mercoledì 19 dicembre 2018

Repubblica 19.12.18
Così mio padre Togliatti mi abbandonò in una clinica
"Il figlio del Migliore" di Giovanni De Plato
L’Uomo Nuovo morì là dove avrebbe dovuto nascere.
di Michele Smargiassi


Dentro le camerate austere della Scuola per l’Infanzia di Ivanovo, col capo rasato e l’obbedienza monacale, i figli dei capi comunisti venivano allevati come figli del Partito, nello spirito pedagogico siberiano di una Sparta severa che si proponeva di "temprare l’acciaio" di una generazione eroica. Ma al figlio del Migliore toccò la sorte peggiore. Perdere i genitori, e perdere se stesso.
Era il 1993 quando, tra l’imbarazzo dei dirigenti di un partito da poco non più comunista, trapelò la notizia che Aldo Togliatti, figlio del segretario generale del Pci e della sua prima moglie Rita Montagnana, di cui si erano perse le tracce, era ricoverato da anni in una clinica privata per malattie mentali nei dintorni di Modena, con una diagnosi di schizofrenia. Vi morì molti anni dopo, nel 2011, senza aver mai raccontato pubblicamente la sua storia. Gliela fa raccontare ora uno psichiatra, che non lo conobbe, Giovanni De Plato, con la forza e la libertà del romanziere. Il figlio del Migliore (Pendragon) è l’immaginario dialogo fra Aldo e il giovane medico che lo assiste; ed è il racconto della catastrofe etica e privata di una generazione di rivoluzionari di professione.
Aldo era nato nel momento più sbagliato, nel 1925 dell’alba fascista. Quel giorno suo padre era in carcere. Un’infanzia scandita dai rintocchi della Storia: costretto a seguire i genitori nei tormentosi esili politici, cresciuto giocando nei corridoi dell’Hotel Lux di Mosca, ignaro delle trame micidiali che s’incrociavano in quelle stanze del sospetto staliniano.
Rendendosi progressivamente conto, allora come dopo il ritorno nell’Italia liberata, di essere «un inconveniente» nella vita dei suoi genitori troppo presi dalla Storia per pensare a lui, «un intruso, uno sbaglio della loro passione». Un «bambino mai stato bambino», lasciato a se stesso, inghiottito da un vortice di amore e odio assoluti per "il Vegliardo", il padre che smetterà di chiamare per nome, di cui rifiuterà di portare il cognome, per lui «morto prima che morisse» ma incombente con quella sua esortazione ossessiva, «sii uomo perdio!», condanna più che monito.
Eppure, se per un attimo dimentichiamo la storia e il posto che i protagonisti vi occuparono, questo libro non sarebbe altro che la narrazione, forse neppure troppo appassionante, di un abbandono genitoriale come tanti. Un padre assente, distratto, immerso nel suo lavoro; una madre stanca e tradita; un figlio che si perde. Lo confessa Aldo stesso al suo medico, in un lampo di consapevolezza della banalità del suo male: «Una normale vicenda umana, come quella di tante altre famiglie, dove la politica non aveva aggiunto nulla, anzi aveva tolto: a me tutto». La politica aggiunge invece molto, forse tutto, al romanzo biografico. Aggiunge un giudizio che trascende le responsabilità degli individui per ergersi ad atto d’accusa politico contro la presunzione del rivoluzionario che sogna di riscattare l’umanità e calpesta gli umani. Sentenza senza attenuanti. Se De Plato concede alla madre di Aldo (seconda voce narrante del romanzo) il beneficio del rimorso, del tormento, del tardivo sacrificio di sé per tentare di salvare il figlio, è solo perché anche lei gli appare vittima dell’uomo che incarna quel simbolo negativo.
A Togliatti, l’autore psichiatra non permette invece profondità e contraddizioni: colpevole assoluto, senza diritto di parola, è un uomo a una sola dimensione. Analisi psicologica acuta delle ferite imposte agli affetti familiari da una scelta di vita ideologica, questo romanzo lascia tutti a indagare i meandri della mente del rivoluzionario che quella scelta consapevolmente volle fare.

La Stampa 19.12.18
Xi sfida l’Occidente: “Nessuno può dirci cosa dobbiamo fare”
Il presidente cinese celebra il 40° anniversario delle riforme di Deng e loda il miracolo economico: “Andremo avanti con il modello socialista”
di  Francesco Radicioni


Bangkok Celebrando a Pechino il 40° anniversario della riforma e dell’apertura voluta da Deng Xiaoping, il presidente cinese ha chiarito che le riforme che la Cina ha in mente non sono quelle che l’Occidente si aspetta. «Nessuno è nella
Il modello
Nonostante il rallentamento dell’economia e le tensioni commerciali con gli Stati Uniti, Xi Jinping ha deluso quelli che pensavano che il leader cinese avrebbe usato queste celebrazioni per annunciare una chiara direzione di riforma economica. «Dobbiamo riformare con decisione ciò che può e deve essere cambiato, così con altrettanta decisione non dobbiamo riformare ciò che non può e non deve essere cambiato». Se Donald Trump punta il dito contro i sussidi di Pechino all’economia, invece - pur senza citare l’inquilino della Casa Bianca - il leader della Repubblica Popolare ha difeso il modello economico del «socialismo con caratteristiche cinesi».
Il «maestro arrogante»
«Per portare avanti la riforma e l’apertura in un Paese con cinquemila anni di storia e un miliardo e 300 milioni di persone, non esiste alcun libro di testo contenente le regole d’oro o un maestro arrogante che possa insegnare al popolo cinese».
Come già fatto più volte negli ultimi mesi, ieri Xi ha promesso che Pechino non cercherà l’egemonia ma sarà anche più assertiva, andrà avanti con le riforme ma sosterrà sia l’economia di Stato che lo sviluppo del settore privato. È raro che simili eventi siano in Cina l’occasione per importanti annunci politici, ma - nel mezzo della tregua nella guerra commerciale tra Pechino e Washington, mentre gli ultimi dati segnano una contrazione dei consumi e crescono le preoccupazioni del settore privato per l’accesso al credito - gli analisti confidavano in qualcosa di più. Probabile che istruzioni più precise usciranno dalla Conferenza Centrale sul Lavoro Economico che ha aperto i suoi lavori nelle scorse ore a Pechino, tuttavia gli stessi media cinesi sono cauti nell’aspettarsi «cambiamenti strutturali».
Nella Grande Sala del Popolo affacciata sulla Tiananmen, Xi Jinping ha parlato quasi un’ora e mezzo davanti al gotha della politica cinese e ai «pionieri della riforma»: cento personalità premiate dal Partito Comunista per il contributo dato alla trasformazione della Cina.
L’attacco a Mao
In mezzo a scienziati, accademici e militari, il leader della Repubblica Popolare ha consegnato l’onorificenza anche al fondatore di Alibaba Jack Ma, al Ceo di Tencent Pony Ma e all’ex campione del Nba Yao Ming. Il leader cinese ha usato parole dure per descrivere la Rivoluzione Culturale - «che ha portato l’economia cinese sull’orlo del collasso» - e ha invece difeso il pragmatismo dell’apertura e delle riforme voluta da Deng Xiaoping.
Il miracolo
Esattamente quarant’anni fa, il 18 dicembre 1978, l’architetto delle riforme liquidò i detriti ideologici dell’era di Mao Zedong e gettò le basi per quell’apertura al mercato che ha consentito alla Cina di diventare la seconda economia del mondo. «Siamo orgogliosi - ha detto Xi - del miracolo compiuto dal popolo cinese». Quattro decenni in cui - come ricordano puntigliosi i media di Stato - la Cina è cresciuta a una media del 9,5% annuo e durante i quali oltre 740 milioni di persone sono uscite dalla povertà. «Avevamo tagliandi per il grano, per i vestiti, per la carne, per il pesce che sono stati consegnati al museo della storia».
Nonostante negli scorsi mesi alcuni analisti avessero ipotizzato che Xi Jinping - il leader più potente in Cina dopo Mao e Deng - stesse offuscando l’eredità del «piccolo Timoniere», l’omaggio fatto ieri all’architetto delle riforme e dell’apertura ha mostrato un presidente cinese in forte continuità con la storiografia ufficiale del Partito-Stato. Citato ben 128 volte, un protagonista dell’intervento del presidente cinese è stato proprio il Partito Comunista. «Solo migliorando la leadership e la governance del partito - ha detto Xi - potremo avere la garanzia che la nave dell’apertura e della riforma potrà continuare il suo viaggio». Sebbene il futuro riservi «ogni tipo di rischio e di sfida», secondo Xi Jinping la principale lezione che la Cina può imparare dai 40 anni di riforma e apertura è quella rimanere aderente alla leadership di Pechino. «Est, Ovest, Sud, Nord e Centro: è il partito a guidare ogni cosa».

Corriere 19.12.18
I 40 anni delle riforme
Xi Jinping
«La Cina? Un miracolo costruito dal Partito»
dal corrispondente a Pechino Guido Santevecchi


Quarant’anni fa, il 18 dicembre 1978, Deng Xiaoping diceva al Partito comunista che era ora di «emancipare le menti e cercare la verità dai fatti». I fatti dicevano che il socialismo perseguito da Mao era sinonimo di povertà per tutti. Era ora di cambiare e aprire la Cina alle riforme di mercato. Nell’era di Xi Jinping il Partito si è riunito di nuovo nella Grande sala del popolo in piazza Tienanmen per celebrare il suo successo. «Un miracolo», ha scandito il presidente cinese, costruito dal Partito che «è la guida, è tutto». «Abbiamo raggiunto obiettivi epici, abbiamo mosso cielo e terra». Per questo ora nessuno dall’esterno «può dettare alla Cina quello che deve o non deve fare». In novanta minuti di discorso Xi ha citato Deng una decina di volte. Il tributo più grande al Piccolo Timoniere della Grande apertura è venuto all’inizio: «Compagni, la Cina quarant’anni fa era sull’orlo del collasso economico dopo gli errori della Rivoluzione culturale, Deng Xiaoping si levò in piedi per mettere il Paese sulla giusta via delle riforme e rilanciare la rivoluzione socialista». Poi Xi ha ripetuto la frase storica di Deng sulle menti da emancipare e la verità da ricercare nei fatti. E secondo Xi «i fatti provano che il nostro percorso, la teoria, il sistema e la cultura sono assolutamente corretti». Tra i molti numeri citati da Xi quello sulla crescita del Pil cinese: 9,5% all’anno in media negli ultimi quarant’anni, rispetto al tasso globale del 2,9%; e ancora, il Pil cinese che nel 1978 rappresentava solo l’1,8% di quello mondiale oggi è arrivato a più del 15%; e i 740 milioni di cittadini usciti dalla soglia della povertà. Il passaggio più applaudito, sempre con sobrietà, è stato quello sui «tormenti della fame, la mancanza di cibo e vestiti che avevano perseguitato il nostro popolo per migliaia di anni sono finiti e non torneranno». Un passaggio del discorso è stato dedicato (senza citarla espressamente, perché Xi è molto più sfumato e sottile di Donald Trump) alla guerra commerciale con gli Stati Uniti, che ora è entrata in una tregua negoziale di 90 giorni: «La Cina sostiene un sistema di commerci aperto, inclusivo, non discriminatorio e multilaterale». Poi l’esaltazione della Belt and Road, la Nuova Via della Seta, la sua creatura: «La svilupperemo, andremo lontani ma non cercheremo mai l’egemonia». L’obiettivo è «costruire una comunità del futuro condiviso per l’umanità. Di nuovo un monito, il più forte, a Trump, sempre senza citare il rivale: «Nessuno può dettare al popolo cinese quello che deve o non deve fare».

