Repubblica 19.12.18
Così mio padre Togliatti mi abbandonò in una clinica
"Il figlio del Migliore" di Giovanni De Plato
L’Uomo Nuovo morì là dove avrebbe dovuto nascere.
di Michele Smargiassi
Dentro
le camerate austere della Scuola per l’Infanzia di Ivanovo, col capo
rasato e l’obbedienza monacale, i figli dei capi comunisti venivano
allevati come figli del Partito, nello spirito pedagogico siberiano di
una Sparta severa che si proponeva di "temprare l’acciaio" di una
generazione eroica. Ma al figlio del Migliore toccò la sorte peggiore.
Perdere i genitori, e perdere se stesso.
Era il 1993 quando, tra
l’imbarazzo dei dirigenti di un partito da poco non più comunista,
trapelò la notizia che Aldo Togliatti, figlio del segretario generale
del Pci e della sua prima moglie Rita Montagnana, di cui si erano perse
le tracce, era ricoverato da anni in una clinica privata per malattie
mentali nei dintorni di Modena, con una diagnosi di schizofrenia. Vi
morì molti anni dopo, nel 2011, senza aver mai raccontato pubblicamente
la sua storia. Gliela fa raccontare ora uno psichiatra, che non lo
conobbe, Giovanni De Plato, con la forza e la libertà del romanziere. Il
figlio del Migliore (Pendragon) è l’immaginario dialogo fra Aldo e il
giovane medico che lo assiste; ed è il racconto della catastrofe etica e
privata di una generazione di rivoluzionari di professione.
Aldo
era nato nel momento più sbagliato, nel 1925 dell’alba fascista. Quel
giorno suo padre era in carcere. Un’infanzia scandita dai rintocchi
della Storia: costretto a seguire i genitori nei tormentosi esili
politici, cresciuto giocando nei corridoi dell’Hotel Lux di Mosca,
ignaro delle trame micidiali che s’incrociavano in quelle stanze del
sospetto staliniano.
Rendendosi progressivamente conto, allora
come dopo il ritorno nell’Italia liberata, di essere «un inconveniente»
nella vita dei suoi genitori troppo presi dalla Storia per pensare a
lui, «un intruso, uno sbaglio della loro passione». Un «bambino mai
stato bambino», lasciato a se stesso, inghiottito da un vortice di amore
e odio assoluti per "il Vegliardo", il padre che smetterà di chiamare
per nome, di cui rifiuterà di portare il cognome, per lui «morto prima
che morisse» ma incombente con quella sua esortazione ossessiva, «sii
uomo perdio!», condanna più che monito.
Eppure, se per un attimo
dimentichiamo la storia e il posto che i protagonisti vi occuparono,
questo libro non sarebbe altro che la narrazione, forse neppure troppo
appassionante, di un abbandono genitoriale come tanti. Un padre assente,
distratto, immerso nel suo lavoro; una madre stanca e tradita; un
figlio che si perde. Lo confessa Aldo stesso al suo medico, in un lampo
di consapevolezza della banalità del suo male: «Una normale vicenda
umana, come quella di tante altre famiglie, dove la politica non aveva
aggiunto nulla, anzi aveva tolto: a me tutto». La politica aggiunge
invece molto, forse tutto, al romanzo biografico. Aggiunge un giudizio
che trascende le responsabilità degli individui per ergersi ad atto
d’accusa politico contro la presunzione del rivoluzionario che sogna di
riscattare l’umanità e calpesta gli umani. Sentenza senza attenuanti. Se
De Plato concede alla madre di Aldo (seconda voce narrante del romanzo)
il beneficio del rimorso, del tormento, del tardivo sacrificio di sé
per tentare di salvare il figlio, è solo perché anche lei gli appare
vittima dell’uomo che incarna quel simbolo negativo.
A Togliatti,
l’autore psichiatra non permette invece profondità e contraddizioni:
colpevole assoluto, senza diritto di parola, è un uomo a una sola
dimensione. Analisi psicologica acuta delle ferite imposte agli affetti
familiari da una scelta di vita ideologica, questo romanzo lascia tutti a
indagare i meandri della mente del rivoluzionario che quella scelta
consapevolmente volle fare.