e insidie quella
piccola pattuglia di diplomatici dovette pure affrontare le difficoltà
poste alla loro azione dal capo missione, impreparato, prevenuto a
favore dei militari e inadeguato anche per ragioni di salute. Su una
nave senza timone, seppero tenere la rotta della dignità e dell’onore.