venerdì 21 dicembre 2018

Repubblica 21.12.18
Le strategie per la Difesa
La virata dei Cinquestelle sugli F35 da strumenti di morte a “ irrinunciabili”
Il sottosegretario Tofalo: “Forse la migliore tecnologia”. Il governo conferma gli acquisti, ma “diluiti”
Avevano detto
“Chi ci ha fatto entrare in questo programma dovrebbe essere preso a calci in culo”
Se proseguirà il piano di acquisto allora il Parlamento è esautorato
Quando i Cinquestelle protestavano contro l’acquisto degli F35
La protesta contro la mozione sull’acquisto degli F35 dei Cinquestelle alla Camera il 26 giugno 2013
d Vincenzo Nigro


ROMA “Diluizione degli F35, diluizione negli acquisti”. È una manovra che ha un nome e un sapore antico, quasi democristiano, quella che i ministri dei 5Stelle proveranno a costruire nei prossimi 2 mesi. In attesa delle visite negli Usa della ministra della Difesa Elisabetta Trenta, del premier Giuseppe Conte e probabilmente dello stesso Luigi Di Maio, la pattuglia di governo dovrà preparare il terreno. Il programma F35 non può essere cancellato, i costi industriali, occupazionali, politici sarebbero altissimi, «e soprattutto la nostra Aeronautica si troverebbe senza il suo aereo di punta, per il quale abbiamo speso miliardi fra l’altro per organizzare e addestrare i piloti e tutta la catena logistica » , dicono fonti dei 5 Stelle di governo.
Eppure, fra i militanti grillini l’ostilità a quel progetto è ancora assai diffusa: sono esplose reazioni anche pesanti dopo le parole del sottosegretario alla Difesa Angelo Tofalo che ha legittimato con un ragionamento frutto di settimane di studio non solo l’aereo in sé ( « è una delle migliori tecnologie, forse la migliore » ) ma la necessità di averlo in linea per l’Aeronautica.
Per il sottosegretario « il programma F- 35 ormai va avanti da oltre venti anni, e a differenza di quanto spesso qualcuno ha detto è un aereo che ha un’ottima tecnologia, forse la migliore al mondo in questo momento (…) Non possiamo rinunciare a una grande capacità aerea per la nostra Aeronautica che ancora oggi ci mette avanti rispetto a tanti altri Paesi».
Tofalo ha parlato martedì a Montecitorio davanti alla ministra Trenta, al presidente della Camera Roberto Fico, a tutti i deputati 5stelle delle Commissioni Difesa. Molti deputati 5Stelle hanno reagito male: per il senatore Matteo Mantero «gli F35 saranno tecnologicamente molto validi ma visto che nella nostra visione del mondo non ci sono nuove guerre direi che semplicemente non ne abbiamo bisogno».
Lo stesso vice- premier Luigi Di Maio ha detto che « sul programma continuiamo ad essere perplessi: il fatto che sia ancora attivo non vuol dire che rifinanziamo tutto il programma, c’è una parte che è stata finanziata dagli anni precedenti».
Nelle parole di Di Maio in qualche modo si intravede la soluzione che il governo proporrà all’inizio del 2019: dopo le visite di Conte e Trenta negli Stati Uniti, dopo una verifica con la Lockheed Martin, il governo italiano annuncerà una diluzione negli acquisti. Gli F35 vengono venduti all’Italia a lotti di 2 o 4 aerei man mano che vengono prodotti negli stabilimenti americani e assemblati nella fabbrica di Novara. Ecco perché fra le promesse elettorali e la realtà del governo, la scelta di “ diluire” gli F- 35 potrebbe essere il compromesso possibile. La “ diluizione” che i 5Stelle di governo proporranno ai loro elettori.

il manifesto 21.12.18
Putin: «Il mondo ora rischia una guerra nucleare»
Cremlino. «La deterrenza è al collasso dopo la scelta di Trump di uscire dal Trattato Inf». Conferenza di fine anno del presidente russo su sanzioni, Ucraina, spese militari e Siria
di Yurii Colombo


MOSCA «Il mondo sta sottovalutando il pericolo di una guerra nucleare. Ma se la guerra, dio non voglia ci sarà, potrebbe condurre alla fine della civiltà umana»: con questo ammonimento a tutte le cancellerie è iniziata ieri a Mosca la tradizionale conferenza stampa di fine anno di Vladimir Putin. Il presidente russo sulla questione della corsa agli armamenti, rivolgendosi a Trump, ha voluto essere chiaro fino quasi alla brutalità. «Dopo il ritiro degli Usa dal Trattato anti-balistico, che come ho già detto molte volte, è stato comunque un cardine nel campo della non proliferazione delle armi nucleari la Russia – ha sottolineato Putin – ha progettato, armi “segrete” non ancora disponibili ai suoi avversari…. Si dice che la Russia si sarebbe avvantaggiata. È vero, abbiamo solo noi alcune armi… ma sono mirate solo a mantenere la parità strategica», ha ribadito il capo del Cremlino, esprimendo al contempo il timore che nuovi missili possano essere puntati a breve contro la Russia in Europa centrale. E ha concluso questo capitolo chiedendosi retoricamente: «È la Russia con i suoi 46 miliardi di dollari per la difesa a minacciare la pace o gli Stati uniti con con i suoi 750?».
ANCHE LE NUOVE sanzioni americane decise la scorsa notte a Washington avrebbero come obiettivo per il capo del Cremlino, non scoprire chi ha avvelenato Skripal «ma strangolare il nostro paese». Solo un cenno a muso duro sull’Ucraina: «Sappiano tutti che non libereremo i marinai ucraini arrestati sullo stretto di Kerch. Prima devono essere processati». Putin ha anche respinto le accuse alla Russia di essere un «paese autoritario». Si è chiesto invece se per i paesi occidentali non sia tempo di una riflessione sui loro deficit di democrazia: «Come è possibile che Trump vinca le elezioni e poi non possa governare? O che gli inglesi votino la Brexit e poi non possano implementarla?».
A PROPOSITO dell’annunciato ritiro dalla Siria di Trump, Putin è stato guardingo. «Vedremo – ha detto – come e se ci sarà. Noi comunque resteremo in Siria, perché se è vero ciò che ha detto Trump sulla sconfitta dell’Isis, ci sono altri pericoli che aleggiano nella regione». Una posizione che ha sempre lasciato fredda l’opinione pubblica russa tradizionalmente isolazionista, ma ora Putin vorrebbe riscuotere i dividendi della decisione di impegnarsi in Medio Oriente. La diffidente ma stabile alleanza con Ankara, le ottime relazioni con Teheran e la penetrazione commerciale in Egitto e in Africa centrale, sono tasselli di una strategia a cui non intende rinunciare. E a proposito dell’anello debole afghano ha informato: «Rafforzeremo le nostre basi militari in Tajikistan perché prossimamente la situazione a Kabul potrebbe bruscamente cambiare».
PASSANDO allo stato interno del paese, il presidente ha ricordato che quest’anno il Pil è cresciuto del 1,7% e il prossimo anno dovrebbe raggiungere il 2%. Siamo però lontani dalle promesse elettorali di una crescita del 3,8% e di un allargamento del welfare che Putin vorrebbe raggiungere con un non ben definito «balzo tecnologico in avanti».
IL CREMLINO in questi mesi ha dovuto fare i conti con un diffuso malumore legato all’innalzamento dell’età pensionabile, all’aumento di 2 punti dell’imposta sul valore aggiunto e all’impennata dei prezzi della benzina. Su quest’ultimo punto Putin ha cercato di scacciare lo spettro dell’emergere anche in Russia dei «gilet gialli». «Non farò crescere il prezzo dei carburanti per tutto il prossimo anno» ha promesso.
Per concludere è tornato al passato sovietico. Giudicando «positivamente i mutamenti introdotti dalla Cina» dai tempi di Deng Xiaoping ha affermato di aver presente i sondaggi che parlano di un 66% di russi nostalgici del’Urss. «Ritengo impossibile un ritorno al socialismo» ha sostenuto Putin al fine di tranquillizzare investitori stranieri e magnati autoctoni. Ma si è detto certo che in Russia «c’è una gran fame di eguaglianza».
«ELEMENTI di socializzazione dell’economia sono possibili, ma solo se associati a un boom dell’economia. Vogliamo fornire alla stragrande maggioranza delle persone servizi sanitari e un’istruzione dignitosa. Se parliamo di socializzazione in questo senso, io sono d’accordo» ha concluso.

Corriere 21.12.18
Vladimir Putin avverte l’Occidente:
«Rischiamo un olocausto nucleare»
Il presidente russo: la Nato svilupperà armi atomiche tattiche? Noi ci difenderemo
di Fabrizio Dragosei


MOSCA L’ipotesi avanzata da qualcuno di poter adoperare «piccole» bombe atomiche tattiche e il ricorso a missili da crociera con esplosivo convenzionale e non nucleare costituiscono un grave pericolo. E potrebbero portare il mondo all’olocausto globale, anche se nessuno lo vuole. Alla conferenza stampa annuale tenuta davanti a oltre 1.700 giornalisti, Vladimir Putin ha ammonito quelli che una volta erano chiamati partner e che ora sembrano tornati a essere avversari. Soprattutto gli europei che vivrebbero direttamente sulla loro pelle un eventuale conflitto tra Russia e Nato.
Mosca, naturalmente, non vuole assolutamente arrivare a un conflitto aperto e fa quello che fa solo per difendersi. Il presidente russo, ex uomo dei servizi segreti, nato e cresciuto in Unione Sovietica, ha la visione di un Paese accerchiato (in realtà, secondo lui, lo è praticamente sempre stato) e contro il quale l’intero Occidente continua a tramare per non riconoscergli quel posto sullo scacchiere internazionale che invece merita. Così se al Cremlino vengono rimproverati gli attentati a dissidenti all’estero, le ingerenze nella vita politica di altri Paesi, il «bullismo» nei confronti degli Stati vicini, a cominciare dall’Ucraina, questo avviene per una «russofobia» imperante.
E il Paese, quindi, si difende. A seguito dell’uscita americana dal trattato sulla difesa antimissilistica (i cosiddetti missili antimissile), la Russia ha sviluppato, a dire di Putin, un’arma efficacissima che nessun altro ha e che protegge il suo territorio dalle iniziative aggressive degli Stati Uniti.
Ma la situazione è tale che il pericolo di un conflitto è aumentato. «C’è la tendenza ad abbassare la soglia per l’uso» di ordigni atomici, con la proposta di bombe tattiche. E poi ci sono i vettori con armamento tradizionale: «Se un sottomarino dalle profondità dell’oceano lancia un missile balistico, chi cavolo sa se è nucleare o non nucleare? Vallo a capire!».
Rispondendo a una domanda sull’ultimo scontro con l’Ucraina, Putin ha ricordato come fino a pochi mesi fa nello stretto di Kerch le navi di Kiev, anche quelle militari, passassero senza problemi, informando i russi e venendo guidate. Poi il 25 novembre gli ucraini hanno optato per un’operazione segreta, tentando di far passare tre vascelli senza avvertire. «Una provocazione», ha tagliato corto.
Molte delle domande fatte dai giornalisti russi vertevano su temi economici, viste le difficoltà del Paese. Putin, che in passato aveva sempre alzato la voce contro le sanzioni, sembra essersi deciso a fare buon viso a cattiva sorte, dato che anche l’Europa le ha rinnovate all’unanimità. Ha sostenuto che in realtà hanno fatto pochissimo danno alla Russia. E poi il sistema produttivo del Paese «si è già adattato a queste restrizioni esterne». Molte importazioni sono state sostituite da beni che adesso vengono fabbricati in Russia. Insomma, è stato quasi un fatto positivo. E chi forse ne ha sofferto di più, a dire del capo del Cremlino, sono stati i Paesi che hanno imposto le sanzioni.

