giovedì 20 dicembre 2018

Repubblica 20.12.18
Alla frontiera fra i due Paesi
Turchia, il confine dei profughi "Per noi è tempo di ripartire"
La politica internazionale non cambia la vita dei siriani in fuga: 4 milioni cercano un futuro. La Ue ha dato 6 miliardi ad Ankara
di Marco Ansaldo


GAZIANTEP ( FRONTIERA TURCHIA- SIRIA) La voce roboante che, sulla strada, proviene dalla tv di un locale dove gli uomini si riuniscono per giocare alla dama turca ha il consueto tono declamatorio. «Nessuno può dare al nostro Paese lezioni di democrazia, diritti umani e libertà. Diamo assistenza a quasi 4 milioni di rifugiati».
Gli avventori, su questa via secondaria di Gaziantep, guardano verso il video con un misto di apprensione e sufficienza. Molto ci sarebbe da eccepire su quel che Recep Tayyip Erdogan dice, ma c’è un punto che qui alla frontiera con la Siria appare vero: la Turchia si occupa da molti anni e, bisogna ammetterlo, con grande efficienza, dei milioni di profughi che dal 2011, inizio della guerra a Damasco, si sono via via riversati oltre confine.
Un numero altissimo, quasi 4 milioni di persone, che rappresenta un ventesimo circa della popolazione turca. Uno Stato nello Stato, che proprio allo scoppio del conflitto, e per lungo tempo, Ankara ha gestito senza alcun aiuto.
Poi, più avanti, sono arrivate le trattative con l’Unione Europea, sfociate nell’accordo firmato nel 2016 per i 6 miliardi di euro complessivi (3 a cui se ne sono aggiunti nel tempo altri 3) che i Paesi comunitari elargiranno perché la Turchia si occupi dei profughi e di regolare gli arrivi per i flussi da Medio Oriente e Asia.
Gaziantep è un buon punto di osservazione di tutto questo: la sua cintura periferica arriva a una manciata di chilometri da Aleppo.
La più grande fetta di rifugiati si ferma qui. E qui lavora, spesso integrandosi con la popolazione locale.
Sulla strada che porta alla frontiera, c’è il più grande distretto industriale del Sud est turco, 1.500 aziende create da quelli che qui chiamano «ospiti». Tante, sulle 12 mila ufficialmente registrate nel Paese. Alcuni imprenditori siriani in guerra hanno perso tutto. Ma una volta asciugate le lacrime e oltrepassato il confine si sono rimboccati le maniche, e hanno ricominciato da zero.
Uno di loro, Aiman Hadri, amministratore della Zirve As Makina, con il fratello Amer ha rifondato l’industria di imballaggi e macchinari distrutta dai colpi di artiglieria su Aleppo: «L’azienda l’abbiamo riavviata nel 2013. Oggi diamo lavoro a 65 persone, il 20 per cento siriani». Il resto, turchi.
Siriani che danno lavoro ai turchi.
Non tutto, però, è perfetto. In città, nel quartiere di Sahinbey è stato messo su un centro per la salute.
Nella sala riunioni il dottor Omar al Mustafa, siriano, con il suo camice bianco si alza a parlare educatamente e si dice orgoglioso di essere tornato a indossarlo, pur non nascondendo le pecche del sistema: «Visto che non riusciamo a lavorare in ospedali veri e propri, possiamo solo prescrivere farmaci». I centri di formazione sono tanti: giovani maestre, infermiere, sarti, operai specializzati, interpreti, molti imparano un lavoro, ma poi vanno immessi sul mercato.
Alla Camera degli industriali le tabelle mostrano che nell’ultimo anno e mezzo i corsi di formazione sono stati seguiti da 2.000 rifugiati.
Però gli "ospiti" rimasti in strada sono tanti. A fronte di una forza lavoro potenziale di 1,8 milioni di siriani in Turchia, non sono più di 50 mila quelli premiati da un permesso di lavoro. Un gap evidente: economia in nero e sfruttamento sono dietro l’angolo.
In Europa si sono alzate molte voci per esprimere dubbi sul fatto che i soldi di Bruxelles finiscano in direzioni non volute.
A Repubblica l’ambasciatore della Ue ad Ankara, l’austriaco Christian Berger, respinge queste ipotesi: «I soldi europei sono impiegati in modo trasparente e vanno nei progetti di scuola, lavoro, ospedali nel sud del Paese. L’obiettivo finale è che i rifugiati riescano a camminare sulle proprie gambe». Non vogliono venire in Europa, alcuni nemmeno tornare in patria, ma rimanere e lavorare qui.