sabato 15 dicembre 2018

Corriere 15.12.18
L’esercito del Kosovo, una scelta discussa che riapre i giochi
di Francesco Battistini


I soliti dispetti. Negli ultimi dieci anni, dall’indipendenza del Kosovo, è sempre andata avanti così: un giorno si tagliava al nemico la luce, un altro si smontavano i ripetitori dei cellulari, oppure non si pagavano le bollette, si taroccava l’ora legale, si vietavano le partite, si mettevano dazi del 100% sulle merci… Secondo le regole del cattivo vicinato. Ma il voto di ieri nel Parlamento di Pristina, col sì a un esercito nazionale, è qualcosa di più d’uno sgarbo: i 107 deputati albanesi hanno trasformato le vecchie forze di sicurezza Ksf (nate sulle ceneri dell’Uck e della guerra del ‘99) in un’armata regolare. Che passerà da tre a diecimila uomini. Che sarà ovviamente «aperta a tutti», secondo il mai rispettato mantra della multietnicità. Che affiancherà i militari Nato, italiani compresi, nel controllo d’uno Stato che mezzo mondo ancora non riconosce. Il ragionamento dei kosovari — se siamo indipendenti, perché non possiamo avere un esercito? — contiene già i pericoli di questa scelta: sono arrivati l’ok di Trump, essendo gli americani i grandi sponsor del più piccolo Paese balcanico, e in contemporanea il niet di Putin, affratellato ai serbi dalle radici slave. Nel solito silenzio smarrito dell’Europa, che nemmeno sul Kosovo ha una politica comune, è l’Alleanza atlantica ad avvertire che le sue truppe sul terreno dovranno rivedere le regole d’ingaggio. E soprattutto è Belgrado a ritrovare fiato: ci sono ancora 120mila serbi nel Kosovo del Nord, affamati per le sanzioni di Pristina all’import dalla Serbia, e quindi «non staremo a guardare, non escludiamo azioni militari». Fatta la tara della retorica, i giochi si riaprono e spingeranno la comunità mondiale, magari, a chiudere una transizione ventennale piena di rischi quanto di costi. Di solito, chi vuole la pace prepara la guerra. Ma siamo nei Balcani, e gli eserciti servono a una cosa sola.