Il Fatto 15.12.18
Il giustiziere Chérif e gli altri “esclusi”
di Maddalena Oliva
“Per
vendicare i fratelli morti in Siria”. Questo avrebbe detto Chérif
Chekat subito dopo aver sparato ai mercatini di Natale al tassista che
lo ha accompagnato a Neudorf, “graziato” solo perché “musulmano
praticante”. Non è strano che si sia fatto portare nel quartiere di
sempre. Tagliare i ponti con amici e parenti era, nelle forme
novecentesche di terrorismo, una regola ferrea: il cerchio delle
ricerche si stringe sempre, prima di tutto, attorno ai legami affettivi
del sospettato. Ma il nuovo radicalismo ha mutato anche questa certezza,
perché attecchisce spesso in un ambiente dove lo “stigma etnico” tende a
compattare – famiglia, amici, quartiere – verso l’esterno.
“Quello
che sta facendo è giusto, è positivo. Sta andando a difendere un Paese,
la Siria. Sta portando avanti un’idea, andare ad aiutare un popolo in
difficoltà per colpa vostra”. Morire per difendere i “fratelli siriani”,
per combattere “l’ingiustizia”, “per aiutare un indifeso, lontano”: non
c’è bisogno di andare in Francia, a Strasburgo o nei sobborghi di
Parigi, o in Belgio. Così Dr. Domino difese il suo amico rapper Anas el
Abboubi, il primo jihadista “autoctono” di casa nostra che, prima di
partire per Daesh in Siria, fu fermato e arrestato dall’Antiterrorismo e
dalla Digos nel 2013 a Brescia, in procinto di compiere un attentato.
Su Anas pende ancora un mandato di cattura internazionale, ma se ne sono
perse le tracce, probabilmente morto, in quel buco nero che ancora oggi
è la Siria.
Il profilo collettivo dei cosiddetti “terroristi
homegrown” – a guardare i tanti studi ormai disponibili in materia –
segue gli stessi passaggi individuali: figli nati in Occidente da
genitori musulmani che lavorano nei nostri Paesi, scuole e vita di
quartiere, e poi la piccola delinquenza, il carcere, la radicalizzazione
(attraverso il carcere stesso, diventato luogo classico di
reclutamento, o nel piccolo gruppo degli amici di infanzia), talvolta il
viaggio nei teatri del jihad.
La “vita di strada” espone non solo
al contatto quotidiano con la criminalità e i traffici illegali, ma
anche ai continui controlli della polizia (questo vale specialmente per i
ragazzi di banlieue, dopo la svolta nella politica criminale francese
negli anni Novanta). Le condanne non sono mai pesanti, ma, come accade
per molti, segnano il passaggio dalla piccola criminalità alla nuova
identità politica e religiosa. L’ideologia radicale, offrendo
un’identità “resistenziale”, permette una ristrutturazione della
personalità fondata sul riscatto personale nella “causa”.
È il
jihad che è divenuto realtà dentro e fuori il carcere. Davanti alla
Legge, il solo volto dello Stato conosciuto da questi ragazzi, la loro
identità assume i tratti della vittima dell’ingiustizia. Una
vittimizzazione fondata sulla convinzione che l’essere “arabi” o
“africani”, e comunque musulmani, ne faccia cittadini con diritti
affievoliti. Considerazione che inasprisce il loro risentimento non solo
nei confronti della République, ma nei confronti dell’Occidente tutto.
È
il “nuovo proletariato di figli di immigrati manipolati contro le
classi medie” di cui tanto ha parlato Gilles Kepel (tra tutti, La
fracture, Gallimard). Che sia un’islamizzazione del radicalismo o una
radicalizzazione dell’islam – dibattito che impegna in Francia diversi
intellettuali da anni – è la “frattura” a essere centrale: quella
divisione sempre più profonda nella società francese ma non solo. La
frattura identitaria che prima passava fra “destra” e “sinistra”, fra
padroni e lavoratori, fra più ricchi e più poveri, e che oggi passa fra
“inclusi” ed “esclusi”. Fra chi è dentro un sistema di protezione, un
lavoro, la possibilità di far studiare i propri figli; e chi invece è
fuori, senza lavoro, scuole, cultura, senza possibilità, senza futuro.
L’idea
di sradicare il terrorista oggi non può essere una vittoria se non gli
si impedisce di crescere domani. Perché non si nasce jihadisti.
Jihadisti si diventa. A forza di libri, di siti web, di canali tv, di
moschee anche, di disperazioni e frustrazioni, soprattutto.
E
quando il risentimento diviene incontenibile è facile che i giovani
Chérif – come in passato i fratelli Kouachi e Amedy Coulibaly, per
restare in Francia, o Anas el Abboubi o Mohamed Jarmoune se guardiamo a
casa nostra – si radicalizzino e decidano di abbracciare un’ideologia
che offre loro la possibilità di rappresentarsi come implacabili
“giustizieri”. Uccidono non solo le loro vittime, però. Uccidono anche,
due volte, il loro Paese d’origine.