Il Fatto 21.12.18
Mai sottovalutare un’atomica (a Natale)
Botti di fine anno - Vladimir Putin in “grande spolvero”: “È uno sfacelo, la morte della civiltà”
di Giampiero Gramaglia


“La tendenza ad abbassare la soglia del ricorso” alle armi nucleari “è pericolosa e potrebbe causare un disastro nucleare globale”: mittente del monito è il presidente russo Vladimir Putin; destinatario il presidente Usa Donald Trump, che a forza di sganciare gli Stati Uniti dai patti nucleari, con l’Iran o sugli Inf, gli euromissili, sta rendendo il Mondo un posto sempre meno sicuro.
“Credo – dice Putin – che il ‘pericolo’ di un conflitto atomico sia scivolato sullo sfondo: sembra impossibile, ma, se una cosa del genere dovesse accadere, potrebbe causare la morte della civiltà e, forse, dell’intero pianeta”. In una conferenza stampa di fine anno dalle dimensioni tolstoiane – domande e risposte si succedono per quasi quattro ore –, il presidente russo denuncia “lo sfacelo” del sistema di deterrenza internazionale, acuito proprio dalla decisione di Trump di denunciare l’intesa sui missili intermedi: un passo che “aumenta l’incertezza: se arriveranno i missili in Europa – dice Putin –, l’Occidente non squittisca se noi reagiremo”. Non è chiaro se il discorso nasca da un timore sincero o nasconda le preoccupazioni per l’impatto d’un rilancio della corsa agli armamenti sull’economia russa, mascherate, in ogni caso, dietro “grandi progetti” per garantire alla Russia un balzo in avanti nell’innovazione tecnologica.
Putin appare in spolvero: parla, con cautela, di matrimonio; scherza con la reporter che attira l’attenzione agitando un lembo di bandiera russa; si dichiara soddisfatto del lavoro fatto dal governo del suo fido Dmitri Medvedev; innalza il gran pavese per una crescita nei primi tre trimestri 2018 dell’1.7%.
È un discorso, anzi uno show, a tutto campo: lo “zar del XXI Secolo” non ha paura di compiere invasioni di campo (sulla Brexit, nel nome della democrazia, è contrario a un nuovo referendum) e di rovesciare frittate (sull’Ucraina, accusa gli Usa di interferire negli affari della Chiesa ortodossa, mettendo zizzania tra Kiev e Mosca, come se ce ne fosse bisogno). L’evento, al World Trade Center di Mosca, sul lungofiume Krasnopresnenskaya, era già record prima di cominciare: 1.702 i reporter russi e stranieri accreditati – mai così tanti nelle 14 edizioni di questo rito mediatico -, armati d’oggetti d’ogni tipo per attirare l’attenzione del portavoce Peskov e del presidente mattatore.
L’affondo sul nucleare è spontaneo, non innescato da domande. La Russia, avverte Putin, sviluppa nuove armi – “in futuro le avranno tutti, ma ora ce le abbiamo solo noi” – per assicurare il rispetto dell’equilibrio strategico, minato dallo scudo missilistico Usa, che Mosca “sa bene” essere collegato agli “apparati offensivi” americani. E per di più c’è lo spettro delle armi nucleari “tattiche”, ovvero a ridotto potenziale, che qualcuno vorrebbe impiegare davvero.
Un’apocalisse. Altro che i 2’ alla mezzanotte dell’Olocausto nucleare dell’orologio degli scienziati che misurano la minaccia atomica. Putin, poi, smorza i toni: è sicuro che “l’umanità avrà abbastanza buon senso” per evitare la catastrofe; e assicura che la Russia non “aspira a dominare il mondo”: “È un luogo comune – sostiene – propinato all’opinione pubblica occidentale perché la Nato ha bisogno di un nemico per ‘fare quadrato’ e questo nemico è la Russia”.

il manifesto 21.12.18
Netanyahu: agiremo con forza contro l’Iran in Siria, con il sostegno Usa
Usa/Israele/Siria. Il premier israeliano alza i toni dello scontro con Tehran dopo l'annuncio del ritiro delle forze Usa dalla Siria, fatto due giorni da da Trump. Ma per i suoi intenti gli occorre anche il via libera di Mosca
di Michele Giorgio


«Israele continuerà ad agire con forza contro i tentativi dell’Iran di arroccarsi in Siria. Intensificheremo gli sforzi e so che lo faremo con il pieno sostegno ed appoggio degli Stati uniti». Parole di Benyamin Netanyahu e suonano come una mezza dichiarazione di guerra dopo l’annuncio di Donald Trump sul ritiro delle forze militari Usa dalla Siria. Che l’Isis sia stato sconfitto, come afferma Trump, oppure no, al premier israeliano interessa davvero poco. Nella testa ha un solo obiettivo: rendere più aggressivo l’approccio di Israele nei confronti della presenza in Siria di forze dell’Iran alleato del presidente Bashar Assad. E il ritiro dei circa 2000 soldati Usa dal territorio settentrionale della Siria potrebbe facilitargli il compito. Sono poco aderenti alla realtà i toni apocalittici usati ieri della stampa israeliana riguardo a un presunto “abbandono” dello Stato ebraico da parte di Trump dopo che lo scorso settembre, il consigliere alla sicurezza nazionale Usa John Bolton, aveva assicurato che i soldati americani non avrebbero lasciato la Siria senza un ritiro iraniano dal paese.
Israele vuole tornare a colpire con forza in Siria la Guardia Rivoluzionaria iraniana e il movimento sciita libanese Hezbollah. Lo penalizza da diverse settimane la piccola crisi nei rapporti con Mosca cominciata dopo l’abbattimento qualche mese fa di un aereo da trasporto russo in fase di atterraggio in Siria attribuito da Vladimir Putin e i suoi generali a una manovra diversiva di cacciabombardieri israeliani. Un “incidente” che ha spinto la Russia a consegnare a Damasco il sistema di difesa antiaereo S-300 che ha limitato fortemente i movimenti dell’aviazione con la stella di Davide nei cieli della Siria.
Netanyahu è impegnato a rinnovare l’intesa con Putin che dal 2015 ha permesso a Israele, con la benedizione della Russia alleata di Assad, di poter colpire senza restrizioni in Siria. E i segnali che arrivano da Mosca sono relativamente incoraggianti per Israele. Il presidente russo, secondo alcune fonti, sarebbe disposto a dimenticare l’abbattimento dell’aereo e la morte di 15 avieri russi in cambio di un atteggiamento più “responsabile” di Israele ma verrebbe frenato dai suoi comandi militari. Con il consenso esplicito di Trump e, forse, in futuro anche quello tacito di Putin, Netanyahu avrebbe libertà di azione che cerca. Sul premier peraltro si concentrano nuovamente le pressioni dell’ex ministro della difesa ultranazionalista Avigdor Lieberman. Ieri, intervistato dalla radio delle forze armate, Lieberman ha parlato di «aumenti significativi del rischio di un conflitto generale nel nord, sia in Libano che in Siria», perché, ha aggiunto, la partenza dei soldati americani nell’area siriana al confine con l’Iraq significa creare «un territorio contiguo sciita fra Iran, Iraq e Siria». In sostanza Lieberman ha fatto capire che, dipendesse da lui, avrebbe già scatenato l’offensiva militare contro l’Iran, così come avrebbe attaccato Gaza se Netanyahu non l’avesse fermato.

Il Fatto 21.12
Trump tradisce i curdi. Lo vuole Erdogan (e l’Iran)
Usa - L’annuncio del ritiro dei militari americani rimasti a est ha messo in allarme l’esercito di Rojava: “Restano sguarnite anche le prigioni del Califfo”
di Roberta Zunini


La decisione di Trump di riportare a casa gli ultimi duemila militari americani rimasti nell’est della Siria a maggioranza curda ha lasciato gli alleati locali e stranieri basiti e preoccupati. Non solo il Pentagono, il Dipartimento di Stato e i più autorevoli senatori repubblicani ma anche il Regno Unito e la Francia, i partner nella coalizione anti Isis che contano più foreign fighters. Circa 3 mila musulmani di cittadinanza europea arruolati dall’Isis e sopravvissuti alla distruzione di Raqqa sono detenuti nelle carceri dei curdi siriani delle Unità popolari (Ypg), la milizia che costituisce la spina dorsale delle Forze democratiche siriane (Sdf), la compagine militare addestrata e supportata dai soldati americani che comprende anche gruppi di arabi siriani oppositori sia del presidente Assad sia dell’Isis. Grazie soprattutto alla strenua resistenza curda, iniziata nella città di Kobane 4 anni fa, il Califfato Islamico è stato quasi annichilito. Alcune sacche di resistenza al confine tra Siria e Iraq però continuano a preoccupare coloro che vivono in queste zone. Secondo Trump e il presidente turco Erdogan però il pericolo che risorgano è ormai tramontato. I curdi siriani dovranno quindi cavarsela da soli contro un eventuale ritorno in forze nella zona dei jihadisti e contro l’esercito turco che potrebbe varcare a est il fiume Eufrate ed entrare nel Rojava da un momento all’altro, come annunciato dal Sultano nei giorni scorsi. Per Erdogan i curdi siriani sono nemici giurati dato il loro stretto legame con il Pkk di Ocalan. La decisione di The Donald ha mostrato ancora una volta che i curdi vengono usati grazie alla loro conoscenza del terreno e allo spirito di sacrificio, ma quando si tratta di proteggerne l’autonomia vengono abbandonati. Finora a ostacolare l’agenda di Erdogan nel Rojava sono stati proprio gli Usa che hanno fatto dei curdi la propria fanteria. Subito dopo il clamoroso annuncio a sorpresa di Trump via Twitter, il Congresso nazionale del Kurdistan in esilio a Bruxelles ha diramato una nota in cui spiega che l’offensiva turca sarà un bagno di sangue per tutti i curdi del Rojava, civili compresi, come era accaduto ad Afrin, il cantone a ovest del fiume Eufrate, parte del Rojava, invaso dall’esercito turco all’inizio dell’anno. Inoltre si sottolinea che se le prigioni dove sono detenuti i foreign fighter potrebbero essere lasciate sguarnite o attaccate dai turchi e i jihadisti lasciati scappare.
“Per ora non ci sono stati grandi movimenti sul terreno, ma ci aspettiamo che le cose cambino presto e in peggio per noi”, dice Salih Muslim, responsabile delle relazioni diplomatiche del Pyd, il partito dell’Unione democratica curda del Rojava il cui braccio militare è costituito dallo Ypg. In una dichiarazione via internet, il comando generale delle Forze democratiche siriane spiega: “Mentre stiamo ancora combattendo contro il terrorismo nelle ultime roccaforti dell’Isis nel sud-est del paese e contro le sue cellule dormienti che stanno cercando di riorganizzare i suoi ranghi nella regione, la decisione della Casa Bianca di ritirarsi dalla Siria settentrionale e orientale influenzerà negativamente i nostri sforzi. Noi, come Sdf, vogliamo che a livello internazionale si sappia che la sconfitta finale del terrorismo non è ancora arrivata e questa dura fase richiede sforzi da tutte le parti e in particolare della Coalizione internazionale che deve fornire maggiore e continuo sostegno alle truppe sul terreno e non al ritiro dalla regione”. I curdi da tempo lamentato di non avere la capacità di gestire i detenuti dell’Isis e i loro familiari e hanno chiesto alle potenze occidentali di rimpatriarli per processarli in patria. Ma finora nessuno ha risposto. Nemmeno la Russia che ha anch’essa combattenti dell’Isis catturati. Putin ha dato parere positivo alla decisione di Trump. Se potesse lo ringrazierebbe affettuosamente, così come dovrebbe fare il nemico Iran e gli Hezbollah libanesi, alleati del presidente Assad. Il ritiro americano giova a tutti e tre.

