Repubblica 15.12.18
Francia
Annie Ernaux “I gilet gialli? Il nuovo ’68”
La
scrittrice, della quale esce in Italia “ La vergogna”, parla delle
proteste che agitano il suo Paese e si schiera nettamente. E degli
intellettuali diffidenti dice: “È la fotografia dell’abisso che li
separa da un certo tipo di popolazione”
intervista di Anais Ginori
PARIGI
È poco elegante dire «l’avevo detto», e difatti Annie Ernaux, parlando
al telefono con la sua voce da ragazzina indomita, non pronuncia mai
questa frase.
Concede solo: «Mi aspettavo che succedesse qualcosa»
a proposito dei gilet gialli che sfuggono a qualsiasi categoria, a metà
tra movimento sociale, rivolta, insurrezione. Se c’è una scrittrice
francese che ha descritto il mondo degli invisibili, quella “piccola
gente” che fino a qualche tempo fa non aveva rappresentanza, nemmeno in
letteratura, è proprio Ernaux. Negli anni Ottanta, quando pubblicò Il
Posto, nel quale raccontava la vita grama dei suoi genitori nel
bar-alimentari di Yvetot dove non c’era neppure un frigorifero, il
milieu intellettuale parigino l’aveva snobbata. «Mi accusavano di essere
populista», ricorda Ernaux, 78 anni, insegnante di liceo che ha
incominciato a scrivere per «vendicare la sua razza». Ernaux è sempre
rimasta un po’ in disparte, scegliendo di restare nella casa di famiglia
a Cergy, a un’ora dalla capitale. Non ha mai dimenticato da dove viene.
Ne La vergogna appena tradotto da Lorenzo Flabbi per l’Orma descrive un
pomeriggio dei suoi dodici anni nel quale si è trasformata in una
nemica di classe per i suoi genitori.
Lei appoggia con convinzione i gilet gialli. Perché?
«A
primavera avevo già sostenuto gli scioperi dei ferrovieri contro la
riforma del governo, ma l’arroganza del potere era andata avanti come se
niente fosse. Questa volta è diverso. Siamo davanti a una protesta che è
davvero popolare perché riguarda persone accomunate da una condizione
esistenziale: sentirsi disprezzate, escluse. Ricordo ancora i miei
genitori quando mi raccontavano con gli occhi lucidi gli anni del Front
Populaire, le conquiste sociali del 1936, e commentavano: “Prima
l’operaio non contava nulla”. È così che ancora oggi si sentono molti
francesi. Macron stesso, tradito dal suo innato disprezzo di classe,
l’ha detto: “Ci sono le persone che hanno successo e coloro che invece
non sono nulla”».
Come spiegare che così pochi intellettuali si siano avvicinati alla protesta?
«Sin
dall’inizio c’è stata una diffidenza tra scrittori e artisti. È la
fotografia dell’abisso che li separa da un certo tipo di popolazione. La
collera che sfila nelle strade viene da un luogo sociale e culturale
ignoto per molti intellettuali: non è Parigi, ma la provincia, i
sobborghi delle medie città, un mondo sommerso che di solito interessa
poco. Per fortuna ci sono sempre più eccezioni nel mondo letterario.
Il
libro che ha vinto il Goncourt quest’anno, Leurs enfants après eux di
Nicolas Mathieu è l’immersione in una valle perduta delle regioni
siderurgiche a est della Francia. È un libro che rappresenta esattamente
il sentimento di molti: l’assenza di speranza per i propri figli. I
miei genitori mi hanno cresciuto nell’idea che avrei potuto superarli,
vivere meglio di loro. Non li ho delusi anche se questo ha provocato una
cesura tra noi».
La diffidenza verso il movimento non è dovuta al fatto che c’è una componente di estrema destra?
