Repubblica 20.12.18
Il caso Ungheria
Il no del popolo alla legge schiavista
di Nadia Urbinati
I
populisti autoritari hanno conquistato il consenso con la propaganda di
"prima i nostri". Ma non hanno mai specificato chi tra i "nostri" sono i
"loro" preferiti. Bisogna vederli al governo per capirlo. Le
manifestazioni che da quasi una settimana riempiono le piazze di
Budapest dimostrano che i preferiti "nostri" dei governi populisti
autoritari non sono il "popolo" ma una parte di esso: una classe
imprenditoriale che confida nel bisogno di lavoro che tutti hanno, e che
per accumulare in fretta si libera dai lacci dei diritti del lavoro;
una maggioranza silenziosa che confida nei favori che il governo deve
elargirle per tenersela amica. La stretta sul pluralismo
dell’informazione e su altri diritti civili, denunciata ancora di
recente dalla Commissione di Venezia, organo consultivo del Consiglio
d’Europa, ha aiutato l’attuazione di questa politica. Fino ad ora.
A
scuotere l’opinione, c’è voluta una legge che consente agli
imprenditori di aumentare fino a 400 il numero annuo di ore di
straordinario, con la possibilità di dilazionarne il pagamento fino a
tre anni. È stata chiamata per questo "legge schiavista". La norma
dovrebbe risolvere il problema della scarsità di manodopera, causata
dalla tolleranza zero verso l’immigrazione. L’esito si sta ritorcendo
contro il leader Victor Orbán.
La chiusura delle frontiere e le
politiche restrittive delle libertà civili hanno reso l’Ungheria un
paese non più benestante ma certamente più corrotto e soffocante per
molti cittadini, soprattutto giovani e laureati, che hanno preso la via
dell’emigrazione. "Prima gli ungheresi" dunque, ma dopo aver selezionato
quali tenere e quali favorire: le classi imprenditoriali e manageriali e
il ceto medio impiegatizio obbediente.
Il caso ungherese merita
attenzione, perché è il paese termometro dello stato di salute dei
governi populisti. Orbán si è imposto sulla scena internazionale
dichiarando guerra alla democrazia liberale, e sostenendo che ci può
essere una democrazia illiberale, più efficiente e in sintonia con gli
interessi della nazione, perché con meno dissenso e poca opposizione.
Dal 2013 il suo partito gode di una maggioranza di due terzi che gli ha
consentito di tosare la Costituzione di alcuni requisiti fondamentali:
indipendenza della magistratura, pluralismo dell’informazione, libertà
di stampa, di parola e di associazione. Alle preoccupazioni sollevate
dalla Ue, Orbán ha risposto che "la gente si preoccupa delle bollette,
non della Costituzione".
Ma a quanto pare, gli ungheresi si
preoccupano anche della Costituzione, se è vero che gli slogan che hanno
portato migliaia in piazza per giorni hanno al centro due libertà:
quella dell’informazione e quella della libera contrattazione sindacale.
Le tappe della tirannia della maggioranza sono le stesse di sempre: per
stare in sella a lungo senza abolire le elezioni, chi governa deve
mantenere una base larga di supporters e controllare l’informazione.
L’esito
è anch’esso lo stesso di sempre: un’opposizione parlamentare debole che
tuttavia riceve forza dalla società e dai movimenti di cittadini.
L’Ungheria ci regala una nota di ottimismo: nessuno può rivendicare di
avere l’ultima parola, nemmeno un egocrate autoritario con larga
maggioranza parlamentare, perché la democrazia sta anche fuori delle
istituzioni e si manifesta con il dissenso, un ossigeno della mente che
non può essere facilmente ingabbiato. E non tarda a liberarsi e a
riaprire i giochi.