La Stampa 21.12.18
I curdi cercano aiuto da Assad per resistere ai raid turchi
di G. Sta.

I curdi sono di nuovo soli, con le «montagne come unici amici» e poche carte da giocare. La dirigenza del Pyd, l’ala politica del gruppo guerrigliero Ypg, protagonista della lotta contro l’Isis, fatica ad assorbire lo choc dell’annuncio di Trump, poche righe che per il popolo del Rojava, il Kurdistan siriano, possono significare la fine. I curdi pensavano che le «migliaia di morti e feriti» lasciati sul terreno nella lotta allo Stato islamico avrebbero garantito la protezione Usa per gli anni a venire. Non avevano mai chiuso però i canali di dialogo con il governo di Bashar al-Assad. Ora negoziati sono in corso, secondo fonti vicine a Damasco, per assicurare la «protezione dei posti di frontiera» da parte delle forze del regime. Assad chiede come immediata merce di scambio e garanzia, la cessione del campo petrolifero Al-Omar, nella provincia di Deir ez-Zour, il più grande della Siria e cassaforte dei curdi.
Da Kobane sottolineano che l’intesa è possibile, anche perché «noi non abbiamo mai puntato all’indipendenza, ma all’autonomia con il riconoscimento della nostra cultura e la possibilità di usare la nostra lingua accanto all’arabo nell’amministrazione e nelle scuole». Ma non si fidano davvero. Già nel 1998 sono stati sacrificati da Damasco, con l’espulsione del loro leader Abdullah Ocalan, dopo un accordo fra Assad padre e Ankara. Ora temono una nuova intesa fra Assad figlio e Erdogan, simile a quella raggiunta per Idlib. Cioè la cessione alla Turchia di una fascia di territorio di confine, comprese le principali città curde: Kobane, Qamishlo, Hassakah. In cambio il regime potrebbe rioccupare il resto del territori a Nord-Est, con i principali pozzi petroliferi. Per questo ieri una delegazione curda è arrivata a Parigi, per chiedere aiuto agli europei. Ma è difficile che Parigi e Londra possano sostituirsi a Washington e per i curdi è di nuovo la «sindrome dell’abbandono» da parte dell’Occidente, sperimentata varie volte.

Repubblica 21.12.18
A Budapest
Il governo impone 400 ore di lavoro in più e di rinviarne il pagamento fino a tre anni
Nasce la fronda a Orbán ecco gli ungheresi che non hanno paura
La “legge schiavista” sugli straordinari porta la gente in piazza Studenti, operai, impiegati: così si è ricompattata l’opposizione
di Giampaolo Cadalanu


BUDAPEST Nella sala del centro commerciale di Lurdy Haz, appoggiato al muro mentre gli oratori contro Orbán si danno il cambio, Daniel ha lo sguardo spaurito, ma le idee già chiare, anche a 14 anni. «Mia madre lavora in un ufficio, è già costretta a fare un sacco di straordinari. Se questa legge entra in vigore, rischio di non vederla più». E se fra i critici del governo arrivati fin qui sfidando il gelo non ci sono giovanissimi, il motivo è semplice: «Hanno paura di essere denunciati dai professori». Forse il motivo è questo, o magari il fatto che è periodo di esami, ma la riunione dell’opposizione convocata da Ákos Hadházy e Péter Márki-Zay ha raccolto più entusiasmi fra le persone di mezza età. Eppure i due politici sono fra gli oppositori più noti. Il primo è diventato celebre suo malgrado, visto che assieme alla deputata Bernadette Szél è stato cacciato via in maniera molto brusca dalle guardie della tv pubblica mentre cercava di leggere una dichiarazione contro la legge sugli straordinari. Il secondo è il sindaco di Hódmez?vásárhely, ed è famoso proprio perché a febbraio ha strappato questa cittadina di provincia al candidato del partito Fidesz, suscitando speranze forse eccessive.
Il problema è che forse nemmeno la “legge schiavista”, voluta dal governo e firmata ieri dal presidente János Áder nonostante gli appelli contrari, sarà in grado di ricostruire la fiducia nei partiti. La norma che permette alle aziende di pretendere fino a 400 ore di straordinario e rinviarne il pagamento fino a tre anni dopo è servita a trascinare in piazza gli ungheresi ed è riuscita a ricompattare un’opposizione frammentata. Ma resta da vedere se i partiti saranno in grado davvero di superare le differenze per unirsi contro il regime dell’uomo forte Viktor Orbán.
La prova del nove è stasera: l’appuntamento per l’opposizione è davanti al Parlamento. «Voglio partecipare alla manifestazione contro questa mafia medievale. O si svolta, o possiamo dire addio all’Europa ed entrare nella federazione russa», dice Ivan Kollar, che in quanto sviluppatore di software non è colpito dalla nuova legge schiavista: «Motivi per protestare non mancano, a partire dalla legge che di fatto limita l’indipendenza dei giudici, per non parlare della corruzione, della sanità, delle pensioni…».
A 76 anni Katalin Somogyi non è colpita dalle conseguenze della legge: «Ma trovo orribile e sconvolgente che si possa imporre alle persone di lavorare per essere pagati tre anni dopo. Sempre che l’azienda non chiuda nel frattempo». Zoltan Herczeg, creatore di moda, non esita a presentarsi davanti alla folla indossando una t-shirt di sua creazione, con una sigla che tradotta liberamente significa: «Orbán è feccia”. «Ci ha rubato tutto: i soldi, lo spirito, il futuro».
Rab Andras, ingegnere, è deluso per il varo di una legge senza nessun accordo preventivo: «La mancanza di forza lavoro non si risolve così. Ma non credo nei partiti di opposizione, non sono affidabili».
Anche chi non è riuscito a raggiungere il luogo della riunione promette di partecipare alla manifestazione di domani. Al telefono Nora Eörsi dell’Unione studenti spiega perché la legge mette nei guai anche gli universitari: «Chi lavora per mantenersi agli studi rischia di non poter frequentare i corsi se viene costretto a fare tante ore di straordinario». Zoltan Magyar, che lavora alle fornaci dell’acciaieria di Dunaújváros, un’ottantina di chilometri a sud di Budapest, sottolinea che nelle grandi fabbriche i ritmi sono già serrati: «Gli operai sono al limite, impegnati nei festivi e nei fine settimana, non credo proprio che si possa pensare di costringerli a lavorare di più».
Mentre al microfono Ákos Hadházy promette che «la lotta non finirà, dopo Natale cercheremo ogni possibile strumento», sciopero generale compreso, e Péter Márki-Zay sottolinea che la protesta dilaga anche fuori dalla capitale, un provocatore si esibisce a buttarsi per terra mimando la cacciata dei deputati dalla tv di Stato. Hadházy è pronto a offrirgli il microfono, disinnescando la beffa, ma l’episodio serve a rimarcare che l’occhio del partito al potere Fidesz è sempre presente. Il significato è chiaro: protestate pure, Orbán va avanti per la sua strada. A garantirlo è la cappa pesante che copre gran parte dei mezzi di comunicazione.
Persino Lokal, il giornale gratuito che si distribuisce alle fermate della metropolitana, è un megafono del governo. Sull’ultimo numero riporta l’ennesimo sondaggio con domande come: «È d’accordo che il calo demografico debba essere combattuto con aiuti alle famiglie e non con l’immigrazione?». Lo spauracchio dello straniero, magari pure con un colore della pelle diverso, funziona sempre.
Sarebbe però semplicistico pensare che Orbán voglia imporre straordinari ai lavoratori per rispettare il “no” di principio all’immigrazione, fa capire Ágota Scharle, economista al Budapest Institute: «Forzato dalla necessità delle aziende, il governo ha già aperto le porte ai lavoratori ucraini e slovacchi». In altre parole, le pressioni degli amici industriali fanno superare anche i pregiudizi xenofobi. Salvo che poi le condizioni offerte dalle industrie ungheresi sono meno favorevoli di quelle proposte dalla concorrenza, e i lavoratori qualificati scelgono di andare altrove.

Repubblica 21.12.18
Il congresso dem. I cambi di casacca
Ex ministri e dirigenti nel Pd è fuga dal fronte renziano
di Emanuele Lauria


In quella non remota era politica in cui tutti erano renziani, loro lo erano di più.
Per vicinanza storica o per ruolo istituzionale: l’ex Rottamatore li aveva voluti nel governo o nella segreteria del Pd.
Ora stanno tutti con Zingaretti nella corsa delle primarie, proprio mentre l’ex premier si riappacifica a pranzo con Carlo Calenda («è andato molto bene»).
Ex ministri di chiara fama come Marianna Madia o Roberta Pinotti, sottosegretari di peso come Gian Claudio Bressa che si occupava di rapporti con le Regioni e a seguire uno stuolo di dirigenti del partito guidato da Matteo Renzi che oggi gli voltano le spalle.
Sono, se volete, i “cambiacasacca” dei dem. Ma guai a chiamarli così: «Io continuo a seguire un percorso riformista, non seguo più Matteo che credo uscirà dal Pd», dice l’ex vicepresidente del Senato Rosa Maria Di Giorgi, che di Renzi fu assessora comunale a Firenze. «Ho creduto in questo giovane: non so se oggi è cambiato, certo è cambiato lo scenario attorno a lui prosegue la Di Giorgi - e non se ne è accorto. Non si è mai chiesto, semplicemente: da dove ricominciamo?».
La deputata milanese Lia Quartapelle, che con Di Giorgi ha firmato l’appello delle donne per Zingaretti, è migrata solo negli ultimi giorni, al seguito di Paolo Gentiloni, sul fronte del governatore del Lazio: «La categoria dei renziani mi sembra un po’ superata», scherza. E ricorda, adesso, di come lei sia espressione di un Pd vincente, quello milanese di Sala, ed è naturale appoggiarne un altro, quello di Zingaretti: «Sono per un partito riformista: purtroppo negli ultimi anni si sono inseguite riforme liberali o istituzionali, non quelle sociali. E la gente ci ha punito».
Un “fedelissimo” dell’ex premier, nell’anonimato, li chiama senza mezzi termini “traditori”. Di certo, i renziani approdati sulla sponda zingarettiana formano un fronte consistente. Che potrebbe fare la differenza. Le conversioni, a volte, sono clamorose: Lorenza Bonaccorsi, ex deputata, nel 2012 coordinava i comitati per Renzi nel Lazio. Oggi è in giunta regionale e ovviamente sostiene il suo presidente: «Mi scusi, sono in consiglio, sentiamoci più tardi». E più tardi il suo cellulare squillerà a vuoto. Pare che anche l’ex ministro per la Coesione territoriale, Claudio De Vincenti, stia con Zingaretti: ma neanche lui ha voglia di parlare. «Sono in macchina, proprio non posso».
Parla, eccome, Francesca Puglisi, esponente di areadem che Renzi volle come componente della segreteria del Pd, con la delicata delega alla scuola: «Il più grande errore di Matteo? Non aver saputo fare squadra. Io ho condiviso con lui la fase della riforma della buona scuola. Una legge discussa, che difendo tuttora». Ma adesso vengono fuori le critiche al governo Renzi: «La gestione di quella riforma - afferma l’ex senatrice - non è stata adeguata, soprattutto per quel che riguarda le assunzioni: non dovevamo costringere tanti insegnanti a distacchi familiari dolorosi».
Anche nella sua Toscana Renzi non è più amato come un tempo.
Federico Gelli, che dell’ex segretario è stato compagno negli scout e che da lui ha avuto l’incarico di responsabile del settore Sanità, oggi ha cambiato traiettoria politica. Hanno pesato i dissidi locali, visto che Renzi gli ha preferito come segretaria regionale Simona Bonafè. Gelli la prende alla larga ma poi affonda il coltello: «Non rinnego nulla di quello che abbiamo fatto ma di certo è stato dilapidato un patrimonio politico. Zingaretti?
Lui più di altri possiede il dna riformista di questo partito. E poi io ho un grande rapporto con Gentiloni». La fuga dall’ex fortezza renziana è in corso anche sui territori: con Zingaretti è passata la vicepresidente della Regione Emilia Romagna Elisabetta Gualmini come l’ex assessore alla Sanità siciliano Baldo Gucciardi. Enzo Bianco, già ministro dell’Interno e sindaco di Catania, sabato scorso ha portato plasticamente la sfida delle primarie sin dentro la sua cerimonia nuziale. A fare da testimoni, infatti, Paolo Gentiloni (che sta con Zingaretti) e Graziano Delrio, che sostiene Martina.
«Sono per l’unità ma la mia scelta personale è per Zingaretti. Tanto un dispiacere, a qualcuno, dovrò darlo...».