La Stampa 19.12.18
Caserme di Mosca sulle isole contese
E Tokyo aumenta la spesa militare
La guardia costiera giapponese tra Hokkaido e le Curili
di Giuseppe Agliastro


Il Pacifico Occidentale è al centro di una nuova sfida internazionale. Russia, Cina e Giappone fanno a gara nel modernizzare le loro forze armate per accrescere il proprio peso specifico nella regione.
I nuovi complessi
Mosca fortifica da tempo le Curili meridionali con jet e missili. Ma è stata la costruzione di quattro nuovi complessi residenziali per i militari russi a Iturup e Kunashir, le isole più grandi dell’arcipelago, a scatenare l’ira di Tokyo, che da oltre sette decenni rivendica quelle quattro isole occupate dall’Urss alla fine del secondo conflitto mondiale. Un’annosa questione, su cui Russia e Giappone hanno recentemente intensificato il dialogo, ma sulla quale si stagliano le nuove tensioni nel Pacifico che hanno spinto Tokyo a un’impennata dei suoi investimenti nella difesa.
L’ascesa militare di Pechino
Messo di fronte all’ascesa militare della Cina, alla minaccia missilistica e nucleare della Corea del Nord e alle rinnovate aspirazioni geopolitiche del Cremlino, il governo di Shinzo Abe ha varato un nuovo piano che prevede una spesa record in mezzi militari: 243 miliardi di dollari in cinque anni. Cioè il 6,4% in più rispetto al precedente progetto quinquennale. Nel prossimo decennio il Giappone acquisterà dai suoi alleati americani due sistemi antimissili Aegis Ashore e ben 147 caccia F-35, tra cui 42 F-35 B a decollo corto e atterraggio verticale. Questi ultimi saranno schierati anche in mare. Tokyo intende infatti trasformare due portaelicotteri in portaerei e la Izumo sarà presto la prima portaerei nipponica dai tempi della seconda guerra mondiale. Una novità che qualcuno interpreta come una violazione del principio costituzionale in base al quale dal dopoguerra il Giappone affida alle sue truppe compiti esclusivamente difensivi. Il governo Abe respinge però le accuse: queste «navi da guerra multifunzione» - assicura - saranno usate solo per difendere il Paese in caso di attacco. E lo stesso - garantisce - vale per i missili.
Le pressioni di Trump
Dietro questo imponente shopping militare ci sono le pressioni di Trump, che spinge perché i suoi alleati aumentino le proprie spese belliche. Preferibilmente acquistando armi americane. Ma ci sono soprattutto gli attriti nella zona del Pacifico. «Stanno emergendo rivalità nazionali - spiegano i giapponesi - e riconosciamo l’importanza della concorrenza di Cina e Russia, che sfidano l’ordine regionale». Proprio questa corsa agli armamenti è uno dei principali ostacoli alla soluzione della questione delle Curili, che finora ha impedito a Mosca e Tokyo di firmare un trattato di pace dopo la Seconda guerra mondiale. La Russia potrebbe cedere al Giappone Habomai e Shikotan, ovvero le più piccole delle quattro isole, in cambio di investimenti e di un rilancio dei rapporti economici e politici col Giappone. Ma sospetta che su quegli isolotti Tokyo possa schierare missili americani. Il Giappone è a sua volta preoccupato dalla crescente attività militare di Pechino nel Mar Cinese Meridionale. E anche gli Usa temono l’ascesa militare della Cina. Se Trump minaccia di uscire dal Trattato Inf che vieta i missili nucleari a medio raggio è anche perché questo documento impegna solo Mosca e Washington, mentre Pechino non ha le mani legate da nessun accordo. Frenare la Cina in fondo è anche nell’interesse della Russia. Ecco perché ieri Putin ha proposto di includere anche «altri Stati» nel Trattato Inf o in nuovo accordo simile.

il manifesto 19.12.18
Pepe Mujica: «Il capitale ha reso il mondo più povero e più diseguale»
America latina. Dialogo con l'ex presidente dell'Uruguay, in buen retiro nella sua fattoria: «La maggioranza incolpa capri espiatori subalterni, i migranti. Ma ignora le vere cause: le economie transnazionali e il modo in cui concentrano la ricchezza»
di Luca Celada


È un carisma pacato quello di Pepe Mujica, ex combattente per la democrazia, ex presidente dell’Uruguay, ex prigioniero politico. Colpisce immediatamente la forza interiore che emana, placida e tenace, da quest’uomo semplice con la saggezza di un Nelson Mandela.
Come il leader africano, Mujica ha passato molti anni in prigione, 12 per l’esattezza ai tempi in cui coi Tupamaros si batteva per la libertà del proprio paese. È l’argomento di un film, La Noche de 12 Años, di Alvaro Brechner, presentato quest’anno a Venezia (Orizzonti) e selezionato come film urugayano concorrente all’Oscar.
A 82 anni Mujica, il capo di Stato più umile, vive in austero buen retiro nella sua fattoria alternando la guida del trattore a quella del maggiolino dell’87 per cui è noto. L’affetto di cui è oggetto in patria lo ha seguito a Venezia, dov’era protagonista del documentario El Pepe, una vida suprema, di Emir Kusturiça. Sul Lido le folle in attesa di entrare nei cinema solevano prorompere in applausi spontanei al suo passaggio, anche se lui caratteristicamente insiste, «la fama è solo una frottola, in questo mondo ce ne andiamo come siamo arrivati». Lo abbiamo sentito via Skype.
Cosa pensa dell’ondata reazionaria che investe il mondo?
Mi preoccupa e credo sia il prezzo indiretto che parte dell’umanità sta pagando per la globalizzazione spinta dal capitale transnazionale e da un sistema finanziario troppo vorace, un modello che ha in gran parte congelato i redditi delle classi medie. I ceti medi hanno cessato di crescere e questo ha dato luogo a una grande frustrazione da parte di chi, invece di cercare le responsabilità in alto, incolpa capri espiatori subalterni. Così la colpa diventa dei messicani o degli africani, dei siriani. Si finiscono per ignorare le vere cause: le economie transnazionali e il modo in cui concentra la ricchezza a scapito della maggioranza.
Come si manifesta il fenomeno in America latina e come va affrontato dalla sinistra?
Noi veniamo da molto lontano, avevamo molta gente affamata e senza riparo o con dimore miserabili. In parte siamo riusciti ad aiutarli e a farne dei buoni consumatori ma non necessariamente a trasformarli in cittadini. Quello è un processo assai lento. È più facile sfamare qualcuno, pur con tutte le difficoltà che comporta, che risolvere la questione delle coscienze. Insistere nel consumare ai livelli del mondo sviluppato senza aver risolto molti problemi di base porta a contraddizioni brutali e crea per noi un’immensa dipendenza. Il mondo sviluppato ha cominciato a progredire 200 anni prima di noi, con molti sacrifici sostenuti dai lavoratori che lavoravano 12-14 ore al giorno, poi con la capitalizzazione derivata dal colonialismo e lo sfruttamento. Noi siamo arrivati tardi, rincorriamo da dietro, ma non tutto è perduto. Nessun temporale dura per sempre. Non credo che l’estrema destra, malauguratamente, farà altro che concentrare ulteriormente la ricchezza. Dovremo imparare a essere meno tonti e più pazienti. I termini «destra» e «sinistra» sono accezioni moderne. La realtà è che solidarietà e conservatorismo sono forze contrapposte da che ci sono gli uomini sulla terra.
Il vicino settentrionale dell’Uruguay è l’ultimo paese ad aver sterzato a destra. Che consiglio darebbe ai brasiliani per i prossimi quattro anni?
Io credo che il popolo brasiliano troverà il modo per resistere e salvare il meglio di sé e forse le previsioni si riveleranno peggio della realtà. Vorrei sapere come risolveranno alcune lampanti contraddizioni, quella ad esempio di avere un ministro dell’economia iper liberista che dovrà mediare con la borghesia di San Paolo, il gruppo più protezionista del Sud America. Vedremo. Le parole sono una cosa, ben altri i fatti.
Nell’era di Trump e Bolsonaro è ancora possibile per un politico essere efficace e allo stesso tempo integro e idealista?
Apparentemente la cultura in cui siamo immersi, non quella che insegnano a scuola ma quella subliminale, del marketing, ci insegna che chi non diventa ricco è un fallito. Non ci dovremo sorprendere se prolifera il modello del leader-tycoon. Bisogna rendersi conto che si raccoglie ciò che si semina. Ci saranno sempre anche i sognatori e i fondamentalmente onesti che spingono per migliorare l’umanità. È difficile realizzare del tutto un sogno, ma occorre continuare a salire come su una scala su cui ogni tanto si rompe un gradino: allora bisogna fermarsi a ripararlo e poi proseguire. Il successo nella vita è rialzarsi e riprendere il cammino quando si cade.
Le sembra ci sia oggi un paese con la capacità e la visione per unire l’America latina?
Credo che l’America latina sia un gruppo di nazioni a cui manca ancora la capacità di realizzare una patria comune. Ma non potremo esistere se non avremo la capacità di superare le differenze e costituire un corpo comune. Perché il mondo, pur con tutti i contrattempi e le false partenze, marcia inesorabilmente verso un realtà di grandi conglomerati. O un giorno sapremo unirci o saremo disfatti, è questa la nostra sfida, ma tutti abbiamo le nostre sfide. Quando riusciranno gli Stati uniti ad accettare di essere una nazione bilingue e riconoscere i propri cittadini latinoamericani e capire che dal nostro senso di identità dipende anche il loro? Non è facile.
Cosa pensa degli eventi sulla frontiera che divide questi due mondi e l’ipersviluppo americano dal Sud America?
Alla fine della prima guerra mondiale le condizioni imposte alle nazioni sconfitte furono tali che il giovane Keynes disse: «È orribile e scatenerà un disastro». E così fu. Dopo la seconda guerra mondiale la lezione era stata recepita e la risposta fu il piano Marshall – sostenere l’Europa per contrastare l’orso sovietico. Gli Stati uniti hanno un problema analogo, assistere e sostenere il Centro America sarebbe una grande risposta. Invece ciò che sta accadendo sarebbe ridicolo se non fosse tragico. Spenderanno una fortuna sul confine per dire «No!» a gente di cui hanno bisogno – chi farà le pulizie dei ricchi? Chi lavorerà la terra? Chi stura le tubature? Per piacere! Per questo quello che sta avvenendo mi sembra drammaticamente ridicolo.
Qual è la situazione in Uruguay?
L’attuale presidente è un vecchio amico e sta facendo quello che può. Non abbiamo bacchette magiche o antidoti universali. Quello che so per certo è che le repubbliche moderne sono nate gridando alle monarchie divine e agli antichi feudalesimi che tutti gli uomini erano fondamentalmente uguali. Ora la battaglia non può essere semplicemente per ottenere una maggioranza di voti se non esiste anche una condivisione delle speranze e delle frustrazioni di quella maggioranza. Per essere più chiaro: credo fermamente che i leader dovrebbero vivere come la maggior parte dei loro popoli e non soccombere a nostalgie feudali e velleità da monarchi, circondati da cortigiani. Occorre tornare alle radici del repubblicanesimo, e non è facile.
In molti paesi si prospetta un ritorno a regimi dittatoriali simili a quello che lei ha combattuto passando 12 anni in prigione. Cosa ne pensa?
Ci sono molte dittature sul pianeta. Quelle che abbiamo avuto nel nostro continente hanno la loro storia e le loro cause, dovremmo mantenerne la memoria: la vita mi ha insegnato che può sempre andar peggio. Difendere una democrazia, per iniqua e difettosa che sia, vale sempre la pena. La storia insegna che non si può rimanere neutrali. Per questo mi duole enormemente dover constatare la crescita della disuguaglianza e la concentrazione sempre più enorme di ricchezza e potere politico. Siamo sulla soglia di una rivoluzione tecnologica che sta mettendo a punto strumenti che permetteranno presto di penetrare nelle coscienze e pilotare la mente delle grandi masse. Nessuna dittatura nella storia ha disposto di strumenti simili. La battaglia è lungi dall’essere finita, tutti dovremmo esserne parte. Io sono molto vecchio ma spero ancora nel genere umano. O forse sono solo sogni miei…

