Repubblica 21.12.18
A Budapest
Il governo impone 400 ore di lavoro in più e di rinviarne il pagamento fino a tre anni
Nasce la fronda a Orbán ecco gli ungheresi che non hanno paura
La
“legge schiavista” sugli straordinari porta la gente in piazza
Studenti, operai, impiegati: così si è ricompattata l’opposizione
di Giampaolo Cadalanu
BUDAPEST
Nella sala del centro commerciale di Lurdy Haz, appoggiato al muro
mentre gli oratori contro Orbán si danno il cambio, Daniel ha lo sguardo
spaurito, ma le idee già chiare, anche a 14 anni. «Mia madre lavora in
un ufficio, è già costretta a fare un sacco di straordinari. Se questa
legge entra in vigore, rischio di non vederla più». E se fra i critici
del governo arrivati fin qui sfidando il gelo non ci sono giovanissimi,
il motivo è semplice: «Hanno paura di essere denunciati dai professori».
Forse il motivo è questo, o magari il fatto che è periodo di esami, ma
la riunione dell’opposizione convocata da Ákos Hadházy e Péter Márki-Zay
ha raccolto più entusiasmi fra le persone di mezza età. Eppure i due
politici sono fra gli oppositori più noti. Il primo è diventato celebre
suo malgrado, visto che assieme alla deputata Bernadette Szél è stato
cacciato via in maniera molto brusca dalle guardie della tv pubblica
mentre cercava di leggere una dichiarazione contro la legge sugli
straordinari. Il secondo è il sindaco di Hódmez?vásárhely, ed è famoso
proprio perché a febbraio ha strappato questa cittadina di provincia al
candidato del partito Fidesz, suscitando speranze forse eccessive.
Il
problema è che forse nemmeno la “legge schiavista”, voluta dal governo e
firmata ieri dal presidente János Áder nonostante gli appelli contrari,
sarà in grado di ricostruire la fiducia nei partiti. La norma che
permette alle aziende di pretendere fino a 400 ore di straordinario e
rinviarne il pagamento fino a tre anni dopo è servita a trascinare in
piazza gli ungheresi ed è riuscita a ricompattare un’opposizione
frammentata. Ma resta da vedere se i partiti saranno in grado davvero di
superare le differenze per unirsi contro il regime dell’uomo forte
Viktor Orbán.
La prova del nove è stasera: l’appuntamento per
l’opposizione è davanti al Parlamento. «Voglio partecipare alla
manifestazione contro questa mafia medievale. O si svolta, o possiamo
dire addio all’Europa ed entrare nella federazione russa», dice Ivan
Kollar, che in quanto sviluppatore di software non è colpito dalla nuova
legge schiavista: «Motivi per protestare non mancano, a partire dalla
legge che di fatto limita l’indipendenza dei giudici, per non parlare
della corruzione, della sanità, delle pensioni…».
A 76 anni
Katalin Somogyi non è colpita dalle conseguenze della legge: «Ma trovo
orribile e sconvolgente che si possa imporre alle persone di lavorare
per essere pagati tre anni dopo. Sempre che l’azienda non chiuda nel
frattempo». Zoltan Herczeg, creatore di moda, non esita a presentarsi
davanti alla folla indossando una t-shirt di sua creazione, con una
sigla che tradotta liberamente significa: «Orbán è feccia”. «Ci ha
rubato tutto: i soldi, lo spirito, il futuro».
Rab Andras,
ingegnere, è deluso per il varo di una legge senza nessun accordo
preventivo: «La mancanza di forza lavoro non si risolve così. Ma non
credo nei partiti di opposizione, non sono affidabili».
Anche chi
non è riuscito a raggiungere il luogo della riunione promette di
partecipare alla manifestazione di domani. Al telefono Nora Eörsi
dell’Unione studenti spiega perché la legge mette nei guai anche gli
universitari: «Chi lavora per mantenersi agli studi rischia di non poter
frequentare i corsi se viene costretto a fare tante ore di
straordinario». Zoltan Magyar, che lavora alle fornaci dell’acciaieria
di Dunaújváros, un’ottantina di chilometri a sud di Budapest, sottolinea
che nelle grandi fabbriche i ritmi sono già serrati: «Gli operai sono
al limite, impegnati nei festivi e nei fine settimana, non credo proprio
che si possa pensare di costringerli a lavorare di più».
Mentre
al microfono Ákos Hadházy promette che «la lotta non finirà, dopo Natale
cercheremo ogni possibile strumento», sciopero generale compreso, e
Péter Márki-Zay sottolinea che la protesta dilaga anche fuori dalla
capitale, un provocatore si esibisce a buttarsi per terra mimando la
cacciata dei deputati dalla tv di Stato. Hadházy è pronto a offrirgli il
microfono, disinnescando la beffa, ma l’episodio serve a rimarcare che
l’occhio del partito al potere Fidesz è sempre presente. Il significato è
chiaro: protestate pure, Orbán va avanti per la sua strada. A
garantirlo è la cappa pesante che copre gran parte dei mezzi di
comunicazione.
Persino Lokal, il giornale gratuito che si
distribuisce alle fermate della metropolitana, è un megafono del
governo. Sull’ultimo numero riporta l’ennesimo sondaggio con domande
come: «È d’accordo che il calo demografico debba essere combattuto con
aiuti alle famiglie e non con l’immigrazione?». Lo spauracchio dello
straniero, magari pure con un colore della pelle diverso, funziona
sempre.
Sarebbe però semplicistico pensare che Orbán voglia
imporre straordinari ai lavoratori per rispettare il “no” di principio
all’immigrazione, fa capire Ágota Scharle, economista al Budapest
Institute: «Forzato dalla necessità delle aziende, il governo ha già
aperto le porte ai lavoratori ucraini e slovacchi». In altre parole, le
pressioni degli amici industriali fanno superare anche i pregiudizi
xenofobi. Salvo che poi le condizioni offerte dalle industrie ungheresi
sono meno favorevoli di quelle proposte dalla concorrenza, e i
lavoratori qualificati scelgono di andare altrove.