La Stampa 21.12.18
L’anima romantica
di Mattia Feltri


Era da un po’ che si rifletteva su quale fosse la fonte d’ispirazione della palingenetica legge Spazzacorrotti, e infine ecco l’illuminazione. A parte il solito inasprimento delle pene (il 6 novembre 1929 il Comitato centrale dei commissari del popolo sovietico vietò per qualsiasi reato di comminare pene inferiori a un anno), per i corrotti - e basta che siano semplicemente indagati - è confermato il sequestro preventivo di beni e soldi («Le finezze giuridiche non occorrono perché non occorre chiarire se l’imputato sia colpevole o innocente: il concetto di colpevolezza, vecchio concetto borghese, è stato adesso sradicato», Nikolaj Krylenko, Commissario del popolo durante le purghe staliniane). I beni sequestrati al presunto corrotto possono rimanere sotto sequestro anche in caso di amnistia o assoluzione non ancora definitiva (articolo 58-6 del codice penale sovietico, comma SS, sospetto spionaggio, o comma SPN, spionaggio non provato, da sanzionare col massimo della pena). Il famoso Daspo, cioè l’esclusione a vita dagli affari pubblici, può rimanere anche in caso di amnistia o assoluzione non definitiva («Noi ci difendiamo non solo dal passato, ma anche dal futuro», Andrej Višinskij, procuratore generale dell’Urss durante le purghe staliniane). Infine non sarà punibile chi decida di denunciare i complici («Io ho denunziato trentacinque persone, tutti i miei conoscenti: lo consiglio anche a lei, faccia più nomi che le sia possibile», un compagno di cella alla Lubjanka di Aleksàndr Solženicyn). A furia di dargli dei fascisti, abbiamo trascurato quella romantica vena stalinista.

il manifesto 21.12.18
Avvenire contro Salvini: restituisca lui i soldi
Botta e risposta tra il vicepremier e il direttore del quotidiano della Cei
di Massimo Franchi


Trasformare in «giornale comunista» Famiglia Cristiana e in «potente giornalone» Avvenire sono espedienti che solo un Salvini in difficoltà per aver totalmente cambiato idea sui fondi per l’editoria poteva escogitare. Il primo lo aveva lanciato qualche giorno fa, il secondo lo ha tentato ieri mattina, ma è stato prontamente stoppato dal direttore del giornale della Comunità episcopale italiana Marco Tarquinio.
Il vicepremier leghista ha tirato in ballo il quotidiano della Cei a Radio Anch’io su Radio Uno dicendo: «Avvenire, il giornale dei vescovi, prende 6 milioni di contributi pubblici dai cittadini italiani: penso che una parte di quei soldi possano essere spesi per chi è davvero in difficoltà». La replica ai microfoni del Gr1 del direttore Tarquinio è stata ineccepibile: «C’è qualche politico che ieri come oggi non sopporta che ci sia una libera stampa in questo paese. Un ministro dell’Interno così sollecito nei confronti delle persone in disagio economico potrebbe magari dare il buon esempio cominciando con la restituzione immediata dei 49 milioni di euro» che invece la Lega restituirà in comode rate in 76 anni, quando gran parte dei quotidiani a cui sarà azzerato il fondo del pluralismo in soli 3 anni saranno morti da tempo.
Salvini è riuscito anche a raddoppiare l’entità del contributo attuale del fondo per il pluralismo. «Nel momento in cui si chiedono sacrifici a tutti, penso che 130 milioni di euro (in realtà sono meno di 60, ndr) che i cittadini italiani, che faticano a tirare a fine mese, danno ogni anno a giornali che a volte vendono qualche migliaio di copie» siano troppi.
La verità ormai risaputa è che la Lega – fino a giorni fa strenuo difensore dei giornali locali in primis con il responsabile di partito Alessandro Morelli, ora silente – ha chiuso un accordo politico con il M5s. Lo scambio è chiaro: il Terzo Valico non sarà bloccato ma il fondo per il pluralismo dell’editoria sarà azzerato.
A rivendicarlo come un successo del Movimento – e a favorire la Casaleggio&Associati che ha imposto il suo diktat anche contro ogni piccola modifica come la richiesta di posticipare il taglio al 2020 – è stato l’altro vicepremier Luigi Di Maio. «Taglio fondi all’editoria, fatto», ha detto in un video su Facebook, ricordando «il Vaffa day del 25 aprile 2008: in piazza per chiedere l’indipendenza della stampa, della funzione sociale importante della stampa e dell’editoria, togliendogli i soldi pubblici in modo che una testata non debba dipendere dall’emendamento di governo», è la bizzarra motivazione, visto che il fondo rimarrà e la riforma Lotti rendeva il finanziamento strutturale e trasparente, seppur a sua volta tagliato.
Fra chi perderà tutto il finanziamento già dal primo gennaio – proprio a causa della riforma Lotti che cancella i fondi ai giornali di partito e dei sindacati – è Conquiste del lavoro, quotidiano del sindacato Cisl. Diventata formalmente cooperativa indipendente qualche anno fa, Conquiste del lavoro è fatta di 10 giornalisti più amministrativi e grafici. Per loro è già partito il contratto di solidarietà.

Il Fatto 21.12.18
Si spacca anche la Cgil: come la sinistra
Verso il congresso - Vincenzo Colla esce allo scoperto e si candida contro Maurizio Landini
di Salvatore Cannavò


Anche la Cgil finisce nel tritacarne delle divisioni della sinistra. Dopo la candidatura a segretario generale di Maurizio Landini, avanzata personalmente da Susanna Camusso, ieri è stata ufficializzata quella alternativa di Vincenzo Colla, già segretario dell’Emilia Romagna, una delle regioni più importanti e radicate del sindacato “rosso”.
L’annuncio è stato fatto al direttivo nazionale assicurando che, comunque vada, alla fine ci sarà un solo segretario e sarà salvaguardata l’unità interna.
Ma così non è. La candidatura era già stata avanzata informalmente nei mesi scorsi e poi era sembrata sfumare. I sostenitori di Colla, a cominciare dal sindacato Pensionati, passando, appunto, per l’Emilia Romagna, hanno preferito mettere la sordina allo scontro interno concentrandosi sui risultati dei congressi di base. Anche perché la candidatura di Landini è apparsa subito una novità: sia perché chiude il conflitto durato anni con Camusso, sia per il ruolo mediatico del personaggio e anche per la popolarità tra la base e i lavoratori in generale.
Mentre in superficie andava in onda la “tregua armata”, però, nei congressi di base e in quelli nazionali, entrambi gli schieramenti sono stati molto attenti a fare incetta di delegati per il congresso nazionale. In quella sede, infatti, sarà eletta l’assemblea nazionale a cui spetta il compito di eleggere il segretario generale.
I sostenitori di Landini si dicono certi di avere la maggioranza, mentre quelli di Colla sono convinti che la platea sarà divisa a metà. Potrebbe finire 60 a 40 e si tratterebbe comunque di una rottura importante, tra l’altro all’interno dello stesso documento congressuale che così avrebbe due “interpretazioni”: più tradizionale la versione di Colla, attento ai movimenti dei partiti di sinistra oltre che all’unità con Cisl e Uil; più movimentista quello di Landini con un profilo in linea con il suo passato, pur con le necessarie mediazioni interne. Colla sostiene il Tav e avversa il welfare aziendale, Landini il contrario.
Le due “interpretazioni”, però, non sono state esplicitate agli iscritti che hanno fatto un congresso al buio. E non è un caso se rispetto allo scorso congresso stavolta hanno partecipato di meno. Segno di una crisi di fondo che la spaccatura in corso potrebbe rendere ancora più profonda. A meno che alla fine non si trovi la soluzione unitaria con il ritiro di uno dei due contendenti, probabilmente Colla, la cui candidatura sarebbe però servita a consolidare un ruolo forte all’interno del sindacato.
È una ipotesi che i sostenitori di Landini sostengono ma quelli di Colla smentiscono. Ma è comunque una situazione che mette la Cgil in una condizione di divisione interna e di conta sanguinosa. Ricorda quello che è accaduto per anni nei partiti della sinistra. L’esito potrebbe essere lo stesso.

Corriere 21.12.18
Una città senza normalità
Statuto speciale per Roma (se non è tardi)
di Ernesto Galli della Loggia