il manifesto 19.12.18
In questo mutamento perpetuo, non possiamo non dirci marxisti
Sinistra. A proposito di «Per un Marx al presente» di Rossanda, l’analisi di un’idea di classe «composta da individui necessariamente diversi uno dall’altro»
di Paolo Favilli

L’articolo di Rossana Rossanda Per un Marx al presente (il manifesto, 12 dicembre) ragiona sulle caratteristiche assunte dal lavoro nel nostro presente a partire da alcuni aspetti dell’analisi marxiana tanto sul lavoro che sulla forza-lavoro.
Si sofferma sull’ «errore» dei marxismi-leninismi che hanno legato il processo di emancipazione operaia all’ «obiettivo principale unico la distribuzione di beni soprattutto materiali ai lavoratori», senza tener conto dei «bisogni operai in crescita intellettuale e morale». Non è questo però il punto centrale dell’intervento. La questione, d’altra parte, non credo possa essere affrontata contrapponendo la sfera dei bisogni materiali a quella della tensione etica e della crescita culturale.
E la stessa Rossanda, infatti, ritiene come «filone di ricerca (…) urgente» quello della soggettività operaia; quindi l’indagine attenta all’interno della categoria marxiana «forza lavoro». E, giustamente sottolinea il fatto che l’analisi marxiana «riconduce esplicitamente ad un’idea della “classe” come composta essenzialmente da individui necessariamente diversi l’uno dall’altro».
Questo «filone di ricerca», coniugato ad un’analisi dei modi in cui si è manifestata storicamente la «soggettività» dei subalterni, è di particolare importanza oggi, quando le «individualità» sono il dato di fatto più evidente da cui partire per ragionare seriamente per qualsiasi ricomposizione dell’aspetto sociale dell’antitesi. Oggi quando tale soggettività appare in forme che sembrano non avere alcun rapporto con la collocazione economico-sociale dei soggetti. Di qui la tentazione di negare che le ragioni dell’opposizione tra capitale e forza lavoro abbiano le loro radici all’interno del rapporto di produzione. Di qui la proposizione della sfera politica come unico luogo deputato a dare forma e sostanza al «soggetto» della resistenza alle logiche del capitale.
Trovo più solidamente fondate, filologicamente fondate nei testi marxiani, le ricerche che hanno confermato come la contraddizione sia «al cuore del rapporto di capitale anche se la forza-lavoro si mostra, almeno per una fase, socialmente e politicamente inerte». (G. Cesarale, relazione convegno «Marx e la critica del presente», Roma, 27-29 novembre 2018. Il corsivo è mio)
Mi sembra che la questione abbia importanza per le scelte politiche relative alla ricostruzione di un «soggetto» antitetico. D’altra parte le ricerche a proposito non stanno certo iniziando oggi, ma hanno alle spalle una non brevissima storia. Il problema riguarda piuttosto il rapporto, o meglio il non rapporto, tra l’ampio campo di ricerche in corso nella cultura marxista e la proposta politica.
Ho dedicato molti anni di studio e scritto centinaia di pagine nel tentativo di definire storicamente (e teoricamente) la semantica di un termine così polivalente come«marxismo», per cui credo di essere totalmente immune rispetto a qualsiasi forma di pernicioso dottrinarismo. Ma chi sta indagando sul presente usando categorie analitiche ispirate alla teoria critica del capitalismo più ampia ed articolata prodotta dalla nostra modernità, non può che essere un marxista. Agli studiosi di storia del marxismo ed ai marxologi, poi, il compito di definire meglio di quale tipo di marxismo si tratti.
Che le categorie marxiane abbiano una loro specifica storicità è assolutamente evidente. Ma è anche evidente che un’analisi non appiattita sul presentismo deve muoversi tra la dimensione invariante (strutturale) del processo di valorizzazione del capitale, e quella che muta nelle fasi diverse dell’accumulazione (congiunturale).
Il tutto nella consapevolezza che non esiste un sistema di Marx bensì una complessa rete di relazioni in continua trasformazione, estranea a una logica sistematica. Il fatto che la sua opera principale, Il capitale, quella cui attese per quasi tutta la vita, si presenti come un «non finito» è la dimostrazione di uno sforzo prometeico per abbracciare un complesso di relazioni tendenzialmente «totale» e insieme la necessità di ritorni, ripartenze, modifica degli strumenti analitici per la comprensione della realtà del capitale in perpetuo mutamento. Un «non finito» strutturalmente necessario.
Abbiamo dunque bisogno di un «marxismo politico» davvero corrispondente alla metafora dei nani che vedono «oltre» solo sedendo sulle spalle dei giganti. Una metafora non utilizzata solo dalla modernità umanistico-rinascimentale, ma profondamente comprenetrata in percorsi di lunghissimo periodo dello svolgimento del pensiero occidentale.
Una consolidata tradizione culturale cui la «sinistra» politica (e non soltanto politica) ha rinunciato. I propri «giganti», infatti, o li ha uccisi o li ha cancellati. Rimangono solo i «nani», ed è, dunque, impossibile che il loro sguardo possa andare «oltre» l’orizzonte del «particulare» e del «contingente».

Repubblica 19.12.18
L’editoriale
La sinistra tentata dal balcone
di Ezio Mauro


Impegnato da mesi ad attraversare il deserto che si è creato con le sue mani, senza un leader che lo guidi e col miraggio di una nuova scissione, il Pd cerca fuori di sé le ragioni della sua sopravvivenza e del suo futuro, invece di trovarle in quel deposito di valori, ideali, rappresentanza di interessi legittimi che dà forma alla sua storia: e da cui può nascere una promessa di cambiamento e una scommessa sul futuro del Paese.
In piena stagione congressuale, con un nugolo di candidati ai blocchi di partenza di primarie stanche, un partito estenuato e sfibrato si lascia ipnotizzare dalla presenza-assenza di Renzi, un leader che invece di dar battaglia a viso aperto per le sue idee sceglie la ragnatela sospesa dell’interdetto. Fino a sembrare un inquilino moroso che continua a occupare l’appartamento dopo lo sfratto, mentre ne sta già arredando un altro.
E tuttavia Renzi, dal quinto angolo del partito, continua a esercitare una leadership residuale, col potere immateriale del veto.
Ma gli altri? Per ora si assiste a una battaglia navale di posizionamento.
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segue dalla prima pagina
Senza un confronto su un’idea del Paese, senza un’interpretazione dell’Italia in questo momento di metamorfosi del corpo sociale che si consegna al populismo dominante. Mancano ancora la forza e la visione per aggiornare con coraggio l’identità politica e culturale della sinistra, parlando ad un popolo disperso e deluso che comunque esiste e che aspetta un progetto, un gruppo dirigente ed una leadership capaci di proporre un’alternativa all’Italia feroce, egoista e dilettantesca che il governo disegna ogni giorno coi suoi atti.
Invece di questo sforzo faticoso di ricomposizione culturale e politica di un quadro frantumato, è partita con largo anticipo la corsa ad imboccare la scorciatoia più facile: la tentazione di aprire un dialogo con i Cinque Stelle, testando la possibilità di un’intesa per un indecifrabile dopo. Come se un qualsiasi confronto con chiunque fosse possibile senza un’identità forte, risolta, capace di dare coscienza compiuta di sé, e sicurezza nella rotta. Anzi, al contrario, come se un apriscatole esterno potesse risolvere d’incanto i problemi della natura e della funzione della sinistra oggi in questo Paese, in un’interpretazione estemporanea e improvvisata della vicenda italiana degli ultimi mesi, guardando ai numeri e non alla sostanza della politica. Soprattutto, come se non fosse successo niente, in questa prima fase di governo Salvini-Di Maio, e l’egemonia di una nuova destra che non avevamo ancora conosciuto — sovranista, antieuropea, razzista — non fosse scesa sul Paese, fino a cambiarne l’anima.
Naturalmente tutto ciò avviene perché il governo scricchiola, e l’alleanza ancora di più, in quanto un contratto non genera una visione comune dell’Italia, ma due idee del Paese concorrenti e diffidenti, con interessi divaricati e rappresentanze contrapposte: in più, c’è l’ovvia constatazione che in caso di rottura e di crisi il Pd non è in grado di rappresentare un’alternativa. Ma qui dovrebbe nascere la prima vera domanda: Di Maio può essere l’alternativa a Di Maio? E la sinistra può costruire un’alternativa credibile cedendo alla cultura altrui, trasformandosi in forza gregaria di ricambio, sostituendo da un giorno all’altro la Lega e le sue politiche xenofobe per entrare in scena da ancella, con l’abito della festa dopo le sconfitte, come nelle porte girevoli dei vaudeville?
Ancora una volta, insieme con la coscienza di sé manca un giudizio politico sulla natura politica dei Cinque Stelle, sulla loro scelta strategica — autonoma e indipendente — di intercettare nella pesca elettorale volutamente trasversale anche cittadini e istanze di sinistra, per poi convertirli a una politica apertamente di destra, marchiata dall’ossessione contro i migranti. Si dice nel Pd: molti nostri elettori sono già andati coi grillini, raggiungiamoli e proviamo a riprenderceli. Ma per provare a riprenderli, bisogna parlare con loro, non con gli stati maggiori che li hanno arruolati. E bisogna farlo attraverso la sfida di una politica concorrente, in campo aperto, non con la bandiera bianca di una resa culturale, come se il populismo fosse la fase suprema del riformismo e il suo ultimo approdo, per l’incapacità dei riformisti di credere nelle loro ragioni, anche in minoranza, trasformandole nelle buone ragioni di un Paese diverso. Quasi che la sinistra, fuori dal Novecento, dovesse anche lei adeguarsi alla metamorfosi del sociale invece di governarla, diventando una variante dell’indistinto populista. Perché altro destino non c’è.
Si dice ancora: la fisionomia politica e culturale del M5S è talmente fragile e insicura che così come Salvini l’ha modellata col suo scarpone, la sinistra in una futura alleanza potrebbe deformarla nel senso opposto, plasmandola a suo uso e consumo. A parte il fatto che questo ragionamento prescinde dai rapporti di forza, che in politica contano, la verità è che un autonomo istinto di destra ha portato i grillini prima a scegliere l’alleanza con Salvini e poi a condividere gli elementi di fondo della sua politica, dalle misure contro i migranti all’opposizione all’Europa, al rapporto privilegiato con la Russia, all’abiura dell’occidente, alle scelte securitarie. Di autonomo, Di Maio ha inserito l’impeachment per il Presidente della repubblica, chiesto un pomeriggio così come si chiede l’aperitivo al bar, col sovrappeso di una marcia su Roma, che rapidamente è diventata una marcia indietro su entrambi i fronti.
Tutti i segni confermano che due destre diverse e convergenti sono saldate da un comune rifiuto della storia repubblicana, dal disprezzo per le istituzioni, dal mandato furibondo a realizzare non un cambiamento ma una rivoluzione, dall’insofferenza per la libertà di stampa, dalla convinzione che il consenso elettorale consenta una totale supremazia egemonica, fuori da ogni controllo e da ogni rilievo da parte dei non eletti, che possono solo applaudire o ubbidire. Ecco perché la distinzione di comodo che i cantori del governo fanno tra Lega e Cinque Stelle è capziosa: certamente le due destre sono distinte nelle loro basi sociali e anche nei loro interessi, ma la xenofobia di Salvini è controfirmata ogni giorno da Di Maio, e l’assistenzialismo dei Cinque Stelle è costantemente tollerato dalla Lega: a buon rendere. Ciò che conta è ciò che unisce nel profondo i due partiti: un progetto per spostare l’Italia dal suo percorso tradizionale in Europa e in Occidente, e dal quadro dei principi e delle garanzie liberaldemocratiche che fin qui hanno contraddistinto le democrazie, deviando non soltanto la nostra tradizione nella politica estera e nelle alleanze, ma la curva della nostra civiltà materiale, quella che spendiamo, incassiamo e consumiamo nel quotidiano della nostra vita associata, in relazione con gli altri.
Si può ignorare tutto questo per superare artificialmente la fatica dell’opposizione, doverosa ( non per espiare, ma per rifondare) dopo una sconfitta così pesante? Qualsiasi tecnica di sopravvivenza dice di no. Anche perché l’universo grillino è un cubo perfettamente chiuso nelle sue pareti, governato da una società privata fuori da ogni regola democratica, e all’interno di quell’universo non si conosce la dialettica e il confronto di opinioni, perché come in ogni setta il dissenso è criminalizzato, mentre la delazione è benedetta. Potrà forse succedere un giorno che persino quel cubo si apra come una scatola di tonno, nasca una discussione, emergano culture tra loro vicine ma competitive. Potrebbe persino spuntare un’obiezione, qualcuno che in un pubblico confronto denunci l’alleanza con la Lega come un limite e come una gabbia, e chieda un cambio di rotta e di uomini, perché destra e sinistra non sono la stessa cosa: rimettendo in movimento la politica. Ma oggi l’investimento a destra per Di Maio è più redditizio, e soprattutto più naturale: lui fa ciò che è, e sa che a sinistra non troverebbe un balcone da cui affacciarsi per celebrare una finta vittoria contro l’Europa nemica. Quell’apparizione è un boomerang, ma resta la cifra estetica del populismo italiano, la sua postura pubblica, la rappresentazione del rapporto tra governanti e governati secondo la nuova destra. Basterebbe ricordarlo, per tenere la sinistra lontana dai balconi e da chi li frequenta.

