Repubblica 19.12.18
L’editoriale
La sinistra tentata dal balcone
di Ezio Mauro
Impegnato
da mesi ad attraversare il deserto che si è creato con le sue mani,
senza un leader che lo guidi e col miraggio di una nuova scissione, il
Pd cerca fuori di sé le ragioni della sua sopravvivenza e del suo
futuro, invece di trovarle in quel deposito di valori, ideali,
rappresentanza di interessi legittimi che dà forma alla sua storia: e da
cui può nascere una promessa di cambiamento e una scommessa sul futuro
del Paese.
In piena stagione congressuale, con un nugolo di
candidati ai blocchi di partenza di primarie stanche, un partito
estenuato e sfibrato si lascia ipnotizzare dalla presenza-assenza di
Renzi, un leader che invece di dar battaglia a viso aperto per le sue
idee sceglie la ragnatela sospesa dell’interdetto. Fino a sembrare un
inquilino moroso che continua a occupare l’appartamento dopo lo sfratto,
mentre ne sta già arredando un altro.
E tuttavia Renzi, dal
quinto angolo del partito, continua a esercitare una leadership
residuale, col potere immateriale del veto.
Ma gli altri? Per ora si assiste a una battaglia navale di posizionamento.
continua a pagina 35
segue dalla prima pagina
Senza
un confronto su un’idea del Paese, senza un’interpretazione dell’Italia
in questo momento di metamorfosi del corpo sociale che si consegna al
populismo dominante. Mancano ancora la forza e la visione per aggiornare
con coraggio l’identità politica e culturale della sinistra, parlando
ad un popolo disperso e deluso che comunque esiste e che aspetta un
progetto, un gruppo dirigente ed una leadership capaci di proporre
un’alternativa all’Italia feroce, egoista e dilettantesca che il governo
disegna ogni giorno coi suoi atti.
Invece di questo sforzo
faticoso di ricomposizione culturale e politica di un quadro frantumato,
è partita con largo anticipo la corsa ad imboccare la scorciatoia più
facile: la tentazione di aprire un dialogo con i Cinque Stelle, testando
la possibilità di un’intesa per un indecifrabile dopo. Come se un
qualsiasi confronto con chiunque fosse possibile senza un’identità
forte, risolta, capace di dare coscienza compiuta di sé, e sicurezza
nella rotta. Anzi, al contrario, come se un apriscatole esterno potesse
risolvere d’incanto i problemi della natura e della funzione della
sinistra oggi in questo Paese, in un’interpretazione estemporanea e
improvvisata della vicenda italiana degli ultimi mesi, guardando ai
numeri e non alla sostanza della politica. Soprattutto, come se non
fosse successo niente, in questa prima fase di governo Salvini-Di Maio, e
l’egemonia di una nuova destra che non avevamo ancora conosciuto —
sovranista, antieuropea, razzista — non fosse scesa sul Paese, fino a
cambiarne l’anima.
Naturalmente tutto ciò avviene perché il
governo scricchiola, e l’alleanza ancora di più, in quanto un contratto
non genera una visione comune dell’Italia, ma due idee del Paese
concorrenti e diffidenti, con interessi divaricati e rappresentanze
contrapposte: in più, c’è l’ovvia constatazione che in caso di rottura e
di crisi il Pd non è in grado di rappresentare un’alternativa. Ma qui
dovrebbe nascere la prima vera domanda: Di Maio può essere l’alternativa
a Di Maio? E la sinistra può costruire un’alternativa credibile cedendo
alla cultura altrui, trasformandosi in forza gregaria di ricambio,
sostituendo da un giorno all’altro la Lega e le sue politiche xenofobe
per entrare in scena da ancella, con l’abito della festa dopo le
sconfitte, come nelle porte girevoli dei vaudeville?
Ancora una
volta, insieme con la coscienza di sé manca un giudizio politico sulla
natura politica dei Cinque Stelle, sulla loro scelta strategica —
autonoma e indipendente — di intercettare nella pesca elettorale
volutamente trasversale anche cittadini e istanze di sinistra, per poi
convertirli a una politica apertamente di destra, marchiata
dall’ossessione contro i migranti. Si dice nel Pd: molti nostri elettori
sono già andati coi grillini, raggiungiamoli e proviamo a
riprenderceli. Ma per provare a riprenderli, bisogna parlare con loro,
non con gli stati maggiori che li hanno arruolati. E bisogna farlo
attraverso la sfida di una politica concorrente, in campo aperto, non
con la bandiera bianca di una resa culturale, come se il populismo fosse
la fase suprema del riformismo e il suo ultimo approdo, per
l’incapacità dei riformisti di credere nelle loro ragioni, anche in
minoranza, trasformandole nelle buone ragioni di un Paese diverso. Quasi
che la sinistra, fuori dal Novecento, dovesse anche lei adeguarsi alla
metamorfosi del sociale invece di governarla, diventando una variante
dell’indistinto populista. Perché altro destino non c’è.