I mastodontici bus turistici fermi per protesta (ma è legale?) perché vogliono continuare a spadroneggiare come fanno da sempre, tassisti in sciopero impegnati nella rissa con gli autisti con licenza da noleggio, attese spaventose a Termini e a Fiumicino, traffico impazzito, la città che progressivamente si blocca. A Roma l’ennesima giornata d’inferno. In realtà solo una giornata come tante altre. Ormai infatti nella capitale d’Italia la normalità è sparita da molto tempo: non si può essere più sicuri in alcun modo che una qualunque cosa sia come deve essere, che qualunque servizio funzioni.
Tutto in ogni momento può rompersi, interrompersi, andare in pezzi, fermarsi, collassare. E da tempo, infatti, tutto sta collassando. La pavimentazione delle strade e dei marciapiedi è perlopiù un ricordo. Privo di un numero sufficiente di mezzi, e con quelli in servizio molti dei quali ormai vetusti e spesso in preda alle fiamme, il trasporto pubblico è virtualmente un servizio che spesso esiste esclusivamente sulla carta e sulle paline delle fermate. Le vetture quasi tutte sgangherate della metropolitana percorrono gallerie inquinate, stazioni chiuse, tra ritardi, guasti, assenteismo del personale. Tonnellate d’immondizia lordano quasi ogni angolo di strada, e nelle periferie vi razzolano i cinghiali. Non curati da anni, parchi e giardini stanno perdendo il loro aspetto ameno d’un tempo mentre la vegetazione sta tornando allo stato selvaggio tra alberi caduti ed efflorescenze smisurate. Intere parti di Villa Borghese sono praticamente un cesso all’aperto dov'è impossibile perfino passare, non dico passeggiare. Nel cimitero cittadino l’attesa delle salme per essere cremate o poste nei loculi arriva a mesi e mesi; così come si conta a mesi il tempo di attesa per ricevere dai servizi comunali una carta d’identità. I marciapiedi non puliti da nessuno sono dappertutto coperti da una fanghiglia fatta di foglie, sporcizia di anni, cartacce, che quando piove ottura i tombini e provoca pozzanghere gigantesche dovunque. La presenza dei vigili urbani a presidio e controllo del territorio è di fatto inesistente: a Roma chiunque può costruirsi a suo piacere un giaciglio di fortuna, vendere in mezzo alla strada qualsiasi cosa, parcheggiare in qualunque modo, scrivere o disegnare sui muri o su qualunque spazio ciò che vuole. L’impunità è ormai la norma della città, nel cui cielo svolazzano torme di gabbiani il cui lugubre grido suona quasi come un presagio.
Di questa vera e propria apocalisse urbana Virginia Raggi è responsabile ma solo fino a un certo punto. Sindaco in certo senso a sua insaputa, la poveretta si è trovata a guidare due o tre milioni di persone tra le più difficili che potessero capitarle: i romani. In grande parte privi di una vera tradizione civica, difficilmente permeabili alle regole, spesso menefreghisti e arroganti, immersi nel loro frequente opaco «particulare», negli «affari» loro.
Questo diffuso e indomabile temperamento dai tratti plebei (spesso tale anche se si tratta di milionari o di abitanti dei «quartieri alti») conta, conta senz’altro, ma solo se lo si innesta in un più generale dato storico. Roma non è una città come le altre, non assomiglia a nessun’altra. La dimensione del Comune le è profondamente estranea. Le è estranea l’idea di una tradizione sorta e racchiusa nella sua cerchia urbana; priva di un vero e proprio contado ma meta fin dai primordi di continui arrivi di forestieri, essa non conosce il vincolo intenso di una comunità stabile nel tempo né l’operosa fattività di questa, la sua economia e la sua stratificazione sociale essendosi sempre modellate, per l’appunto, su un potere che abitualmente andava ben oltre i suoi confini. Può piacere o meno ma storicamente Roma ha una specificità, insomma, che non è riducibile a una misura urbana e cittadina qualunque. È una città che porta nel suo dna un carattere diverso: imperiale e universale.
Proprio per questo l’Italia ne ha sempre sentito il fascino senza mai riuscire però a sentirla fino in fondo come una cosa sua, come una sua parte. Proprio per questa sua intima diversità tuttavia, se il Paese vuole conservare Roma nel suo rango di capitale — come è giusto e inevitabile che sia — tenendola con il decoro appropriato a tale ruolo, dovrebbe pensare a sottrarla all’omogeneità normativa che la equipara a qualunque altra città della Penisola.
È ciò che fu tentato in modo superficiale e con una sicumera solo un po’ ridicola, quando anni fa il sindaco Alemanno fece adottare la dizione «Roma capitale» al posto di quella fino allora in uso di «Comune di Roma». Ma si è trattato di un cambio di parole che non sembra avere avuto alcun effetto oltre quello molto probabile di arricchire qualche tipografia incaricata di stampare milioni di nuovi moduli con la nuova intestazione. È necessario ben altro: maggiore fantasia e maggiore determinazione.
Bisognerebbe avere il coraggio per una città speciale di pensare a un vero proprio Statuto speciale, appositamente concepito. Incominciando per esempio, previa modifica costituzionale, a inventarsi un meccanismo inedito per l’elezione della guida della città (facendo ad esempio partecipare un elettorato più largo di quello cittadino?), soprattutto attribuendole dotazioni economiche e poteri speciali. Lo so, lo so: per farlo ci vorrebbe qualcuno con la volontà e l’intelligenza necessarie, una classe dirigente, un ministro, magari un governo. Come si vede insomma siamo sempre lì: consumandoci in un’attesa che ormai però, almeno a Roma, sta diventando solo l’attesa della fine.

Repubblica 21.12.18
Roma, il caso dei pullman
Bus in centro Raggi resista
di Sergio Rizzo


Meglio tardi che mai. Nei mesi concitati della campagna elettorale per le elezioni comunali a Roma la candidata sindaca Virginia Raggi aveva promesso: « I bus turistici resteranno fuori dall’anello ferroviario » . Una promessa sacrosanta, per cercare almeno di limitare i danni al manto stradale martoriato dai mezzi pesanti (i torpedoni più grandi arrivano anche a superare 200 quintali a pieno carico), alleviare il traffico infernale del centro cittadino, stabilmente intasato dai pullman, e ridurre il livello di polveri sottili in una delle capitali più inquinate d’Europa.
La decisione concreta, però, si continuava a rinviare. E si è continuata a rimandare anche quando alcuni fatti gravi accaduti nel cuore della città, con un paio di pedoni morti schiacciati da quei bestioni, avrebbero invece imposto una risposta immediata. Per non compromettere, è stata allora la motivazione, la stagione turistica con i pacchetti già venduti (!!!). Tanto da far sospettare che la forza della potente lobby dei pullman, sostenuta evidentemente da tutto l’indotto turistico laico e religioso, fosse tale da spingere la realizzazione di quella promessa oltre le calende greche. Ma ora, finalmente, siamo al dunque. È previsto che dal primo gennaio i pullman turistici non possano più scorrazzare liberamente nel centro storico, con la facoltà di accedere nella zona a traffico limitato allargata solo in modo contingentato e senza che sia consentito loro di attendere i turisti davanti ai monumenti sostando al di fuori dei cosiddetti stalli. E qui viene con ogni probabilità la parte più difficile del lavoro: resistere all’offensiva in atto perché nulla cambi.
Che la lobby dei bus potesse per protesta paralizzare la città con i danni conseguenti, com’è accaduto ieri, c’era da aspettarselo. Anche le critiche erano attese, e perfino quelle apparentemente più logiche: in una città dove il trasporto pubblico è ai minimi termini, come si potranno muovere i turisti? Un’argomentazione che certo non è senza fondamento. La qualità del trasporto pubblico a Roma è ben al di sotto del livello di decenza. Il servizio dev’essere riportato in condizioni minimamente accettabili, su questo non si discute. Ma dev’essere fatto in primo luogo per garantire l’agibilità urbana ai cittadini, non perché serve al turismo. E bisogna purtroppo dire che non si avvertono i segni della svolta radicale che sarebbe necessaria.
In ogni caso, tuttavia, lo stato in cui versa l’Atac non può essere preso a pretesto per giustificare l’invasione dei pullman turistici. Come neppure le ventilate ripercussioni economiche su quelle aziende di trasporto e le relative conseguenze sui posti di lavoro, ovviamente importanti per quanto tutte da valutare, possono impedire una decisione che dovrebbe andare a vantaggio dell’intera città. Del resto è difficile immaginare che un cinese che vuole visitare Roma possa rinunciare al viaggio soltanto perché non può arrivare con un bus da 70 posti davanti a San Pietro, a pochi metri dal Colosseo o all’ingresso della Bocca della Verità... Andrebbe ricordato che ci fu un tempo, all’epoca del Giubileo del 2000, nel quale era inibito l’accesso al centro ai bus che dovevano sostare in apposite aree. Senza che ciò provocasse fallimenti a catena e licenziamenti di massa in quel settore. Ed è la dimostrazione che in una capitale di un Paese sviluppato, fragile e preziosa come la nostra, è possibile tenere insieme il turismo e il rispetto di certe regole. Basta solo organizzarsi e seguire il buonsenso.
Per questo l’errore peggiore in cui l’amministrazione di Virginia Raggi ora potrebbe cadere sarebbe quello di cedere a pressioni che arrivano in qualche caso a sfiorare l’intimidazione. Meglio tardi che mai, ma la battaglia è giusta e va portata fino in fondo senza tentennamenti.

Corriere 21.12.18
Nuova web tax, editori stupiti: tassa anche noi
di Rita Querzè


Tramite la nuova web tax il governo punta a garantire alle casse dello Stato 150 milioni quest’anno e 600 a regime dal 2020. La norma sarebbe operativa a partire dall’ultimo trimestre del 2019. Ma appena messa nero su bianco quella che doveva essere una «tassa Robin Hood», in grado di mettere le mani nelle tasche dei colossi del web che sfuggono al Fisco in Italia, ha suscitato le proteste di Confindustria Digitale e Fieg, la Federazione italiana degli editori. Entrambe convinte che alla fine la nuova web tax potrebbe risolversi in un inasprimento della pressione fiscale sulle aziende italiane. Nel merito, la tassa riguarda le società con ricavi — ovunque realizzati — pari o superiori a 750 milioni, di cui almeno 5,5 derivanti da servizi digitali. Il dovuto al Fisco sarebbe pari al 3% dei ricavi digitali. Indipendentemente dal fatto che alla fine l’azienda sia in utile o in perdita. «La web tax dovrebbe far pagare le tasse a chi oggi non le paga in Italia. Invece questa imposta colpisce i ricavi anche delle aziende italiane già soggette al prelievo ordinario — ribadisce il presidente della Fieg Andrea Riffeser Monti —. Rischia di deprimere ulteriormente i bilanci delle nostre imprese. Non può costituire un alibi per una forma generalizzata di nuova tassazione».

Il Fatto 21.12.18
Il sogno del Papa: mai più preti gay
di Marco Marzano


Il papato di Francesco, iniziato nel 2013, è entrato da tempo in una fase di completa paralisi, quasi scomparendo dalle cronache. Anche i suoi tanti apologeti sono ormai, dinanzi all’evidenza palmare del tramonto di ogni ipotesi riformatrice, sempre più spesso costretti ad un imbarazzante silenzio. La lettura del libro-intervista La forza della vocazione (conversazione con Francesco Prado, pubblicato da EDB) da pochi giorni in libreria conferma appieno la sensazione che da Santa Marta non ci si possa aspettare più nulla di buono.
Il cambiamento della disciplina dei ministeri ecclesiastici è il punto più importante dell’agenda riformatrice, dal momento che riguarda sia il ruolo delle donne nella Chiesa che il regime del celibato obbligatorio del clero. Su tutto questo, nell’intervista del papa, si trova solo una stanca conferma della concezione tradizionale del sacerdozio cattolico e cioè di un modello anacronistico e ipocrita che pretende di fare di ogni maschio sacerdote un piccolo martire: totalmente dedito alla sua altissima missione, incorruttibile e gioiosamente capace di castrare ogni desiderio di affettività e di amore concreto per il prossimo.
Se avesse voluto pronunciare delle parole di verità, il papa avrebbe dovuto fare almeno un cenno alle gravi sofferenze psicologiche di tantissima parte del clero cattolico e aggiungere che, come ormai documentato dall’enorme quantità di inchieste, documenti, reportage giornalistici e scientifici, la realtà del celibato ecclesiastico è ben diversa dall’ideale irraggiungibile e disumano disegnato dalla dottrina cattolica in tempi molto lontani dal nostro. Avrebbe dovuto il papa almeno menzionare tra i problemi legati alla condizione dei sacerdoti cattolici quello dei gravissimi e numerosi abusi commessi ai danni di minori e non solo.
Questo avrebbe dovuto dire il papa. E invece l’unico riferimento alla sessualità che troviamo nelle pagine della “forza della vocazione” è dedicato all’ennesima e sconsolante stigmatizzazione dell’omosessualità. A questo proposito, il papa ribadisce che, indipendentemente dal loro comportamento, nelle file del clero gli omosessuali non dovrebbero essere ammessi. “La chiesa raccomanda che le persone con questa tendenza radicata non siano accettate al ministero né alla vita consacrata. Il ministero o la vita consacrata non sono il loro posto”, ha detto perentoriamente il papa a chi lo intervistava. Ma Jorge Mario Bergoglio non si è limitato a questo e ha accennato al fatto che l’omosessualità è, sono sue parole, una “mentalità” divenuta “di moda”. L’omosessualità sarebbe cioè oggi per il pontefice, più che un orientamento sessuale, una sorta di ideologia o almeno uno stile di vita che, dal suo punto di vista, rischia di diffondersi pericolosamente anche nella Chiesa, una sorta di malattia contagiosa che minaccia di farsi strada anche nella comunità ecclesiale.
L’elemento implicito nel ragionamento del papa è che gli omosessuali non siano in grado, per loro natura, di tenere a freno i loro impulsi sessuali, che siano più distanti degli altri da una piena condizione umana, che siano meno capaci, a causa della loro condotta irresponsabile, di evitare scandali e clamori.
Le parole di Francesco confermano che il papa argentino, al pari di quanto fanno da sempre i cattolici reazionari, è pronto a identificare negli omosessuali il principale capro espiatorio di tutti i malanni che affliggono il celibato ecclesiastico. Basterebbe cacciare gli omosessuali dal clero (o meglio non ammetterli tra i suoi ranghi), questo sembra suggerire il papa, per risolvere come d’incanto i problemi legati alla disciplina del celibato. E dunque riportare la chiesa nella giusta carreggiata.
Con questo ragionamento, Francesco ha preso due piccioni con una fava: da un lato, ha fatto un’importante concessione alla destra interna, che di lui ha a lungo diffidato e che sul tasto dell’omofobia preme da sempre, dall’altro, ha fatto mostra di adoperarsi in una difesa a oltranza del tradizionale modello clericale tridentino, ovvero di una struttura ecclesiale basata sull’eterna supremazia di una casta di maschi celibi e la perenne esclusione delle donne dai ruoli di comando.
Le conseguenze sul piano pratico del nuovo messaggio papale non sono difficili da intuire: tutti (e sono moltissimi) i seminaristi e i preti gay dovranno moltiplicare le cautele e aumentare gli sforzi per tenere segreta la loro vera identità sessuale. Dato che il mondo non cambia a seguito delle minacciose esortazioni di un anziano pontefice, costoro sono stati di fatto invitati a raddoppiare le dosi di ipocrisia necessarie per castigare con severità i costumi altrui e a proclamare solennemente dal pulpito, anche a propria discolpa, la condanna definitiva dell’omosessualità in tutte le sue forme. Almeno fino al prossimo scandalo.