il manifesto 19.12.18
Tagli all’editoria, giornalisti in piazza contro la rappresaglia Cinque Stelle-Lega
Edittoria (non è un refuso). L'attacco alla libertà di stampa del governo Conte è una ritorsione contro un migliaio di lavoratori che mette a rischio anche 10 mila posti negli indotti. Giulietti (Fnsi): «È un’aggressione al diritto dei cittadini di essere informati». Colpite le testate più critiche delle politiche razziste e della truffa sul cosiddetto "reddito di cittadinanza" e quelle che svolgono un lavoro di prossimità e servizio sui territori
di Roberto Ciccarelli


ROMA La protesta dei giornalisti in piazza Montecitorio ha denunciato la rappresaglia del governo Cinque Stelle e Lega contro i giornali che hanno raccontato la verità sulle navi dei migranti; hanno raccolto la voce delle diocesi contro il «Dl Salvini»; hanno raccontato le manifestazioni di massa contro il razzismo giallo-verde e smascherato la riduzione del «reddito di cittadinanza» a un sussidio di povertà vincolato a otto ore di lavoro gratuito a settimana, formazione obbligatoria e 5 o 6 mesi di soldi pubblici alle imprese come ha fatto il Jobs Act di Renzi.
PER IL SINDACATO FNSI e l’ordine dei giornalisti, la Lega delle cooperative, le redazioni di Avvenire, Radio Radicale, Il Manifesto, Roma, la Voce di Rovigo, Primorski dnevnik (il giornale della minoranza di lingua slovena del Friuli Venezia Giulia), ieri presenti al sit-in, questo è il significato dell’emendamento Patuanelli, capogruppo Cinque Stelle al Senato, alla legge di bilancio che taglierà tra il 2019 e il 2021 il fondo da 59 milioni di euro diretto a 52 testate indipendenti. Nel 2022 il fondo non sarà annullato, come invece dichiarano esponenti del governo e della maggioranza, ma riassorbiti dalla presidenza del Consiglio che deciderà, in maniera discrezionale, a quale soggetto editoriale vicino agli interessi politici del governo di turno riconoscere il finanziamento pubblico. Nei fatti, si tratta di una ritorsione contro un migliaio di giornalisti e poligrafici. Colpire i quotidiani di idee, noprofit, locali e cooperativi rischia di provocare una crisi che interesserà un’indotto di circa diecimila persone in quattro anni.
IN QUESTA STORIA il «mercato», principio religioso usato dai populisti per giustificare il taglio, non c’entra nulla, per di più in una crisi generalizzata. Emerge invece il non detto politico che vuole fare tacere il dissenso e cancellare il valore di bene pubblico non rivale e non esclusivo dell’informazione. Visto che questo governo nulla può contro i «giornaloni», allora ricatta economicamente i più piccoli, travolgendo anche quelli che svolgono un lavoro di prossimità e di servizio per le comunità.
UNA VENDETTA che favorirà i «giornaloni» in crisi di vendite. Il taglio dei populisti favorirà infatti gli oligopoli. Una conseguenza paradossale, e ancora apparentemente ignota, agli «esperti» del mercato al governo, ispirati dall’idea «anarco-capitalista» per cui l’accesso all’informazione passa solo dai signori del silicio della Silicon Valley o dai più modesti imprenditori locali che fondano partiti con i comici e li governano via piattaforma. Con una differenza: Jeff Bezos e Laurene Powell, vedova di Steve Jobs, comprano giornali come il Washington Post o l’Atlantic. I loro presunti imitatori cercano invece di chiuderli in Italia.
QUESTI ELEMENTI sono emersi anche a piazza Montecitorio: «L’obiettivo – ha spiegato il presidente Fnsi Beppe Giuseppe Giulietti – è cancellare le voci critiche affinché l’informazione si faccia solo in rete e senza domande. Si vuole, come dice il presidente Trump, al quale si ispirano questi signori,  cancellare la funzione dei giornalisti. È un’aggressione al diritto dei cittadini di essere informati». «Con questi tagli si vanno a colpire i giornali locali, l’ossatura dell’informazione del paese» ha aggiunto il segretario Fnsi Raffaele Lorusso. «Se passasse l’emendamento sarebbe un tradimento dell’articolo 21 della Costituzione» ha aggiunto Carlo Verna, presidente dell’ordine dei giornalisti.
LA TESTIMONIANZA di Antonio Sasso, direttore del Roma, e Roberto Paolo, presidente della la Federazione Italiana Liberi Editori (File), vicedirettore dello stesso giornale, è interessante. In un’intervista prima delle elezioni al quotidiano campano, l’attuale presidente della Camera Roberto Fico (M5S) aveva sostenuto che «non ci sarebbero stati tagli ai contributi». Pochi giorni fa si è «adeguato agli ordini di scuderia» in nome della «guerra alla Casta» (ai giornalisti). Fico ha confuso le acque evocando la situazione pre-riforma Lotti nel 2017, quando ci sono stati abusi, da tempo corretti. Il cambio a 360 gradi è stato spiegato così dai due giornalisti: «Dobbiamo prendere atto che le decisioni non vengono prese nel palazzo alle nostre spalle [la Camera, ndr.], ma dalla Casaleggio associati».
SOLIDARIETÀ trasversale dalle opposizioni. «Dovevano zittire i burocrati della Ue. Alla fine Lega-Cinque Stelle si accontentano di massacrare i giornali che li criticano» afferma Nicola Fratoianni (LeU/Sinistra Italiana). «Con i tagli all’editoria si restringe ulteriormente il perimetro della libertà di stampa. È una proposta che ha il sapore della rivalsa» sostiene Mara Carfagna (Forza Italia). «Ci opporremo per contrastare la logica del bavaglio» ha detto Graziano Delrio (Pd). Di «guerra alle voci libere, al dissenso, alla libera informazione» parlano i deputati del Pd.
LA MOBILITAZIONE interessa anche la magistratura. Dopo l’Anm, ieri il procuratore generale della Corte di appello di Roma Giovanni Salvi ha difeso Radio Radicale: «È una radio privata che svolge un servizio pubblico importante».

il manifesto 19.12.18
Ungheria, contro la «victatura» la protesta non si ferma
Il governo non cede. La riforma del lavoro porta in piazza, ormai da giorni, studenti, sindacati, opposizione (e perfino qualcuno di Jobbik): «Abbiamo conosciuto il regime, ora ci stiamo riavvicinando a quella realtà»
di Massimo Congiu


