Corriere 22.12.18
La «legge schiavitù»,
Le contraddizioni della politica di Orbán
di Gianluca Mercuri
Come
vi sentireste se il vostro datore di lavoro potesse imporvi fino a 400
ore di straordinari all’anno, con la facoltà di pagarvele anche fra 36
mesi? Probabilmente usereste (useremmo) la stessa parola che usano in
Ungheria. La chiamano «legge schiavitù» — Elena Tebano ne ha scritto
lunedì — e da ieri è in vigore, nonostante le proteste di massa. Siamo
alla rappresentazione plastica delle contraddizioni di una politica
xenofoba. La scelta nasce infatti dalla mancanza di forza lavoro e dal
rifiuto del governo di Viktor Orbán di aprire le porte ai migranti.
L’Ungheria ha una disoccupazione al 4,2 per cento — una delle più basse
dell’Ue — e una popolazione in declino da anni. In più è soggetta a un
drammatico brain drain, con i cittadini che si sentono nel mirino di
quello che sempre più si configura come un regime — giovani,
intellettuali, artisti, ebrei, attivisti delle ong — che lasciano il
Paese in cerca di libertà e lavori adeguati alla loro istruzione, mentre
il governo, dopo averli fatti scappare, prova inutilmente a farli
tornare con un programma di incentivi. Nessuna riflessione sulle
conseguenze delle sue scelte: eppure l’Ungheria potrebbe essere un
modello promuovendo flussi legali di migranti in base alle esigenze
della sua economia. Non c’è bisogno di convertirsi all’odiato buonismo
delle sinistre: la conservatrice Polonia è il Paese Ue che ha rilasciato
più permessi di soggiorno nel 2017. Il problema della scarsità di
manodopera accomuna infatti tutta l’Europa centrale, ma pure l’Italia
del Nord in certi settori rasenta il pieno impiego. Una volta
ristabiliti i confini e fermato il traffico clandestino, i governi
sovranisti sapranno fare il salto di qualità e tornare all’immigrazione
regolare? O continueranno ad alzare muri, fino alla farsa degli
straordinari obbligatori?