Repubblica 21.12.18
In una parrocchia di Roma
Il prete fa spiegare il Vangelo ai gay "Ci arricchiscono"
La scelta del sacerdote apprezzata dai fedeli "Nella parola di Dio c’è tanta inclusività"
di Paolo Rodari


ROMA Una cosa è essere aperti teoricamente all’inclusione, un’altra è davvero ascoltarsi.
Non è detto che il punto di vista mio sia sempre il migliore. Per questo abbiamo chiesto che siano le persone omosessuali che già frequentano la nostra parrocchia a introdurre mensilmente un momento di preghiera aperto a tutti. In questo modo partecipano alla vita comunitaria senza ghettizzarsi e portano un contributo importante per ognuno».
Don Paolo Salvini è parroco a Roma a San Fulgenzio, nel quartiere di Monte Mario. La sua è una realtà da sempre aperta della diocesi, che ha iniziato a ospitare un gruppo di credenti gay alcuni anni fa.
«Non facciamo una lettura omosessuale della Scrittura — ci tiene a dire don Paolo — ma permettiamo alle persone omosessuali di parlare della Scrittura secondo la loro sensibilità affinché tutti ne siano arricchiti. Agli incontri sono invitati tutti i parrocchiani, adulti e giovani, e devo dire che lo fanno in tanti e con gioia».
Fino a qualche tempo fa le persone omosessuali si riunivano da sole. Poi la "sveglia", arrivata loro dalle parole della teologa Antonietta Potente: «State qui, fra di voi, ma come possono le vostre vite essere humus per gli altri se non uscite? Cercate di confrontarvi, di trovare strade di incontro con tutti i parrocchiani, affinché siate davvero occasione di stimolo».
E così è stato, anche grazie al placet del nuovo vicario di Roma Angelo De Donatis.
Il gruppo che frequenta la parrocchia si chiama Nuova Proposta, polo romano di Cammini di Speranza, l’associazione nazionale che riunisce le persone Lgbt cristiane. Racconta il portavoce Andrea Rubera: «All’inizio eravamo ospitati per fare degli incontri fra di noi, senza contaminazione con la parrocchia. Poi è arrivata dal parroco la proposta di implicarci di più con gli altri, e così abbiamo fatto. Ogni mese apriamo una catechesi nella quale riflettiamo su degli episodi del Vangelo significativi dal punto di vista dell’inclusività — il dialogo fra Gesù e la Samaritana, ad esempio — quindi facciamo un momento di silenzio e poi ci confrontiamo. A tema non c’è l’omosessualità, la prospettiva è infatti un’altra, è avere voce per tutti, è far sì che la nostra sensibilità abbia diritto d’esistenza. Tempo fa avevo partecipato a degli incontri che in forma più o meno nascosta la diocesi organizzava per gli omosessuali credenti. C’era sempre qualcuno che doveva "indottrinarci". Qui no. Qui il nostro punti di vista conta, e contiamo noi come persone».
"Building a Bridge", non a caso, è il titolo del libro del gesuita James Martin che ha fatto scuola anche in Italia. «Cosa desiderano gli omosessuali credenti dalla Chiesa?» si era chiesto in una intervista su Repubblica. «La stessa cosa che tutti vogliono tutti sentirsi a casa».
«Inclusione — recita infatti il volantino d’invito alle catechesi di San Fulgenzio — significa guardare all’altro alla pari, creare ambiti sempre più larghi dove ciascuno possa sentirsi a casa propria, partire dalla valorizzazione delle diversità per creare "nuove cose"». Dice ancora Rubera: «La premessa è l’ascolto non giudicante, una metodologia molto forte, dunque, che costringe ad ascoltare l’altro senza volere a tutti i costi controbattere».
Certo, le catechesi non sono l’unico momento simile a Roma.
Da qualche mese Nuova Proposta assieme a Comunità di Vita Cristiana, una realtà laicale legata ai gesuiti, offre occasioni d’incontro per genitori con figli omosessuali. Per molti genitori credenti il coming out del figlio può essere uno shock, parlarne insieme aiuta a capire, a comprendere, a includere.
Anche perché, come ha detto più volte il teologo Alberto Maggi, «l’orientamento sessuale al fine delle Beatitudini della vita, non conta». Ciò che conta, piuttosto, è la qualità d’amore che ognuno decide di dare alla propria esistenza.

La Stampa 21.12.18
India, un treno-ospedale porta medici e chirurghi nei villaggi più remoti
di Carlo Pizzati


Quando quei sette vagoni azzurri con sopra dipinti un arcobaleno, nuvole e fiorellini sfilano quieti nella notte buia delle campagne indiane, dove elettricità ce n’è poca e quindi le stelle brillano più intense, si sente mormorare una frase in lingua hindi: «jadoo ki gaadi!», eccolo, arriva, è «il treno magico».
Lo chiamano anche il treno dei miracoli, il Lifeline Express, l’ospedale sulle ruote, una piccola meraviglia in una Paese che ne ha davvero bisogno: un treno-ospedale, i cui vagoni sono sale chirurgiche e ambulatori con macchinari moderni e squadre di medici e infermieri, che arriva direttamente nelle zone più sperdute e più lontane dagli ospedali tradizionali.
Tre giorni fa, il treno magico è arrivato a Nord dello stato di Tripura, alla stazione di Churaibari. Il primo giorno, i medici hanno già curato 400 pazienti, il secondo erano 600. Operazioni come 77 cataratte urgenti, ma anche diagnosi oncologiche, cure dentistiche, esami ginecologici.
L’idea di Zelma
Iniziò tutto in un caldo luglio del 1991, a Mumbai. Una signora molto determinata, Zelma Lazarus, che per quelle strane coincidenze del caso era stata partorita proprio in un treno, s’era messa in testa di trasformare tre vagoni abbandonati dalle Ferrovie dello Stato Indiane in un ospedale ambulante.
Non fu facile. Zelma entrò senza appuntamento al Ministero della Salute e poi nell’ufficio del ministro dei Trasporti. Fece la fila, l’anticamera, la gavetta, tutto il necessario. Si fece sbattere tante porte in faccia. Per questo oggi tutti ricordano lo slogan di questa signora che è riuscita a mettere d’accordo tutti, i ministri, i miliardari delle grandi corporation, i funzionari delle Ferrovie: «Tira su la testa. Allunga il collo. Cos’è la cosa peggiore che ti può accadere? Che ti arrivi un bel “no”. Ma “no” vuol dire semplicemente Nuova Opportunità!”.
E così, da quei tre vagoni scalcinati dove a malapena si riusciva a far operare cataratte e polio, grazie alla Impact India Foundation di cui la Lazarus è fondatrice, direttrice e amministratrice delegata, si è arrivati ora a sette vagoni con un laboratorio per le patologie, un’unità per la mammografia, un laboratorio per gli esami ginecologici, un’unità dentistica, consultori e apparecchi a raggi-X collegati via Wifi ai grandi ospedali metropolitani dove i medici possono esaminare le lastre a distanza. C’è anche un vagone ristorante per lo staff e un vagone letto con tv per il personale medico.
All’opera da trent’anni
In quasi 30 anni, le équipe del treno magico, percorrendo 200 mila chilometri, hanno eseguito 1 milione e 370 mila operazioni, curando più di un milione di pazienti in 184 distretti di 20 stati diversi. Tutto gratuito. «La nostra missione è raggiungere i poveri e gli emarginati con tutte le cure mediche possibili», spiega Zelma Lazarus. «Siamo nati da un’idea semplice: se la gente non può arrivare all’ospedale, allora l’ospedale dovrà arrivare dalla gente».
Così, il treno dei miracoli arriva nelle stazioni sperdute, dopo tre mesi di pianificazioni per ogni singolo accampamento, e si ferma dalle tre alle quattro settimane negli Stati più poveri e inaccessibili come il Bihar, Mirzapur o, appunto, Tripura, dove è stazionato in questi giorni fino a dopo l’Epifania.
«La sfida più grande viene dalla limitatezza delle nostra capacità», ammette la Lazarus. «Con il nostro LifeLine Express non siamo in grado di sostituire una postazione rurale permanente, ma riusciamo a fare ciò che il welfare state dovrebbe fare».
Con l’aiuto di sponsor come il gruppo Mahindra e il gruppo Tata, ma anche di Emirates Airlines e di enti internazionali come l’Undp, l’Oms e l’Unicef, e mentre le Indian Railways garantiscono la manutenzione, l’acqua e l’elettricità, il treno è arrivato alla sua 193ª missione. Questo Natale e Capodanno, alla stazione di Churaibari, migliaia di persone fanno la fila per entrare nei tendoni allestiti attorno ai vagoni centrali: sale d’attesa improvvisate negli accampamenti medici ambulanti, per poter entrare nel «jadoo ki gaadi» e venirne fuori forse un po’ doloranti dalle operazioni, ma per tornare presto più sani di prima. Certo, non è abbastanza, non è mai abbastanza, come chiunque abbia operato nella beneficenza in India può ben capire. Ma è già qualcosa. E con tanti qualcosa, tutto cambia.