BUDAPEST Per gli orbaniani, i manifestanti che da giorni protestano contro il governo e la sua riforma del lavoro non sono altro che provocatori ispirati da George Soros. Provocatori e vandali che hanno come unico scopo quello di far danni e turbare la quiete pubblica. Gli interessati rispondono che c’è poco da stare quieti con quello che succede nel paese da quando Viktor Orbán è al potere. I sostenitori di questa lunga protesta non sembrano voler lasciare la presa ed esprimono apertamente un malcontento covato a lungo e oggi sfociato in iniziative di piazza che vogliono farla finita con questo governo.
STUDENTI, LAVORATORI ed esponenti del mondo sindacale sono stati gli iniziatori di queste dimostrazioni caratterizzate anche dalla presenza di alcune sigle dell’opposizione e di alcuni deputati che lunedì mattina sono stati sbattuti fuori a forza dalla sede della tv pubblica. Volevano trasmettere le cinque rivendicazioni dei manifestanti; esse riguardano la cancellazione degli straordinari, la libertà di stampa, e la richiesta di una netta marcia indietro del governo rispetto alla legge che prevede l’istituzione di tribunali speciali presieduti da giudici fedeli all’esecutivo. Si tratta di corti destinate a giudicare i reati contro lo Stato. Un altro punto contiene la richiesta di adesione del paese alla Procura europea.
Il governo non vuole cedere, così pure quei dimostranti che parlano di victatura. «Quando la dittatura è un dato di fatto è necessaria la rivoluzione», si leggeva su un cartello comparso alla manifestazione di sindacati e lavoratori. C’è insomma una parte di paese che esprime un chiaro dissenso e va precisato che da un po’ di tempo non si assisteva da queste parti a una mobilitazione quotidiana.
C’è chi, pur condividendo la protesta fa notare che i suoi sostenitori non hanno un programma preciso, in compenso li accomuna la voglia di voltar pagina e vivere in un paese diverso. «In un paese democratico legato ai valori europei», dicono gli universitari. Molti qui hanno la sensazione che, con la legge sugli straordinari, si sia arrivati alla classica goccia che fa traboccare il vaso. Così hanno fatto impressione le immagini dei deputati dell’opposizione cacciati dalla tv con maniere forti, quelle dei buttafuori. Loro, i deputati, hanno promesso battaglia legale in quanto sottolineano il fatto che, per il loro status, nessuno può mandarli via dalle sedi di istituzioni pubbliche.
ATTORI NOTI in Ungheria come Róbert Koltai e un’attrice conosciuta anche all’estero, come Mária Törocsik hanno criticato in modo netto il governo. Un messaggio chiaro il loro: «Abbiamo conosciuto il regime, ora ci stiamo riavvicinando a quella realtà». Le nuove disposizioni governative e le manifestazioni con tanto di feriti e fermati, hanno riportato l’Ungheria sotto i riflettori, complice il fatto che la Commissione di Venezia, organo consultivo del Consiglio d’Europa, ha bocciato la legge che sanziona l’aiuto ai migranti e istituisce un’imposta del 25% sul finanziamento delle Ong dall’estero. La Commissione sostiene che questa legge limita la libertà di associazione e quelle sancite in ambito europeo per la tutela dei diritti umani. «Protesteremo contro questa decisione che è politica e non giuridica», la risposta giunta dall’ufficio del primo ministro. C’è, insomma, un certo fermento in questo paese diviso dall’azione di governo di Orbán; perfino rappresentanze di Jobbik (partito della destra populista) hanno partecipato alle proteste.
Intanto, nel momento in cui scriviamo, un gruppo di persone manifesta davanti alla tv e altre contestazioni si verificano fuori Budapest. Si attendono aggiornamenti sulle prossime iniziative.

La Stampa 19.12.18
India
“Basta agli abusi del maschilismo”
Così nasce il Partito delle donne
di Carlo Pizzati


Non dovrebbe sorprendere nessuno se nel peggior Paese al mondo per le donne (che secondo l’ultimo sondaggio Thomson Reuters è appunto l’India) sia stato inaugurato ieri un Partito Nazionale delle Donne. Candidate, elettrici, militanti: sempre e solo donne, con qualche apertura ai politici maschi se vorranno appoggiare il programma con i loro voti.
Così, dopo 102 anni della nascita dall’omonimo partito che in America vide sbocciare il movimento delle suffragette, ecco che in India un coraggioso medico 36enne, Swetha Shetty, inaugura una campagna politica con un obiettivo preciso: una quota rosa che porti le presenze femminili nella Camera Alta del Parlamento dall’attuale 11 per cento a un 50 per cento obbligatorio.
La presidente Shetty dice di poter contare già sul sostegno di un milione e 450 mila voti del Mahila Samiti, il partito dei cosiddetti «intoccabili» dello Stato del Telangana.
«Rappresentiamo prima di tutto le vittime sfruttate che hanno sofferto in questo sistema maschilista. Quelle che hanno girato da sportello a sportello aspettandosi un aiuto senza ottenere niente, quelle che hanno sofferto gli abusi domestici o stanno lottando contro l’establishment», ha dichiarato alla presentazione del partito Shetty, facendosi ritrarre accanto a una vittima di stupro e un’altra di un attacco con l’acido.
Le prime scintille del National Woman’s Party hanno brillato già nel 2012, quando lo stupro e assassinio di Jyoti Singh in un autobus a Delhi scatenò proteste di massa.
«Il mondo politico in India è stato dominato profondamente dai maschi. Ci siamo sempre sentite escluse», ha commentato Shetty, dimenticando forse l’ex premier Indira Gandhi e la sua potentissima nuora Sonia Gandhi, di origini italiane, oltre a una serie di governatrici donne che negli anni hanno amministrato diversi stati. «Ora c’è la necessità di un tocco femminile più delicato. Il potere alle donne porterà a una gestione più equa dei paradossi del nostro tempo».
Unica pecca poco femminista del nuovo partito è forse il sottotitolo: «Il partito delle madri». Un facile slogan che rischia di urtare chi nel femminismo occidentale rigetta l’idea di donna sempre e solo come madre. Ma era un concetto irresistibile in India, Paese dove il ruolo della mamma è forse paragonabile a quello che ha ancora in Italia.
A parte questo dettaglio demagogico, il movimento è molto determinato e con le idee chiare. «Non ci fermeremo fino a quando non vedremo che le donne sono rappresentate con eguaglianza in Parlamento», promette il dottor Shetty, «e, dopo, porteremo la quota del 50 per cento obbligatorio in tutti gli altri ambiti della società».
Peso politico? La partita è aperta. Il BJP, partito di governo con il premier Narendra Modi alla guida, ha sofferto alcune batoste nelle recenti votazioni in alcuni stati indiani. Se il National Woman’s Party riuscirà a raccogliere una decorosa percentuale di voti, potrà puntare al ruolo di ago della bilancia nelle importanti elezioni nazionali del 2019 e dimostrare che il futuro è davvero donna.

Il Fatto 19.12.18
Biotestamento un anno dopo: la legge non basta. Pochi sanno cos’è e manca una banca dati nazionale
Il 14 dicembre del 2017 fa l'approvazione storica del provvedimento sul fine vita. Dodici mesi dopo ancora si fatica a farne decollare l'applicazione: non c'è campagna di informazione e regna la confusione con ogni città e Regione che fa da sé. Il decreto per istituire un sistema nazionale è stato approvato a fine luglio (e sono stati stanziati 2 milioni di euro), ma ancora non è stato fatto niente. E il ritardo è su più fronti: il 24 ottobre la Consulta ha chiesto al Parlamento di legiferare su eutanasia, ma la politica non ha nemmeno definito una data
di Luisiana Gaita

qui

Il Fatto 19.12.18
“C’erano i Servizi dietro stragi e depistaggi”
Via D’Amelio - Oggi la Commissione Antimafia siciliana presenta il rapporto sulle indagini deviate
di Marco Lillo


Oggi alle 15 la Commissione Antimafia della Regione Siciliana pubblicherà la relazione conclusiva di 80 pagine sul depistaggio nelle indagini per la strage del 19 luglio 1992 nella quale sono stati uccisi il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta.
“La relazione è il primo tentativo di interrogarsi a livello politico sulle conseguenze delle rivelazioni di Gaspare Spatuzza sulla strage di via D’Amelio. Dieci anni dopo era un passaggio necessario”, spiega il presidente della Commissione regionale antimafia. Per Claudio Fava non basta processare i tre poliziotti ora a giudizio a Caltanissetta o prendersela con il loro capo ora scomparso, Arnaldo La Barbera, o con il procuratore Giovanni Tinebra, allora alla guida delle indagini sulle stragi a Caltanissetta.
Alla luce del vostro lavoro chi sono i responsabili ultimi del depistaggio?
Ci sono state più responsabilità che si sono cumulate. Il depistaggio è la somma di colpe e consapevolezze che attraversano la magistratura, le forze di Polizia e i servizi segreti. Il frutto di molte azioni, negazioni e omissioni.
I servizi segreti si sono impegnati nel depistaggio per celare i veri colpevoli? O è giusta la lettura minimimalista: Arnaldo La Barbera e alcuni uomini della sua squadra volevano fare carriera?
Abbiamo appurato una tale quantità di forzature, reticenze, omissioni che non si possono spiegare solo con la voglia di fare carriera. Questa mi pare una lettura di comodo.
E allora qual è la lettura corretta del più grande depistaggio del secolo?
Noi siamo arrivati alla conclusione che l’ipotesi di lavoro da seguire sia un’altra: la mano che ha accompagnato questo depistaggio potrebbe essere la stessa mano che ha organizzato la strage.
Quali sono gli indizi emersi dal lavoro della Commissione d’Inchiesta per sostenere questa tesi?
Il ruolo dei servizi segreti è assolutamente anomalo e si vede nelle immediatezze della strage del 19 luglio 1992 già in via D’Amelio con la sparizione dell’agenda rossa del giudice. Ma questo ruolo prosegue con una vera investitura ufficiale della Procura di Caltanissetta. Fa impressione un dato: tra Capaci e via D’amelio in 57 giorni non ci fu tempo e voglia di sentire Paolo Borsellino mentre fu coinvolto ufficialmente nelle indagini sulla strage di Capaci, Bruno Contrada.
Cosa avete appurato sul ruolo avuto dal Servizio Segreto in quei giorni?
La legge vietava oggi come allora il coinvolgimento dei servizi segreti nelle indagini. Invece il procuratore Giovanni Tinebra coinvolse ufficialmente il Sisde del quale era numero tre allora Bruno Contrada. Senza tenere conto del fatto che Bruno Contrada era sospettato in quel periodo dai magistrati di Palermo per i suoi rapporti con la mafia (poi Contrada sarà condannato in Italia ma – in esecuzione di una sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo – la condanna sarà revocata nel 2017 dalla Cassazione perché negli anni dei fatti, secondo la Cedu, il concorso esterno in associazione mafiosa non era abbastanza delineato nell’interpretazione giurisdizionale in Italia, Ndr). Sin dall’inizio l’intervento dei servizi è finalizzato al depistaggio.
In quali tracce vi siete imbattuti?
I primi atti di indagine prodotti dai servizi nell’ottobre del 1992 erano finalizzati a delineare un profilo criminale mafioso di Vincenzo Scarantino. Quel profilo contrastava con quanto tutti sapevano cioé che era un venditore di sigarette di contrabbando. Era il primo tassello. Poi è emerso un incontro conviviale, descritto con toni diversi dai testimoni, tra i dirigenti dei servizi e i dirigenti della Procura di Caltanissetta nel dicembre del 1992.
Fiammetta Borsellino ha posto 13 domande. Siete riusciti a dare una risposta alla figlia del giudice?
Le sue domande sono state come una guida nel nostro lavoro. Non siamo certamente riusciti a rispondere a tutte. Però l’importante è proseguire nel lavoro e continuare a fare le domande. Noi speriamo che la nostra relazione possa essere utile alla magistratura per andare avanti.