Si dice
ancora: la fisionomia politica e culturale del M5S è talmente fragile e
insicura che così come Salvini l’ha modellata col suo scarpone, la
sinistra in una futura alleanza potrebbe deformarla nel senso opposto,
plasmandola a suo uso e consumo. A parte il fatto che questo
ragionamento prescinde dai rapporti di forza, che in politica contano,
la verità è che un autonomo istinto di destra ha portato i grillini
prima a scegliere l’alleanza con Salvini e poi a condividere gli
elementi di fondo della sua politica, dalle misure contro i migranti
all’opposizione all’Europa, al rapporto privilegiato con la Russia,
all’abiura dell’occidente, alle scelte securitarie. Di autonomo, Di Maio
ha inserito l’impeachment per il Presidente della repubblica, chiesto
un pomeriggio così come si chiede l’aperitivo al bar, col sovrappeso di
una marcia su Roma, che rapidamente è diventata una marcia indietro su
entrambi i fronti.
Tutti i segni confermano che due destre diverse
e convergenti sono saldate da un comune rifiuto della storia
repubblicana, dal disprezzo per le istituzioni, dal mandato furibondo a
realizzare non un cambiamento ma una rivoluzione, dall’insofferenza per
la libertà di stampa, dalla convinzione che il consenso elettorale
consenta una totale supremazia egemonica, fuori da ogni controllo e da
ogni rilievo da parte dei non eletti, che possono solo applaudire o
ubbidire. Ecco perché la distinzione di comodo che i cantori del governo
fanno tra Lega e Cinque Stelle è capziosa: certamente le due destre
sono distinte nelle loro basi sociali e anche nei loro interessi, ma la
xenofobia di Salvini è controfirmata ogni giorno da Di Maio, e
l’assistenzialismo dei Cinque Stelle è costantemente tollerato dalla
Lega: a buon rendere. Ciò che conta è ciò che unisce nel profondo i due
partiti: un progetto per spostare l’Italia dal suo percorso tradizionale
in Europa e in Occidente, e dal quadro dei principi e delle garanzie
liberaldemocratiche che fin qui hanno contraddistinto le democrazie,
deviando non soltanto la nostra tradizione nella politica estera e nelle
alleanze, ma la curva della nostra civiltà materiale, quella che
spendiamo, incassiamo e consumiamo nel quotidiano della nostra vita
associata, in relazione con gli altri.
Si può ignorare tutto
questo per superare artificialmente la fatica dell’opposizione, doverosa
( non per espiare, ma per rifondare) dopo una sconfitta così pesante?
Qualsiasi tecnica di sopravvivenza dice di no. Anche perché l’universo
grillino è un cubo perfettamente chiuso nelle sue pareti, governato da
una società privata fuori da ogni regola democratica, e all’interno di
quell’universo non si conosce la dialettica e il confronto di opinioni,
perché come in ogni setta il dissenso è criminalizzato, mentre la
delazione è benedetta. Potrà forse succedere un giorno che persino quel
cubo si apra come una scatola di tonno, nasca una discussione, emergano
culture tra loro vicine ma competitive. Potrebbe persino spuntare
un’obiezione, qualcuno che in un pubblico confronto denunci l’alleanza
con la Lega come un limite e come una gabbia, e chieda un cambio di
rotta e di uomini, perché destra e sinistra non sono la stessa cosa:
rimettendo in movimento la politica. Ma oggi l’investimento a destra per
Di Maio è più redditizio, e soprattutto più naturale: lui fa ciò che è,
e sa che a sinistra non troverebbe un balcone da cui affacciarsi per
celebrare una finta vittoria contro l’Europa nemica. Quell’apparizione è
un boomerang, ma resta la cifra estetica del populismo italiano, la sua
postura pubblica, la rappresentazione del rapporto tra governanti e
governati secondo la nuova destra. Basterebbe ricordarlo, per tenere la
sinistra lontana dai balconi e da chi li frequenta.