La Stampa 21.12.18
1943, così lo sbarco in Sicilia rischiò di fallire per le liti fra Patton e Montgomery
di Marcello Sorgi


Per John Julius Cooper, visconte di Norwich - un aristocratico inglese a lungo diplomatico al servizio di Sua Maestà britannica - l’estate del 1961 fu segnata da un imprevisto: l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq che, occupandosi lui di Medio Oriente, lo costrinse a rinviare le vacanze fino a metà ottobre. Di lì nacquero l’idea estemporanea di andare con la moglie a visitare la Sicilia (regione che ai suoi occhi doveva apparire come parte dell’area del mondo a cui si era professionalmente dedicato) e il subitaneo innamoramento, che lo convinse a cambiare mestiere, scoprendo la vocazione di storico e scrittore, e a dedicare gran parte del suo impegno alle tormentate secolari vicende dell’isola, a cominciare dalle numerose dominazioni che lì avevano lasciato una stratificazione unica di lingue, culture, civiltà.
La Breve storia della Sicilia (Sellerio editore, pp. 510, € 15) che Norwich, da poco scomparso a 89 anni, ci ha lasciato, è l’esempio di come duemilacinquecento anni di storia possano essere attraversati con occhio insieme curioso e ironico, cercando le ragioni dei personaggi e dei fatti anche quando faticano a venir fuori. Dai Fenici e dai Greci a metà del Novecento (l’ultimo capitolo è dedicato al bandito Giuliano), passando per Romani, Arabi, Normanni, Angioini, pirati, rivoluzionari e carbonari, Borbone, Bonaparte, Murat, fino a Mussolini e al suo tentativo, riuscito in parte e poi abbandonato, di sradicare la mafia, l’autore confessa una serie di sentimenti contrastanti, sorpresa per la varietà, meraviglia per la bellezza, desolazione, disperazione, rifiuto del destino e del senso di rassegnazione dei siciliani.
I generali rivali
Ma è verso la fine di questo lungo viaggio che Norwich rivela tutta la sua freddezza e spietatezza di storico, quando affronta la vicenda dello sbarco anglo-americano del luglio 1943. Non si intrattiene molto sulla dibattuta questione dell’aiuto dato dai boss mafiosi siculo-americani alle forze alleate; dà per scontato che seppure Lucky Luciano non partecipò ai piani per l’invasione e non precedette i militari sull’isola per aprirgli la strada, certo si impegnò a convincere gli amici degli amici, don Calò Vizzini, don Vito Genovese e don Vito Cascioferro, tutti insigniti di cariche pubbliche dopo la conquista del territorio. Il vero obiettivo dello storico, tuttavia, è addentrarsi nelle rivalità dei due generali, inglese e americano, che misero a rischio l’operazione «Husky».
George S. Patton, comandante della Settima Armata americana, e sir Bernard Montgomery, feldmaresciallo capo dell’Ottava Armata britannica, non si amavano e non potevano essere più diversi. Sembravano fatti apposta per non collaborare, e infatti non mancarono di farsi sgambetti per tutta la durata dell’imponente missione, che prevedeva di sbarcare sulla costa sud-orientale della Sicilia due eserciti per riconquistare il primo lembo di terra europea dall’inizio del conflitto.
Erano entrambi due grandi soldati. Ma Patton, uomo enorme, monumentale, era il tipico duro americano alla John Wayne, uno che apostrofava così i suoi soldati prima della battaglia: «Non solo spareremo ai bastardi, ma taglieremo loro gli intestini ancora vivi e li useremo per oliare i cingoli dei nostri carrarmati. Uccideremo quegli schifosi Unni succhiacazzi. I nazisti sono il nemico. Versate il loro sangue o verseranno il vostro. Va bene, figli di puttana. Sarò orgoglioso di guidare voi ragazzi meravigliosi sempre e ovunque».
Una colpevole dimenticanza
Montgomery - «Monty», com’era soprannominato - non era invece molto alto e secondo l’autore «sembrava un venditore di tessuti piuttosto sfortunato», pur avendo un’eccezionale fiducia in sé stesso: «Sapete perché non vengo mai sconfitto? Tengo troppo alla mia reputazione di grande generale. Non si può essere un grande generale e essere sconfitto. Perciò state certi che ogni volta che vi impegnerò in battaglia vincerete».
Litigarono ininterrottamente. Patton avrebbe dovuto essere trattenuto da un suo sottoposto, il tenente generale Omar Nelson Bradley, che sfortunatamente si ammalò di emorroidi e dovette essere operato d’urgenza, con conseguenze facilmente immaginabili al suo prestigio e alla sua operatività. Gli eserciti sbarcarono la notte del 10 luglio, in condizioni di tempesta, a un centinaio di chilometri di distanza: gli inglesi tra Capo Passero e Siracusa, gli americani nel golfo di Gela. Secondo i piani originari avrebbero dovuto dividersi tra la parte occidentale e quella orientale dell’isola, ma finirono col sovrapporsi. «Monty» pretendeva di comandare tutto da solo, Patton faceva orecchie da mercante, ma a un certo punto si trovò praticamente accerchiato dagli inglesi, con una strategia che Bradley definì «la mossa più arrogante, egoista, narcisistica e pericolosa di tutte le operazioni congiunte della Seconda guerra mondiale».
Alla fine, Patton riuscì a entrare per primo a Palermo e a insediarsi a Palazzo Reale, «Husky» poteva essere considerata un successo, 2300 soldati dell’Asse erano stati feriti o uccisi, e non meno di 53.000 (quasi tutti italiani) presi prigionieri. Ma nella furia della loro rivalità, i due generali avevano dimenticato di bloccare lo Stretto di Messina. Attraverso il quale ben quarantamila tedeschi e settantamila italiani, muniti di diecimila vetture e 47 carri armati, l’equivalente di quattro divisioni, poterono scappare, per continuare la guerra in continente, dove «nei mesi a venire», conclude severamente Norwich, «si resero responsabili della morte di molte migliaia di soldati alleati».

Corriere 21.12.18
Il pamphlet di Emanuele Macaluso
Portella della Ginestra, una strage «di stato»
di Paolo Franchi


Le stragi che hanno insanguinato l’Italia? Sono, senza eccezione,«di Stato». E «di Stato» sono pure, anche qui senza eccezione, inquinamenti, manomissioni, occultamenti della verità, trattative inconfessabili, come quella con la mafia. Così vuole, da quasi cinquant’anni a questa parte, una lettura quanto mai diffusa delle pagine più oscure della storia repubblicana. E poco importa che, in sede giudiziaria, non siano emersi con nettezza, accanto a quelli di tanti personaggi di secondo o di terzo piano, nomi che fossero espressione di quei «massimi vertici» statali immancabilmente rappresentati come mandanti o complici di tanti orrori. La percezione di larga parte dell’opinione pubblica, alimentata a piene mani da tv, giornali, libri, film, e anche sentenze, è e resta questa. A farne le spese è prima di tutto la reputazione, chiamiamola così, di uno Stato che, nella sua impersonalità, a differenza dei singoli non può difendersi. Questo, in estrema sintesi, scriveva qualche mese fa, in un suo editoriale sul Corriere Paolo Mieli. Avanzando una tesi che avrebbe potuto, e forse dovuto, sollevare discussioni e anche polemiche aspre. Ma che invece non le sollevò.
Possibile che della «qualità politico-morale dello Stato italiano, retto da un regime democratico», non importi più niente a nessuno? Se lo è chiesto, non senza angoscia, Emanuele Macaluso. Che proprio dalla lettura critica dell’articolo di Mieli ha tratto spunto per tornare a pubblicare integralmente un suo saggetto di una ventina di anni fa, con una densa nota introduttiva e un significativo cambiamento nel titolo. «Portella della Ginestra. La prima strage di Stato», si intitolava il pamphlet pubblicato nel 1994 dall’Espresso, «Portella della Ginestra. Strage di Stato?», si intitola la nuova edizione, appena arrivata in libreria per i tipi di Castelvecchi. Il punto interrogativo, si legge nell’introduzione, sta lì a testimoniare la volontà dell’autore «di cogliere l’occasione per discutere l’interessante scritto di Mieli». Non certo l’insorgere di un ripensamento.
Nella sua lunga vita di sindacalista, di dirigente comunista e di giornalista, Macaluso non ha mai fatto proprie categorie (il «doppio Stato», lo «Stato parallelo», lo «Stato nello Stato») che dovrebbero dare un po’ di sostanza a una lettura tanto tranchant quanto generica di molti passaggi chiave della nostra storia. E anche alla locuzione «strage di Stato», peraltro assai più cara alla sinistra extraparlamentare che alla tradizione comunista, ha sempre fatto ricorso con grande parsimonia. Non è un esperto di trame nere, servizi deviati, infiltrazioni. Ma la storia di Portella della Ginestra, dove nel 1947 Salvatore Giuliano e i suoi uomini aprirono il fuoco sui lavoratori convenuti con le famiglie a celebrare il Primo Maggio, lasciando sul terreno undici persone tra cui due bambini, di quello che la precedette e di tutto quello che ne seguì, via via fino all’uccisione di Giuliano (con annessa bugia di Stato) e poi, in carcere, mediante caffè corretto alla stricnina, del suo luogotenente Gaspare Pisciotta, di quella Sicilia e di quei rapporti tra mafia, istituzioni e politica siciliana e nazionale, Macaluso la conosce sin troppo bene, e dubbi proprio non ne ha. «Collocata nel tempo e nelle condizioni politiche dell’Italia di allora, fu una strage di Stato. Da allora nella storia della Repubblica restano interrogativi inquietanti, che non si possono eludere perché sono cruciali per la nostra democrazia», scrive. A me, per quel che vale, riesce difficile dargli torto. In ogni caso, comunque si vogliano definire quella strage e quell’oscuro passaggio della nostra storia, questo piccolo libro testimonia di una conoscenza dei fatti e di una passione politica, civile e intellettuale che invogliano alla lettura e fanno onore all’autore. Nonostante possano apparire estranee allo spirito del tempo. O forse proprio per questo.

Il Fatto 21.12.18
Artemidoro. L’accusa: il papiro è una patacca
Luciano Canfora
Armando Spataro è stato procuratore capo di Torino fino al pensionamento, la scorsa settimana. Ha condotto l’inchiesta sul papiro


Nel 2004, la Compagnia di San Paolo acquista per 2,7 milioni il Papiro di Artemidoro datato Primo secolo dopo Cristo. Il professor Salvatore Settis lo considera autentico e ne consiglia l’acquisto. Ma nel 2013, lo storico Luciano Canfora presenta un esposto alla Procura di Torino sostenendo che è un falso. Si occupa dell’inchiesta per truffa direttamente il procuratore Armando Spataro. Pochi giorni prima di andare in pensione, Spataro chiede l’archiviazione: i possibili reati sono ormai prescritti ma, scrive Spataro, è accertato che il papiro è falso. Risponde sul Fatto
Salvatore Settis e osserva che la valutazione di Spataro si basa solo sulla denuncia di Canfora senza perizie di esperti terzi e che molti esperti internazionali hanno riconosciuto l’autenticità del papiro del Primo secolo. Settis non è stato ascoltato nell’inchiesta. Spataro e Canfora replicano qui sotto.