Il Fatto 19.12.18
“Meglio niente Brexit che riavere due Irlande”
Sammy Wilson - Il portavoce dei Dup, gli unionisti-stampella del governo May: “A gennaio votiamo no”
di Sabrina Provenzani


Stampella del governo May dalle elezioni del giugno 2017, i 10 parlamentari del Dup, il partito unionista nord-irlandese, con la loro opposizione alla backstop, fanno da spina nel fianco alla già difficile ratifica parlamentare dell’accordo di divorzio. Sammy Wilson, portavoce Dup per la Brexit, ne riflette l’approccio durissimo.
Avete dichiarato che voterete contro il deal in Parlamento. Le ragioni?
Non accetteremo mai, mai un deal che stacca il Nord-Irlanda dalla Gran Bretagna, una trappola congegnata a Bruxelles per punire la scelta del popolo britannico di lasciare l’Unione europea. L’Ue ha già dimostrato di essere inaffidabile durante la fase dei negoziati, quando ha trattato il Regno Unito come fango sulle scarpe. Non crediamo alle sue rassicurazioni sulla durata temporanea della backstop. Quando il Parlamento avrà bocciato il suo piano, la May deve tornare a Bruxelles e chiarire che se la backstop non viene eliminata dall’accordo di recesso usciremo senza accordo, e senza pagare i 39 miliardi del divorzio. L’Ue cederà, perché anche loro hanno a cuore i loro posti di lavoro e non vogliono una voragine nel budget.
I segnali da Bruxelles non vanno in questo senso. Davvero sareste pronti a un no deal, descritto come una catastrofe da Banca d’Inghilterra, Tesoro, Confindustria, analisti indipendenti?
Non crediamo in nessuna di queste previsioni. Sono gli stessi che parlavano di disastro nel caso di vittoria del Leave al referendum, e si sbagliavano. Se gridi “al lupo al lupo” troppo spesso alla fine non ti crede nessuno… Siamo convinti che staremo molto meglio senza vincoli europei e con tutti quei soldi in più da spendere in servizi pubblici.
Non considerate alternative come il Norway Plus o il secondo referendum?
No, la Norway Plus non risolverebbe il problema della backstop e ci terrebbe ancorati all’Europa, mentre un secondo referendum senza aver onorato il mandato del primo sarebbe un tradimento della volontà popolare ed esacerberebbe le divisioni nel paese.
Temete le divisioni ma non un no deal, cioè il ritorno di un confine fisico e la messa a rischio degli accordi di pace? I nord-irlandesi hanno votato in maggioranza Remain…
Ciò che può davvero mettere a rischio il processo di pace è un’eccessiva interferenza europea che non rispetti la sovranità nord-irlandese.
Ma il Sinn Fein ha già annunciato che in caso di no deal chiederà un referendum per l’unificazione delle due Irlande e secondo un recente sondaggio LucidTalk la maggioranza dei nord-irlandesi sceglierebbe di unirsi alla Repubblica di Irlanda.
Non è vero. Mi creda, gli irlandesi del Nord vogliono restare nel Regno Unito qualunque cosa accada.

Il Fatto 19.12.18 
Una marcia da 50 milioni Netflix punta a Hollywood
Con il super favorito “Roma” di Cuarón
Verso l’Oscar 2019  Il colosso dello streaming punta alla statuetta per il miglior film in lingua straniera
di Federico Pontiggia


Il primo passo è compiuto, Roma di Alfonso Cuarón è entrato nella shortlist per l’Oscar al miglior film in lingua straniera. Nove i semifinalisti, in attesa delle cinquine del 22 gennaio, tra cui non c’è Dogman: già assorbito da Pinocchio, Matteo Garrone non ha fatto campagna negli Usa per supportarlo, ma probabilmente non sarebbe cambiato nulla. Maggiori possibilità, vorrebbe qualcuno, se avessimo corso con Lazzaro felice di Alice Rohrwacher? Chissà, ma l’essere rimasto a bocca asciutta ai recenti European Film Awards, dove il canaro Marcello Fonte ha viceversa bissato il premio ricevuto a Cannes, non depone a suo favore.
In ogni caso, sono supposizioni che non tengono, perché implicano che agli Oscar la discriminante sia il valore, quantomeno il gusto, e invece no: al più vale la paraculaggine, vedi Capernaum della libanese Nadine Labaki; di sicuro importano i premi vinti, il Leone d’Oro Roma e la Palma d’Oro Affari di famiglia del nipponico Hirokazu Kore-eda; ovviamente, pesa il cursus honorum e i precedenti, giacché il polacco Pawel Pawlikowski di Cold War viene dalla statuetta di Ida e il tedesco Florian Henckel von Donnersmarck di Opera senza autore da quella de Le vite degli altri. Sopra tutto, contano i soldi messi sul piatto per promozione e lobbying, e le cifre che si sussurrano sono da capogiro: Netflix per Roma avrebbe garantito 50 milioni di dollari, mentre la rivale Amazon 10 milioni a Cold War. Che mi sbatto a fare, dev’essere stato il ragionamento di Garrone, per centrare la cinquina nel migliore dei casi e poi farmi alzare la statuetta in faccia da Alfonso o Pawel? Lo scotto per la shortlist mancata da Gomorra, si capisce, fu altra cosa.
Tornando al grande favorito, una cifra certa c’è: i 20 milioni che la società di Reed Hastings lo scorso aprile ha sganciato per assicurarsi il dramma familiare di Cuarón. Con un obiettivo esplicito: farne il proprio cavallo di battaglia, e pure di Troia, ai 91esimi Academy Awards, il 24 febbraio del 2019 a Los Angeles. Fin qui tutto secondo le più rosee previsioni, nonostante il mancato approdo a Cannes per l’opposizione del festival, ovvero della legge francese, alle politiche della piattaforma streaming, e viceversa: il massimo riconoscimento di Venezia, attribuito dalla giuria presieduta dall’amico Guillermo Del Toro (ah, per Netflix ora farà il tanto agognato Pinocchio…), un plauso critico quasi unanime, mentre né gli spettatori, e relativi incassi, in sala né le visioni in streaming sono stati d’abitudine comunicati. Successe solo per il primo film accaparratosi da Netflix, Beasts of No Nation di Cary Fukunaga nel 2015, poi la trasparenza è stata archiviata.
Ma perché proprio Roma, perché proprio il messicano Cuarón? Con i connazionali Alejandro González Iñárritu e Guillermo Del Toro, l’Alfonso vittorioso nel 2014 con Gravity si è spartito quattro degli ultimi cinque Academy Awards per la regia, da cui l’hashtag #OscarsSoMexican; il suo nome è garanzia di eccellenza artistica, un prezioso amuleto contro il malocchio anti-Netflix di esercenti, cinefili e membri votanti dell’Academy; Roma è dramma universale in confezione deluxe, pur parlato in spagnolo e mixteco comunica a tutti, pur in bianco e nero incanta tutti, o quasi. Insomma, può riuscirgli il grande colpo, quello mai realizzato nella quasi centenaria storia degli Academy Awards: solo dieci titoli in lingua straniera sono stati nominati nella categoria Best Picture, e nessuno ha mai vinto. Non La vita è bella di Roberto Benigni, non Vittorio De Sica né Federico Fellini, che pure hanno in carnet quattro Best Foreign Language Film ciascuno.
L’impresa val bene un cambiamento di strategia: se per qualificarsi agli Oscar basta una distribuzione theatrical (effettuata dal servizio in concomitanza con lo streaming), il capo della divisione film di Netflix Scott Stuber per Roma, nonché per The Ballad of Buster Scruggs dei fratelli Coen e Bird Box con Sandra Bullock, ha varato il “cinema first”, garantendo la diffusione prioritaria in sala da una a tre settimane, seppure in un numero limitato di copie (600 in tutto il mondo per Roma). Conquistare l’Oscar al miglior film, ancora meglio se raddoppiato dallo “straniero”, aprirebbe una nuova era e, scommettiamo, porterebbe alla 74esima Mostra di Venezia l’attesissimo The Irishman, diretto da Martin Scorsese. E targato Netflix, ovvio.

La Stampa 19.12.18
“Sicuro, semplice e bello come Genova. Il mio ponte sarà una ripartenza
Renzo Piano L’architetto appena nominato supervisore del progetto: «Bisognerà lavorare di rammendo e ripensare la vallata del Polcevera»
intervista di Andre Plebe

qui

Corriere 19.12.18
«L’ho immaginato come una nave
Diventerà un simbolo per tutta l’Italia»
Renzo Piano: mille anni? No, ne durerà duemila
di Giangiacomo Schiavi


N ei suoi appunti, sui fogli da disegno, ha scritto: il ponte. E basta. Non c’è un nome. «Si chiamerà il ponte di Genova», dice Renzo Piano. «Semplice ma non banale. Forte, molto forte, lontano dalla retorica. Bello, di una bellezza genovese: restìa, parsimoniosa, taciturna».
Questa volta destinato a durare...
«Non mille, ma duemila anni. I ponti non possono crollare».
Si parte da una sua idea e lei farà da supervisore, ha detto il sindaco Bucci.
«Ci ho lavorato dal 15 agosto, dopo la chiamata del sindaco. Sono onorato di questo. Oggi si è formata una bella squadra, una squadra molto forte. Ed è stato un bene che il commissario abbia fatto un confronto sui diversi progetti».
Altri architetti come Calatrava si sono messi a disposizione, nel caso ce ne fosse bisogno.
«È un bel segnale. La chiamata generale ha alzato l’asticella».
Il ponte manterrà le caratteristiche previste dalla sua idea iniziale?
«Dovrà ricucire una città divisa, elaborare un lutto, suscitare orgoglio. L’ho immaginato come una nave, un qualcosa di simbolico che però non deve perdere il tema della memoria. Questa tragedia ha creato un vuoto enorme».
Ci saranno i fasci di luce per illuminare la memoria delle 43 vittime...
«Per non dimenticare. Elaborare un lutto vuol dire farlo proprio, fino a diventare una parte di te stesso. Bisogna scavare nel profondo di ognuno di noi, riuscire a creare un nuovo sentimento: non dimenticare ma trovare la spinta per rinascere».
Lei ha parlato ancora una volta di rammendo.
«A Genova non ci sono spazi. È stretta tra il mare e le montagne, diceva lo storico Braudel. Il crollo ha risvegliato il fantasma della città separata, quella operaia e la Superba. Due mondi che devono tornare uniti. La ricucitura passa attraverso il ponte, una delle icone dell’architettura insieme alla piazza. Un ponte è sempre un momento che unisce».
Per un architetto genovese questo progetto è anche un omaggio alla sua città.
«Un omaggio alla città che amo e a un luogo che sento intimamente mio. Mio padre è nato lì, alla Certosa. Da bambino, quando ancora non c’era il ponte Morandi, mi portava in quel quartiere operoso e nel mio immaginario quei nomi, Certosa e Valpolcevera, suonavano come luoghi delle meraviglie».
Spirito civico
Qualche maligno lo ha messo in discussione, ma io confermo che lavorerò
a titolo gratuito
Il suo contributo resta a titolo gratuito?
«Confermo quello che avevo detto fin da subito e qualche maligno ha messo in discussione. A titolo gratuito. Ci sono cose che si fanno anche per spirito civico».
È stato anche detto che i ponti non li fanno gli architetti.
«E infatti ci sono i tecnici, gli ingegneri. Mi è capitato di fare ponti in Giappone nell’arcipelago di Amakusa, a Sarajevo, a Chicago. Forse qualcuno ha pensato che fossi a caccia di incarichi... Ma alla mia età non vado in cerca di notorietà».
Tre mesi fa aveva detto: bisogna fare rapidamente ma senza fretta. Basteranno dodici mesi?
«I tempi saranno più o meno questi. Ma io credo che questo cantiere dovrà essere soprattutto un laboratorio, anche per l’Italia. Un cantiere è sempre un momento straordinario, di grande energia».
Genova ha bisogno di ritrovarsi, dicono il sindaco Bucci e il governatore Toti, di una rapida ripartenza.
«Genova non si è mai persa e non si è mai data. Ha un orgoglio immenso. In questo ponte si deve riconoscere. Serve un momento positivo per contrastare l’immagine distruttiva del crollo, il dramma di tante famiglie, lo smarrimento e la paura».
Basterà la partenza di questo cantiere?
«Ogni ricostruzione è un atto di fiducia. Ma ricostruire è anche un gesto di pace. Un momento in cui le diversità si mettono via, si devono mettere via. Oggi è il momento di una forte solidarietà. Io ho vissuto a Berlino un cantiere con cinquemila operai, un altro analogo l’ho vissuto a Tokyo. Ogni volta si è creato un clima straordinario, perché stai costruendo insieme ad altri qualcosa di importante, qualcosa che unisce persone e mondi».
La semplicità del progetto ha fatto storcere il naso a qualcuno.
«Semplicità non vuol dire banalità. Questa è un’opera che nasce dall’entusiasmo, dalla voglia di rinascita. E io l’ho immaginata pensando a Genova, solida, concreta, poco appariscente, forte dentro...»
Genova che somiglia a quella del poeta Caproni (Genova illividita/ Inverno nelle dita/ Genova mercantile/ Industriale, civile/ Genova che mi struggi/Intestini, Caruggi/ Genova sempre nuova/ vita che si ritrova...)
«...Genova che oggi rappresenta l’Italia, e può diventare un laboratorio per l’intero Paese, capace di rimettere in moto quel percorso di manutenzione di cui abbiamo tanto bisogno. Il nuovo ponte è un simbolo, un segno di unità e un messaggio di positività».