«Ho
visto le immagini di gilet gialli che hanno fatto scendere dei migranti
da un camion. Ho sentito slogan razzisti, omofobi. Ho letto le teorie
assurde sul complotto del governo nell’attentato di Strasburgo, le tante
fake news diffuse in Rete. Ci sono derive inquietanti. Non sono
d’accordo con tutte le espressioni di questo movimento, ma come possiamo
lamentarci della non partecipazione alla vita politica,
dell’astensione, e poi ignorare le ragioni profonde della collera quando
finalmente occupano lo spazio pubblico? Mi dispiace: sarò sempre dalla
parte di coloro che non contano nulla, dei dominati che per natura sono
impotenti. È vero che non sono più una di loro, ma sono marchiata a
pelle da quella vergogna».
Anche se sono autori di violenze, saccheggi, attacchi contro i poliziotti?
«Su
questo sono sempre stata chiara, finora siamo nella violenza su beni
materiali, o simbolica come contro l’Arco di Trionfo. Non dico che
approvo, ma lo capisco.
Parliamo anche delle violenze della
polizia, del liceo dove centinaia di ragazzi sono stati umiliati dagli
agenti, fatti mettere a ginocchio, degli oltre mille arresti preventivi
del weekend scorso. La colpa è anche di Macron che ha fatto montare la
collera, non ascoltando i primi segnali, restando in silenzio per non
cedere alla pressione e perché lui si sente maître des horloges (padrone
degli orologi, ndr), un’espressione terrificante che dimostra quanto
sia sconnesso dalla realtà. Qualche giorno fa un portavoce del governo,
dopo gli attentati, ha chiesto ai manifestanti di essere “ragionevoli”,
come se fossero dei bambini da educare.
Non vedo il nesso tra la minaccia terrorista e il diritto di manifestare.
Sono cose ben distinte».
Macron ha finalmente parlato, fatto concessioni sui salari, le pensioni. Perché non basta?
«Macron
offre qualcosa, ma non sono gli accordi di Grenelle che avevano portato
a vere conquiste dopo il Sessantotto. Per ora rifiuta di reintrodurre
la patrimoniale per i più ricchi. Il problema non sono solo i contenuti
ma i modi. Il presidente è un perfetto emblema del mondo dei dominanti.
Il suo discorso era efficace sul piano comunicativo ma era rivolto a
compattare i suoi elettori. Quando diceva “voi francesi” io stessa non
avevo la sensazione che si rivolgesse a me. Macron ha fatto un esercizio
ben preparato nella forma ma vuoto. Ha cercato di dimostrare che è
saldamente al comando del Paese. È vero il contrario. Ha fatto
riemergere la figura del Re nella sua Versailles lontano dal popolo.
Profetizzava
un “mondo nuovo” senza ricordare che la Francia si è costruita
attraverso il desiderio di uguaglianza, le rivoluzioni. Mia madre mi
diceva: “Non siamo più ai tempi dei Re”, evocando il peggior regime
possibile. Non c’è un mondo nuovo, c’è solo una Storia che va avanti, si
costruisce faticosamente anche con la memoria del passato”.
Quale potrebbe essere il seguito del movimento?
«La
cosa più bella non è solo aver finalmente puntato i riflettori su
persone di cui prima nessuno parlava. In questo senso l’idea delle
casacche fosforescenti è stata geniale. Ho letto da qualche parte che è
stata una donna ad averla, non mi stupisce. Indossare il gilet giallo è
anche un modo di trovarsi insieme, riscoprire la fraternità, come si
vede nei blocchi stradali alle rotatorie dove vengono organizzati
barbecue e qualcuno porta la fisarmonica. I paragoni storici sono
sbagliati ma sono scene che mi ricordano il Sessantotto. Sta succedendo
qualcosa di nuovo e nessuno, a meno di essere un oracolo, può sapere
come andrà a finire. Comunque vada, anche se le manifestazioni in piazza
non continueranno, penso che ci sia l’inizio di una presa di coscienza
di molte persone che prima non avevano diritto di parola».