Replica/1 “È impossibile ignorare le prove della sua falsità”
Caro Direttore, ho letto il lungo articolo del prof. Salvatore Settis che, giovandosi di ampio spazio, si è diffuso in “quasi offese” nei confronti di chi scrive, di cui, evidentemente, non conosce il metodo di lavoro. Anzi, mostra di non conoscere neppure come la giustizia procede nell’accertamento dei fatti. Soprattutto, non elenca o non approfondisce, gli elementi posti a base del giudizio di falsità del Papiro Artemidoro.
Il magistrato – è vero – non può sostituirsi allo studioso o allo storico, non avendone capacità e cultura. Ma deve obbligatoriamente, in caso di notizia di reato, approfondire – come è stato fatto nel caso in questione – le conclusioni cui sono pervenuti tutti gli esperti, pur se di diverse opinioni. E deve anche arricchire il quadro delle notizie da valutare, come è stato possibile nella inchiesta torinese, con altri accertamenti e dichiarazioni fuori dalla portata degli studiosi, i quali, insomma, non bastano e non hanno l’ultima parola. Anche loro, infatti, possono essere truffati, ma spesso non se ne accorgono o non lo ammettono se legati a doppio filo alle proprie incrollabili convinzioni. Queste, però, possono fare la fine del ponte Morandi di Genova, se lo studioso dimostra disinteresse per l’iter di accertamento dei fatti: in questi casi, anzi, incorre inevitabilmente in una possibile colposa presunzione.
Non intendo ribattere alle “quasi offese” del Settis, che alla fine mi interessano poco (ne ho ricevute di peggiori in oltre 40 anni di lavoro), né riprodurre la storia delle indagini e l’iter argomentativo del mio Ufficio (cioè di tre pubblici ministeri), peraltro condiviso da un giudice. Voglio invece manifestare la mia sorpresa per come il professore non prenda in considerazione molti argomenti sottoposti al vaglio del giudice: dalla inesistenza di qualsiasi documentazione attestante la provenienza del reperto (il che depone per la sua falsità) agli ammonimenti di competenti Autorità Egiziane che hanno fatto rilevare l’impossibilità di esportare legalmente dall’Egitto, nell’anno dichiarato, un bene autentico di valore culturale (il che avrebbe violato la Convenzione Unesco del 1970 e basterebbe di per sé a configurare la truffa); dalla accertata falsità del fotomontaggio del cosiddetto Konvolut “contenitore” da cui il papiro proverrebbe (affermazione avente il fine di documentare l’origine dell’“Artemidoro” e di sostenerne l’autenticità) al fatto che il reperto è stato tenuto a lungo “in cantina” (sei anni nel Deposito di Venaria Reale), circostanza anomala per un reperto di così alto valore e non altrimenti spiegabile se non con le forti riserve sulla sua autenticità; dalla circostanza che il Museo di Antichità Torinese di via XX Settembre, che dopo averlo “preso in carico” nel 2012 a seguito del rifiuto del Museo Egizio, lo espone con l’avviso che potrebbe trattarsi di un falso, fino all’esito dei primi accertamenti disposti dal Mibact sulla composizione degli inchiostri usati per il papiro Artemidoro risultata decisamente diversa da quella degli inchiostri usati nei papiri egiziani che coprono il periodo dal I al VI secolo.
Il Settis, inoltre, cita l’esito neutro delle indagini dei carabinieri del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale di Roma, tacendo del tutto su quelle condotte da altro presidio dei carabinieri di Torino.
Potrei dire molto altro, ma mi limito a un commento sull’irridente chiusura del prof. Settis, il quale dice: “Se il il dr. Spataro, con la sua dissertazione, aspira a una laurea in papirologia, la sentenza è questa: bocciato”. Vero, finirebbe certamente così. Ma io non ho mai pensato a quella laurea, anche perché, talvolta, competenze e conseguenze che ne derivano e che si vedono in giro non mi paiono esaltanti.
Armando Spataro

Replica/2 “Il testo rivela che è solo l’opera di un burlone”
L’inconsistenza dell’intervento apologetico del professor Settis pubblicato su questo quotidiano traspare già da alcune cifre. Evoca 200 studiosi sostenitori (a suo dire) dell’autenticità dello pseudo-Artemidoro. Ma questo stuolo rassomiglia alla fantomatica armata di 30.000 combattenti pronti a tutto che Alessandro Pavolini garantiva al Duce in fuga essere pronti alla lotta in Valtellina. Basta scorrere le pagine dell’Année Philologique per smentirlo.
Resta comunque in piedi la domanda: da quando in qua i problemi scientifici si risolvono a maggioranza?
L’argomento – se così può definirsi – che scorre monotono da un capo all’altro dell’intervento apologetico è la “chiamata di correo” della cosiddetta “comunità scientifica”: va da sé dislocata tutta “a nord di Chiasso”. Vengono però chiamati per nome soltanto due colleghi purtroppo defunti, i quali – a onor del vero – erano intervenuti prima che la gran parte delle argomentazioni demolitrici dello pseudo-Artemidoro venissero pubblicate. A ogni modo prendiamo atto che, evidentemente, studiosi quali Richard Janko, Germaine Aujac, Peter van Minnen, Herwig Maehler, Daniel Delattre, ecc. – che dallo pseudo-Artemidoro non furono abbagliati – non fanno parte della comunità scientifica (o forse sono nati a sud di Chiasso).
La fabbricazione di un fotomontaggio – il comicissimo Konvolut, che avrebbe dovuto raffigurare lo pseudo-Artemidoro in statu nascenti anzi nella vita prenatale ed è però effigiato su carta fotografica prodotta anni dopo lo smontaggio – resta uno dei punti più alti nella lunghissima storia dei falsi. Fare un falso per salvarne un altro. Un flop, autentico.
Non credo che valga la pena sprecare ancora tempo su di un testo (la colonna 1 dello pseudo-Artemidoro) che comincia con parole che si ritrovano in opere moderne: dalla ottocentesca Geografia di Carl Ritter al manuale settecentesco di pittura sacra di Dionigi di Furnà. Libro prediletto da Costantino Simonidis autore dello pseudo-Artemidoro. Il burlone volle poi anche disseminare qua e là nello pseudo-Artemidoro frasi tratte da suoi scritti.
Insomma, suggerirei al loquace difensore di seguire il consiglio cristianissimo del suo pseudo-Artemidoro: “Soppesare l’anima prima di accingersi alla geografia”, “tenendo ben strette intorno a tutto il corpo tali e tante armi mescolate”. Che mattacchione quello pseudo-Artemidoro, o, come mi scrisse un dotto collega, “un perfetto cretino”.
Luciano Canfora

Il Fatto 21.12.18
Cold War
La Guerra Fredda non è mai stata così struggente –
di Federico Pontiggia


Che non si muore per amore è una gran bella verità? Comunque la pensiate, in sala c’è un film che fa per voi, Cold War del polacco Pawel Pawlikowski. All’ultimo Festival di Cannes ha conquistato il premio per la migliore regia; ai recenti European Film Awards ha trionfato con cinque statuette: film, regia, sceneggiatura, attrice e montaggio; ai prossimi Oscar è l’unico a poter impensierire Roma di Alfonso Cuarón nella categoria film in lingua straniera. Entrambi in bianco e nero, entrambi girati splendidamente, ma uno solo empatico, romantico, dolente: Cold War, che della Guerra Fredda offre la prospettiva meno glaciale, più appassionata.

Serve a ricordarci qual è il grande rimosso del Terzo millennio, ovvero a testimoniare che cos’è, che cosa dovrebbe essere l’amore, che Pawlikowski mutua dai propri genitori, Wiktor e Zula come i protagonisti, morti nel 1989 prima della caduta del Muro, per 40 anni insieme a prendersi, mollarsi e riprendersi da una parta all’altra della Cortina di Ferro. Ha rammentato il regista, “erano tutti e due persone forti e meravigliose, ma come coppia un disastro totale”. Ecco, amori e altri disastri, senza melassa e con mistero, aggrappati a un’idea, “che tu veda qualcuno e il resto del mondo scompaia, oggi impossibile da sostenere”. Il pianista Wiktor (Tomasz Kot, bravo) e la cantante e danzatrice Zula (Joanna Kulig, superba) travalicano epoche e confini, con un passo a due disperato e ispirato, accorato e straziato: dalla fine degli anni ’40 ai primi anni ’60, dalla Polonia stalinista alla Berlino divisa, dalla Parigi bohémien alla Jugoslavia titina, si prendono e si perdono, e noi appesi alle loro bocche, ai loro occhi. Vi potrà tornare in mente The Artist, più probabile Casablanca, pressoché certo Ida, con cui Pawel ha vinto l’Academy Award nel 2015: sempre bianco e nero, sempre rapporto d’aspetto 4:3 (Academy format), e c’era sempre Joanna Kulig. Questo è più fascinoso, forse non ti identifichi, ma ti immedesimi: due come noi, più di noi, due vuoti a perdere pieni di aneliti e desii, inversioni e testacoda. Materia bollente, e ancor più infida, se non fosse che dietro la macchina da presa non si negozia e si tira dritto: il volemose bene è pericolo scampato; il comunismo non è un luogo comune; la compagnia Mazowsze, ingaggiata dal regime quale strumento di propaganda, non scade nel folklore posticcio; e la musica, jazz, non solo accompagna, ma dice quel che i dialoghi e le immagini non dicono. Un film perfetto? Quasi, e ancor più eroico: dopo il successo di Ida era facile ripetersi, viceversa, Pawlikowski (Varsavia, 1957) rimane solo fedele a se stesso, facendo del film premio Oscar un punto di partenza, non di approdo. Possono avere amanti, mariti e mogli, possono tessere altri rapporti, ma il tempo non può nulla, la lontananza non è niente: sono Zula e Wiktor e “l’amore è amore, punto e basta”. E quando ci ricapita, di fare l’amore con il cinema?

Il Fatto 21.12.18
Da lettori a testimoni dell’orrore di Amburgo
di Crocifisso Dentello

Nel suo Storia naturale della distruzione, Winfried G. Sebald affrontò uno dei tabù della storia tedesca e cioè i bombardamenti angloamericani che, nel disegno di vincere la resistenza del Terzo Reich, annientarono sul finire della Seconda guerra mondiale svariate città della Germania lasciando in eredità macerie e migliaia di morti (sovvengono le immagini di devastazione in Germania anno zero di Rossellini).
Marco Lupo, classe 1982, figlio di emigrati pugliesi nato a Heidelberg e oggi libraio a Torino, ha inteso vivificare la lezione del compianto autore bavarese e ripercorrere in Hamburg, suo romanzo di esordio, gli orrori di quella stagione. In pagine di crudo realismo, Lupo ci costringe a perlustrare in retrospettiva la città di Amburgo rasa al suolo nel 1943, espropriata dai britannici guidati da Churchill financo della sua identità, tra madri che custodiscono nelle borse i loro bambini carbonizzati e rimedi estremi di sopravvivenza.
È un mosaico di voci tra sconfitti e anime arrese, in una pluralità di sguardi che ricorda la scansione di destini privati nell’affresco del Novecento tedesco che immortala il regista Reitz in Heimat e il diagramma di salti temporali di Mattatoio n. 5 di Vonnegut (radiografia del bombardamento di Dresda). Il perimetro affabulatorio dentro il quale converge il documento storico Lupo lo prende a prestito da un altro suo autore feticcio, il cileno Bolaño. Il pretesto è un gruppo di esuli italiani a Parigi che si ritrovano in uno scenario da Decameron per leggersi a vicenda i loro scritti. Un giorno uno di loro porta con sé frammenti di romanzi di un autore misterioso: M.D. Proprio questo fantasma letterario, in virtù di una bibliografia finzionale, li fa precipitare nel buco nero della memoria mutilata dei vinti. Viene in mente il von Arcimboldi di 2666, non a caso pseudonimo di uno scrittore tedesco che tra le altre cose è soldato durante la guerra. Lupo eleva quindi una cattedrale citazionista a un trauma sommerso e lo fa per due motivi precisi: ribadire la centralità della traccia scritta per il recupero del passato e celebrare la lettura come forma di conoscenza per i lettori “nel” romanzo e per noi lettori “del” romanzo.
Ma la vera inquietudine che Lupo rinnova e che l’artificio letterario non scherma mai è tutta morale. Lupo muove da una tensione etica che non pretende risarcimenti dalla verità ma che vuole garantirsi il diritto a interrogarla. I tedeschi hanno rimosso dal loro passato l’infamia subita perché chiedere conto delle ragioni della tempesta di fuoco sui civili avrebbe significato relativizzare l’abominio dei campi di sterminio. Un senso di dolorosa espiazione? Lupo con Hamburg chiede alla letteratura di restare in un permanente conflitto dialettico con i soprusi della storia perché per dirla con la stessa Christa Wolf citata nel romanzo, la memoria “è un atto morale che si ripete”.


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