Repubblica 19.12.18
Piano "Quel progetto il mio regalo a Genova ora lavorerò gratis"
Intervista di Massimo Minella,


GENOVA Ha atteso fino a oggi, soffrendo in silenzio «come tutti i genovesi» per la tragedia del crollo del ponte Morandi, e ora che il commissario ha reso pubblico il suo verdetto risponde: «Ne prendo atto e ubbidisco». La lunga giornata di Renzo Piano sta volgendo al termine. Alle 17 Marco Bucci, sindaco di Genova e commissario, ha annunciato che a ricostruire il Morandi sarà la cordata formata da Fincantieri, Salini Impregilo e Italferr che si ispira al disegno di Piano. E lui, nel suo ufficio sulla collina di Vesima che guarda al mare, lembo estremo del ponente genovese, attende che Bucci termini la conferenza e poi riflette sugli ultimi quattro mesi passati fra il dolore del crollo e la voglia di rimettere in piedi quel ponte. Per Piano il commissario ha ritagliato un ruolo nuovo, quello di "supervisore", perché c’è da tanto da ricostruire e cambiare, per cui non percepirà alcun compenso.
«Lo faccio a titolo gratuito, sia chiaro» spiega.
Architetto, il verdetto premia la cordata che lavora sul suo disegno, un ponte che si allunga ricordando il profilo di una nave d’acciaio illuminato da 43 lanterne, a ricordare le vittime della tragedia. Come si sente?
«È stata una giornata faticosa, ma va bene così. Devo dire che è stata bella l’idea del confronto fra offerte. Alla fine è stata compiuta una scelta e adesso viene la parte difficile per tutti noi. Il nostro è un mestiere pericoloso, se sbagli non sbagli per te stesso, ma per la comunità. Bisogna essere ben sicuri di quello che si fa».
Partiamo dall’inizio, dal crollo.
«Una tragedia inimmaginabile a cui ho risposto cercando di fare la mia parte, mettendomi subito a disposizione. La mia è stata una reazione istintiva. Le istituzioni mi hanno chiamato e io ho detto di sì, a titolo gratuito. E continuo a fare così. Il sindaco mi ha chiesto di fare il supervisore e ho accettato».
Sono emerse subito con forza due proposte su cui alla fine il commissario ha scelto. Percorso corretto?
«Il confronto è la scelta giusta e premia una squadra eccellente, che sa costruire e che mostrerà la sua capacità».
C’è chi ha definito troppo anticipata la sua presenza in Regione con il plastico del nuovo ponte. Il commissario doveva ancora essere nominato. Che risponde?
«Ma cosa potevo fare? Ho portato il mio contributo in Regione al sindaco e al governatore. Poi, lo so, quell’episodio del modello che cade, con l’amministratore delegato di Autostrade Castellucci... Perché ancora parlare di quello? Purtroppo fa parte di quello che io chiamo mitologia. E non è l’unico caso, sa?».
No, e quali sono le altre mitologie?
«Gliene dico una, che io non ho mai fatto ponti. Ne ho fatto uno ben più lungo del Morandi, 25 anni fa in Giappone. E poi a Sarajevo, Chicago, Los Angeles, per il progetto che sto portando avanti adesso per l’Academy. Io metto i ponti dappertutto, autostradali, urbani, pedonali. Io nei miei progetti parto dalle piazze e dai ponti. Il ponte è l’elemento che unisce. Guardi il nuovo Morandi, lega le due sponde di Genova».
Ma ora rispetto alla prima stesura cambierà il disegno del ponte?
«Ci stanno lavorando, certo, si tratta di un lavoro continuo che coinvolge squadre di ingegneri.
Ormai si lavora sui millimetri valutando ogni minimo dettaglio».
Ma che ponte sarà?
«Bello come la bellezza di Genova, semplice ma non banale. E d’acciaio, per durare tanto».
Il gruppo sconfitto aveva dato la sua disponibilità a collaborare con la cordata vincente...
«Cimolai è un grande costruttore e Calatrava un grande architetto.
Il sindaco mi ha parlato della loro volontà di dare un contributo. È un’ottima cosa, devono succedere tante cose. Non c’è solo il ponte da ricostruire. Bisogna intervenire sul quartiere e poi c’è il parco urbano».
Lei si occuperà anche di questo?
«No, lì ci saranno dei concorsi. Io ho avuto questo ruolo di supervisore e lo eserciterò peraltro in linea con il mio ruolo di senatore a vita che vuole concentrarsi sul rammendo urbano».
Il ponente genovese sembra averne un grande bisogno, vero?
«È necessario un lavoro di valorizzazione di tutta la vallata, che è straordinaria. Io la conosco bene, mio padre era di Certosa e mi ci portava spesso. E poi dietro c’è Coronata, dove si fa un ottimo vino. Quella vallata non è un luogo abbandonato, ma è vivo, ventoso d’inverno e fresco d’estate. Ecco, la mia idea è quella di favorire un progetto di rigenerazione, per favorire anche le attività industriali. Ci sono 1.500 aziende e altre ne possono arrivare. Non c’è solo il porto, a Genova».
La ricostruzione può avvenire in dodici mesi, una volta che le aree saranno state liberate. I tempi saranno rispettati?
«C’è una cordata di aziende di grande livello e un sindaco-commissario che è un vulcano. Lavoreranno senza soste con rapidità. Penso di sì. E sarà un grande momento di solidarietà quello del lavoro nei cantieri».
Di solidarietà?
«Certo, i cantieri sono sempre un momento di solidarietà e far parte di un progetto come questo la farà aumentare. Il lavoro crescerà con l’orgoglio di far parte di questo progetto e non ci sarà nulla di più bello. Chi ha saputo rendere benissimo questo è Maurizio Maggiani, nel suo "Il romanzo della Nazione", quando si sofferma sulla costruzione della corazzata "Dandolo" all’arsenale della Spezia. Ecco, lo stesso può valere per questo ponte che tornerà a unire due città».
Architetto Piano, sono stati quattro mesi difficili e complessi, quelli passati. Come li ha vissuti lei?
«Come ogni genovese di fronte a questa terribile storia, soffrendo ma poi elaborando il lutto. Solo la nostra lingua italiana riesce a rendere così bene il concetto. Si parte da una sofferenza che poi lentamente diventa sostanza. E senza retorica si ricostruisce. Una cosa molto genovese».
Ma come avrebbe reagito se non fosse stato scelto il suo progetto?
«Sarei stato contento lo stesso, perché grazie al confronto che si è creato l’asticella si è alzata ancora di più. Ora il commissario ha deciso e io ne prendo atto e ubbidisco».

Repubblica 19.12.18
Miti
La "Teogonia" di Esiodo
Nel canto delle Muse la memoria del futuro
di Pietro Citati


