La Stampa 15.12.18
Il Kosovo crea l’esercito
L’ira della Serbia
“Illegale, l’Onu lo fermi”
Pristina trasforma i suoi poliziotti in militari regolari Critiche da Ue e Nato. Belgrado manda truppe al confine
di Stefano Giantin
Il
dialogo difficilmente costruito che salta, scaramucce, dazi, proteste,
tensione alle stelle. È sempre più grave la crisi tra Serbia e Kosovo,
«nemici» che Bruxelles era riuscita a portare al tavolo negoziale per
raggiungere un accordo per la normalizzazione dei rapporti, ma che da
più di un mese hanno dissotterrato l’ascia di guerra, in una spirale di
crisi inarrestabile.
Crisi che ieri ha toccato l’apice, con il
Kosovo – ex provincia serba resasi indipendente nel 2008, riconosciuta
da un centinaio di Stati, ma non da Belgrado e da cinque Paesi Ue – che
ha fatto un passo storico. E assai azzardato. Ha dato infatti luce verde
alla trasformazione in esercito regolare delle sue Forze di sicurezza,
finora una sorta di corpo di protezione civile con armi leggere. Mossa,
da lungo pianificata, accolta da festeggiamenti e caroselli, in una
Pristina tappezzata da bandiere Usa e di altri Paesi amici, tra cui
l’Italia, vissuta con sconcerto nelle aree fedeli a Belgrado, pavesate
con vessilli serbi. Decisione che è stata criticata da Ue, Onu, Nato e
Russia – ma non dagli storici alleati del Kosovo, gli Stati Uniti – per
tempistica e per modalità, con Mosca che si è spinta a chiedere alla
Nato di «smobilitare le formazioni albanesi».
Ma ad aver i nervi
tesi è soprattutto la Serbia, che considera l’esercito di Pristina come
una minaccia alla sicurezza dei serbi che vivono nel Nord del Kosovo. E
come una violazione della risoluzione Onu 1244, che prevede che, dopo la
guerra del 1999, possano operare nella regione esclusivamente truppe
Nato. Belgrado ha chiesto così la convocazione urgente del consiglio di
Sicurezza Onu, mentre il consigliere del presidente Vucic, Nikola
Selakovic, ha suggerito che la Serbia potrebbe dichiarare il Kosovo
«territorio occupato». O addirittura pensare all’intervento militare,
opzione che appare però irrealistica, anche se il clima è di gran
nervosismo, con truppe Nato dispiegate a Nord, ufficialmente per
esercitazioni, in realtà per prevenire incidenti. Più conciliante la
premier Ana Brnabic, che ha ieri assicurato che Belgrado «continuerà
sulla strada di pace e stabilità».
Stabilità che è però a rischio
già da novembre, dopo che Pristina ha introdotto dazi al 100% sulle
merci della Bosnia, colpevole di non riconoscere Pristina. E
naturalmente su quelle serbe, rappresaglia contro l’ostruzionismo di
Belgrado all’ingresso del Kosovo in Interpol, balzelli che rimarranno in
vigore fino a quando Belgrado «non riconoscerà» Pristina, ha più volte
ribadito il premier kosovaro, Ramush Haradinaj.
Muro contro muro
pericoloso e «da anni non ero così preoccupato», ammette il politologo
James Ker-Lindsay, ricordando che la spirale del rancore nasce dalla
«frustrazione di Pristina» per le iniziative di Belgrado per ridurre il
numero di Paesi che riconoscono il Kosovo. Ma si indirizza pure verso
Bruxelles, che malgrado le attese a Pristina, soprattutto della gente
comune, ancora ritarda la «liberalizzazione dei visti» per i kosovari,
ultimi in Europa a non poter viaggiare se privi di permessi. E questo è
il momento «di riportare le parti al tavolo negoziale», aggiunge
l’analista. Qualche chance, forse, c’è. «Quanto hanno fatto gli albanesi
è contro il diritto internazionale e contro la propria Costituzione»,
ha attaccato in serata il leader serbo Vucic, assicurando che la Serbia
proteggerà i serbi del Kosovo dall’esercito di Pristina, se necessario.
Ma
ha poi aggiunto che «monitoreremo con attenzione tutto quanto accade in
Kosovo, aspetteremo» che Pristina «tolga del tutto i dazi e allora la
Serbia sarà pronta a discutere», di nuovo. Ma la mano tesa va colta,
prima che sia troppo tardi.