il manifesto 22.12.18
Tirana, un altro dicembre per gli studenti in piazza
Balcani.
In strada da giorni i manifestanti chiedono un'istruzione più
accessibile e più investimenti nell'università. "Non siamo poveri. Siamo
derubati" recita uno dei cartelli più virali della protesta.
di Shendi Veli
Le
strade di Tirana hanno una buona memoria. Era il dicembre 1990, quando
venivano percorse dalla rivolta che chiuse quasi mezzo secolo di regime
di Enver Hoxha. Nei ventotto anni trascorsi da allora il paese ha
cambiato faccia mille volte, portando come un destino la sua profonda
anomalia. Coda balcanica dell’est europa e innesto di medio oriente. Da
sempre crocevia di popoli e religioni, eppure aggrappato con muscoli di
acciaio a una lingua misteriosa e antichissima.
VENTOTTO ANNI DOPO
le strade di Tirana brulicano ancora di giovani ribelli, tanto che
alcuni hanno ribattezzato il movimento “Dicembre 2”. Gli studenti, dallo
scorso 5 dicembre, sono riapparsi prepotentemente sui radar della
politica, per reclamare accesso al sapere e condizioni di studio
migliori.
«SI CERCANO SIMILITUDINI con il 1990» dice Bora Mema,
studentessa di Scienze Politiche «il primo tratto in comune è il
calendario. Poi entrambi i movimenti nascono su richieste materiali ma
sono articolazione di una situazione politica e sociale difficile. Nel
1990 però gli altri corpi sociali si unirono agli studenti e fu indetto
lo sciopero. Questo oggi non accade e non potrebbe accadere, anche
perché, come dice con orgoglio il premier Rama, in Albania i sindacati
non esistono».
LA SCINTILLA è l’approvazionedi una tassa
aggiuntiva da pagare se si ripete un esame. Con la fine dell’anno arriva
la data di scadenza dei pagamenti. La somma dovuta ammonta, secondo una
serie di variabili, tra i 500 e i 3000 lek albanesi per Credito
Formativo universitario (Cfu). Un esame da 10 Cfu può costare allo
studente in media 168 euro. Abbastanza per far traboccare un vaso già
colmo. Si convocano inziative di protesta che culminano in un corteo,
inaspettatamente grande, il 6 dicembre, davanti al Ministero
dell’Istruzione. La ministra Lindita Nikolla, ritira immediatamente la
tassa contestata, ma sembra già troppo tardi per riportare gli studenti
in aula.
«STUDIO ALL’UNIVERSITÀ di Tirana» dice Gresa Hasa, 23
anni «sono già tre anni che protestiamo contro la “Ligj për Arsimin e
Lartë”, riforma neoliberale dell’università del 2015. Ideata dal Partito
Democratico (ndr in Albania il partito di centro destra al potere per
molti anni) e realizzata da quello socialista. Abbiamo le tasse più alte
di tutta l’area balcanica mentre l’economia è devastata. Molti sono
costretti a lavorare durante gli studi, altri rinunciano in partenza. Le
più svantaggiate sono le ragazze, che senza una laurea faticano a
trovare lavoro e sono costrette a dipendere economicamente da padri o
mariti».
GIà NEL 2010 NEL PAESE esplodeva il fenomeno delle
università truffa: una miriade di istituti privati aperti nel giro di
pochi mesi, con tasse altissime e qualità dell’insegnamento bassa.
L’attuale governo dal 2013 ha fatto chiudere molti di quegli atenei
fantasma, lasciando però invariato il sistema per cui università private
e pubbliche concorrono in egual misura a ricevere i finanziamenti dello
stato. I già esigui fondi per l’istruzione sono ripartiti con le
numerose strutture private, e di contro le statali, aumentano i costi e
riducono i servizi.
IL PROCESSO È LO STESSO che da oltre un
decennio pervade tutta l’Europa, noto come “Bologna Process”. In
l’Albania, dove storicamente i processi si danno nella versione estrema,
una retta universitaria statale costa fino a 600 euro l’anno per la
triennale e circa il doppio per la specialistica. L’Instat (l’Istituto
albanese di statistica) calcola che il 60% degli albanesi occupati
arriva a guadagnare appena 315 euro mensili, un 30% ne prende 189,
mentre solo il 10% arriva intorno ai 700.
«LA PROTESTA È CRESCIUTA
da subito nei numeri, arrivando fra i 30 e 40 mila partecipanti martedì
11 dicembre e poi di nuovo il 13, gli studenti hanno continuato a
scendere in piazza nei giorni successivi, e hanno manifestato in altre
città come Scutari, Elbasan, Korçe» dice Edon Qesari, ricercatore presso
l’università di Tirana. «Per la prima volta dal dicembre 1990, ci si
colloca fuori dalla dialettica governo e opposizione, anche se i
tentativi dei partiti di cavalcare questa onda ci sono stati. Eppure in
un certo senso le rivendicazioni degli studenti sono profondamente
politiche» racconta ancora Edon.
TRA LE RIVENDICAZIONI c’è il
dimezzamento di tutte le tasse universitarie, maggiore coinvolgimento
degli studenti negli organi decisionali, e l’investimento del 5% del Pil
nell’istruzione (attualmente l’Albania spende l’1,3 del suo budget).
«Per ora il primo ministro si è mostrato arrogante, non ha mai espresso
l’intenzione di realizzare le nostre richieste, non ha mai messo in
discussione la riforma universitaria del 2015 la cui abrogazione è
necessaria. Ha spesso offeso e deriso gli studenti e si è presentato
senza invito in alcune facoltà per fare propaganda» dice ancora Gresa
Hasa.
IL PREMIER RAMA nei primi istanti della mobilitazione aveva
liquidato con poche battute il nascente movimento. Col passare dei
giorni, e con i sondaggi che davano oltre l’85% degli intervistati in
favore degli studenti, ha iniziato a chiedere con dirette facebook, twit
e apparizioni televisive che gli studenti elegessero dei rappresentanti
e si sedessero a dialogare con lui. Lanciando anche un personale
hashtag #dialog (dialogo) in contrapposizione a quello promosso dai
giovani #mestudentet (tradotto “con gli studenti”).
I GIOVANI
HANNO RIFIUTATO l’invito del governo. «Le nostre richieste sono chiare e
non negoziabili, non abbiamo intenzione di eleggere delegati né di
incontrare il primo ministro» ribadisce Bora Mema, anche lei attivista
del «Movimento per l’Università». Edi Rama, uomo di polso del Partito
socialista, è al suo secondo mandato di governo e si districa a fatica
tra la promessa di guidare il paese nell’ingresso in Unione Europea e le
accuse che piovono da più lati che lo vogliono colluso con la mafia
albanese. Per giorni ha cercato ossessivamente sui social un incontro
con i manifestanti, mostrando la sua indiscussa forza mediatica ma anche
una profonda solitudine politica.
«IN 30 ANNI DI TRANSIZIONE
politici e mafiosi sono riusciti a uccidere la speranza degli albanesi.
Non tolleriamo più, non vogliamo fare gli stessi errori delle
generazioni che ci hanno preceduto» aggiunge Gresa. «Non so come
immaginarmi tra 10 anni» racconta Bora «forse lavorerò in un call
center, oppure farò la cameriera con una laurea in storia, o forse
esaurirò la mia voglia di combattere e come tanti altri giovani lascerò
questo paese». Ùno dei cartelli diventati più virali della protesta
recita «Non siamo poveri. Siamo derubati».