Nella letteratura greca, si procede sempre più indietro: si va sempre più lontano, talvolta verso una meta irraggiungibile. Dov’è il principio? Dov’è l’inizio?
Non sappiamo mai esattamente se la Teogonia preceda o no le parti più antiche dell’Iliade. In tutti i casi c’è una relazione orale o semiorale.
Probabilmente la Teogonia (di cui grazie a Gabriella Ricciardelli ha appena pubblicato un’eccellente edizione, la Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori) è anteriore alla parte più antica dell’Iliade. Sta lì, sola, in vetta alla poesia greca: ma le date sono sensibilmente incerte.
Di una cosa siamo quasi sicuri.
Esiodo era un poeta totale: più di Omero o addirittura di Virgilio o Dante; e la sua meta principale era quella di indicare dei nomi e di stabilire una successione di idee e di sensazioni. Era pastore, marinaio e poeta. Come allora quasi tutti, partecipava a gare: e probabilmente proprio con la Teogonia vinse un premio di grande importanza.
Esiodo era «colui che si rallegra del viaggio»: il preciso significato del suo nome.
Esiodo era un poeta metafisico (assai più di Omero): una specie di identità collettiva, che coincideva con le Muse; e il suo compito principale era quello di raccontare l’incessante divenire delle cose.
Ecco, qui, le cose si muovono, cambiano, si trasformano: persino gli dèi che, per alcuni, dovrebbero restare fermi e fissi come quelli della Cina.
Esiodo cerca il nascosto cioè le etimologie. Non sappiamo esattamente cosa abbia scritto, sebbene alcuni studiosi gli attribuiscono una produzione immensa: come una specie di super-Omero. Le sue pretese sono immense. Vuole far dimenticare i dolori: esaltare l’oblio. Vuole conquistare la grandezza: a volte più dell’autore dell’Iliade; ma grandezza è anche danza, luce, caos, splendore. E se ambisce possedere la verità, questa verità è ricca, ambigua e gioca continuamente con se stessa, perché è anche contemporaneamente, una non verità. Nulla è più complicato. Vuole la verità, ma anche il suo contrario, alla caccia inesorabile di quel segreto che desidera scoprire. In qualcosa è simile a Ulisse: è il signore della metamorfosi. Canta il futuro e il passato, assai più del presente.
Conquistare la verità significa glorificare – parola essenziale della poesia antica. Ama il tempo: lo spessore, il rilievo, la fissità del tempo; e con la stessa forza con cui cerca il vero, apprende cose molto più terribili: il Caos e lo Stige. Ma disegna anche deliziose figure femminili: o, se è necessario, si abbandona a una violenza scatenata. In fondo ai suoi desideri c’è Eros: anche ordine, struttura, sebbene a volte sia così frivolo da giocare con gli eventi del mondo.
Non è sterile. La Memoria, accoppiata con Zeus, genera le Muse, tra cui specialmente Calliope. Le qualità delle Muse sono infinite.
Figlie di Zeus, generano l’oblio: si identificano con l’acqua: dando gioia e allegria e letizia a tutto l’Olimpo.
Le Muse sono acqua. Se accettiamo una mitologia discussa, esse sono le "ninfe dei monti"; e attorno alla loro voce tutto scivola, si gonfia, scorre, danza con piedi delicati attorno ad una fontana o alle rive dei ruscelli o del mare. Le Muse non sono legate all’acqua sterile delle piogge, ma a quella, primordiale, molteplice, feconda, oracolare dell’Oceano che rinasce in tutte le sorgenti, tutti i fiumi, tutti i pozzi.
Così comprendiamo perché la poesia, specialmente in Esiodo e Pindaro sia una sostanza liquida. Le Muse versano sulla lingua del re-poeta una "dolce rugiada": dalla loro bocca sgorgano "dolci parole". I poeti sono come le api.
Le Muse sono figlie di Mnemosine.
Esse non hanno la nostra memoria, piena di lacune, di intermittenze, di fratture, di strazi. Posseggono un immenso tesoro di conoscenza: conoscono la vita e la morte degli eroi, tutte le pietre della cittadella di Troia, tutti gli eroi che sono andati a combattere a Troia, tutti i granelli di sabbia dell’Ellesponto, tutti i pensieri che attraversano lo spirito di Achille e di Ulisse e anche i pensieri degli dèi. Sanno ogni cosa con la precisione meticolosa che solo posseggono i veggenti. Erano presenti quando i fatti si sono prodotti: erano là visibili o dissimulati, quando Telemaco fece vela verso Pilo o Ulisse massacrò i pretendenti, o Zeus si unì con Era, come un grande occhio largamente aperto sul mondo. Quando Omero o Esiodo cantano, dopo aver invocato le Muse, tutto è qui davanti a noi.
Le Muse hanno la memoria del futuro. Il vero è semplicemente ciò che non è nascosto, ciò che non è velato dall’oblio e dal sonno. Così le Muse, secondo Esiodo, dicono «ciò che è, ciò che sarà, ciò che è stato». Il canto che le Muse ispirano ai poeti porta la gloria: la gloria che non si perde mai. Gli eroi e i poeti attendono avidamente questa gloria: non vivono che per essa.
Non è facile obbedire alle Muse, appunto perché il sapere delle Muse è infinito, e occupa il presente, il passato e l’avvenire. Quando Omero inizia la lista dei capi greci e troiani, le Muse potrebbero ricordargli tutti i nomi della moltitudine che avanza e in ordine di battaglia, numerosi come i grani di sabbia dell’Ellesponto. Sarebbe un compito immenso, cui Omero, con le sue sole forze, non potrebbe venire a capo, anche se avesse dieci lingue, dieci bocche, una voce infaticabile e un cuore forte come il bronzo.

La Stampa 19.12.18
Falso Natale
Befana e Babbo, bue e asinello Quante fake news sulla festa
di Federico Taddia


Non voglio guastare le feste a nessuno. Anzi, il contrario: voglio dimostrare che lo spirito del Natale ha in sé qualcosa di eterno, di intramontabile. Di tradizioni ce n’è un bisogno assoluto: ne abbiamo così fame che spesso le inventiamo, le facciamo nostre, dimenticando le loro origini reali». Sorride, quasi si giustifica, Errico Buonanno, scrittore e saggista, autore di “Falso Natale”, una puntuale inchiesta sulle tante fake news che troviamo sotto l’albero. Certezze assodate dalla consuetudine e che invece si portano con sé continue e variabili contaminazioni tra storia, religione e cultura popolare. Come per esempio la data per eccellenza, il compleanno di Gesù, il 25 dicembre: giornata presa in prestito da precedenti riti pagani e appositamente riadattata per l’occasione. O la coppia bue e asinello nella stalla: immagine sedimentata in ognuno di noi, ma non supportata da alcuna scrittura. La colpa, o il merito, è di un semplice refuso, un errore di traduzione dal greco di un copista. E la stella cometa? Un’invenzione pure quella, partorita dell’estro creativo di Giotto: il primo a disegnare sulla mangiatoia un astro abbellito dalla coda. «Le tradizioni nascono così: a volte per distrazione, a volte per creatività, altre volte ancora per volontà politica. Sovente sono un’evoluzione di una tradizione precedente: ci si appoggia a qualcosa che già c’è, ma gli si dà un nuovo significato. Come San Nicola, che nulla aveva a che fare con il Natale, ma quando il suo culto si è esteso al Nord la sua figura si è fusa con quella del mito di Odino - che nella tradizione nordica portava i regali - e con quella di Father Christmas, figura che rappresentava lo spirito natalizio. Da questo ibrido nasce una sorta di Santa Claus cattolico, contestato dai protestanti che sostenevano che i regali li dovesse portare Gesù bambino. Insomma, rivendicare la propria identità basandosi sulle tradizioni può essere rischioso”. E lo stesso Natale, così come lo conosciamo, con i regali, le luci e i buoni sentimenti è un qualcosa sorto come risposta a chi il Natale non lo voleva più celebrare. «Pochi sanno che furono proprio i religiosi ad abolire il Natale - spiega Buonanno - Nel 1644, infatti, i Puritani inglesi proibirono espressamente il Natale, cosa che si estese subito in America, perché era una festa non prevista dalle scritture. Le festività furono nuovamente ufficializzate nel 1856, di fatto modellate da Charles Dickens con Il canto di Natale. I doni, la famiglia, i sentimenti, il calore: quelli che oggi sono considerati valori tradizionali sono stati tutti forgiati dalla sua fantasia». Tra i grandi miti sfatati anche quello dei Magi: nessuno ha mai dimostrato che fossero tre e, soprattutto, che fossero dei Re. Oppure quello dell’albero addobbato, simbolo indiscusso del periodo: l’usanza è di origine tedesca e fu importata in Italia dalla Regina Margerita di Savoia, meno di due secoli fa. A differenza dello prassi dello scambio degli auguri, che altro non è che una rivisitazione moderna degli auspici degli antichi Àuguri, sacerdoti dell’antica Roma capaci di interpretare il volere degli dei. Così come la dea Diana, con il suo passaggio di casa in casa offrendo prosperità in cambio di qualche piccola offerta, assomiglia tanto alla befana, anche questo un personaggio perfetto per essere inglobato dalla religione e abbinato alla festività dell’Epifania. «Il paganesimo è ancora dentro di noi, è intriso nei nostri simboli e gesti – conclude Buonanno – Non è però falso che il Natale sia per tutti, credenti e non credenti, una festa di speranza e di rinascita. E questo non può essere rimosso da alcuna fake news».

Il presepe di sabbia esposto in piazza San Pietro: il bue e l’asinello accanto alla mangiatoia sono frutto di una traduzione sbagliata dal greco, che confondeva «epoche» con «bestie».
2. Il Babbo Natale come noi lo conosciamo nasce da un’iconografia americana Anni Trenta della pubblicità della Coca Cola.
3. Un’immagine del film 2009 di Robert Zemekis (Disney) tratto dal famoso racconto «A Christmas Carol» di Dickens.
4. Un antico biglietto di auguri: la tradizione di scambiarseli risale all’era vittoriana.
5. L’albero di Natale come noi lo conosciamo venne inventato nella seconda metà dell’800 dalla Regina Vittoria, qui in un'immagine insieme al marito il Principe Alberto.
6. La «Diana di Versailles», un’immagine della dea cacciatrice di epoca romana: la tradizione della Befana viene fatta risalire a lei.

Viene dal culto pagano del Sole Invitto

Nessun Vangelo indica il compleanno di Gesù. Solo a partire dal IV secolo dopo Cristo, e unicamente nella città di Roma, si iniziò a festeggiare il 25 dicembre, poiché in quella data già si celebrava il Natale del Sole Invitto. Un culto pagano di un dio Sole, che per i cristiani ben si sposava con la nascita del Salvatore. E pure l’anno 1 non è quello che crediamo: fu un monaco scita di nome Dionigi il Piccolo che, nel 525, decise che bisognava iniziare a contare gli anni dalla nascita di Gesù. Ma sbagliò i suoi calcoli e attualmente siamo almeno nel 2022.


La inventò Giotto osservando Halley

Nel Vangelo di Matteo si parla di una stella, luminosa come veniva rappresentata in ogni natività nei primi secoli e in tutto il Medioevo, ma non c’è nessun riferimento al fatto che fosse una cometa. E visto che, almeno fino al XVII questi corpi celesti erano visti come segnali di prodigi certi, pare strano che possa aver omesso il dettaglio. Il primo ad aver inserito la stella cometa è stato Giotto, affrescando la Cappella degli Scrovegni a Padova tra il 1303 e il 1305. Probabilmente ispirato dal passaggio nel 1301 di un bolide, ribattezzato poi secoli dopo con il nome di Cometa di Halley.

Attenzione Santa Claus è un misogino
di Massimo Vincenzi


È talmente arrabbiata che non a caso alla fine dei divertimenti tutte le Feste porta via, come recita la storica filastrocca. Ora arriva nelle sale il film con Paola Cortellesi protagonista nei panni della Befana - «La Befana vien di notte», appunto - . Una Befana furiosa contro il suo peggior nemico: Babbo Natale. Tanto da lanciargli, nell’era del politicamente corretto, l’offesa più infamante: è un misogino.
Senza spoilerare il film, le accuse sono pesanti: lui viaggia su una lussuosa e comoda slitta, maestose renne lo fanno sfrecciare nei cieli senza alcuna fatica e la sua immagine pubblica è infinitamente più forte di quella della Befana. Negli spot lei è assente, mentre non c’è panettone o giocattolo che non veda protagonista il Rosso Barbuto, non a caso sempre sorridente.
Per non parlare del cinema, dove il confronto non esiste nemmeno: meglio che l’anziana signora non scenda neanche in campo. L’unica sfida è su canzoni e musiche varie dove c’è quasi il pareggio.
Per forza la Befana oppone alla sorte un ghigno da vecchia arrabbiata dal brutto carattere e, nell’era dell’apparire, dal pessimo look. Straccio sulla testa che serve a distinguerla dalle fattucchiere, stesso motivo per cui cavalca la scopa al contrario di come fanno loro. Meglio non correre rischi, in tempi di caccia alle streghe.
La tradizione parte dal Sud Italia e, cambiando il nome, vola nei cieli di tutta Europa sempre con lo stesso rito: caramelle ai bambini buoni e carbone a quelli che sono stati capricciosi durante l’anno.
Il feticcio è la calza, secondo il sociologo Marino Niola il vero timbro di fabbrica che evita alla Befana l’oblio e la strappa da quel ghigno incartapecorito un sorriso sghembo. Altrimenti non le resta che appellarsi ai social, dove due gruppi non proprio la sostengono ma la incoraggiano: «Santa Claus deve essere donna» con due membri (meglio che niente) e «Santa Claus sia donna» più consistente (undici adesioni). Poca cosa ma da qui potrebbe partire il riscatto.

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