Repubblica 14.12.18
Perché la parola istituzione non fa più rima con Stato
di Roberto Esposito
A un secolo dalla prima uscita, torna “L’ordinamento giuridico” di Santi Romano
A cento
anni esatti di distanza dalla sua prima stesura, l’editore Quodlibet
ripubblica L’ordinamento giuridico di Santi Romano (1875-1947), a cura
di Mariano Croce. Considerato uno dei più grandi testi giuridici
novecenteschi, il libro di Romano fu riedito nel 1946 da Sansoni in
un’edizione ormai introvabile e tradotto in tedesco, francese, spagnolo,
inglese e brasiliano. Ma a segnalarne l’assoluto rilievo è stato Carl
Schmitt che, in un saggio del 1934 su I tre tipi di pensiero giuridico –
normativista, decisionista e istituzionalista – lo colloca alle origini
di quest’ultimo. Anziché la norma o la decisione, l’istituzionalismo
pone al centro dell’orizzonte giuridico quello che Schmitt definisce
«ordinamento concreto» o, appunto, «istituzione». Ma qual è la novità
dirompente che questo approccio al diritto comporta?
Per capirlo
dobbiamo sottrarci all’abitudine mentale inveterata che ci porta a
ricondurre ogni istituzione nell’orbita dello Stato: lo Stato come
unica, o almeno la prima delle istituzioni, contenente tutte le altre.
È
proprio questo presupposto che Santi Romano contesta. Fin dal saggio
del 1909, intitolato Lo Stato moderno e la sua crisi, egli riconosce con
straordinaria preveggenza le crepe che si vanno aprendo nella macchina
statale, intesa come sede unica del potere politico e della produzione
di diritto.
Nonostante il consolidamento della democrazia,
testimoniato dall’allargamento del suffragio elettorale, già agli inizi
del Novecento lo Stato liberale comincia a perdere il monopolio delle
decisioni politiche e delle norme giuridiche. Sia al suo interno che
all’esterno crescono altri organismi – partiti, sindacati,
organizzazioni finanziarie, associazioni civili – che esercitano un peso
sempre maggiore, destinato in breve tempo a spezzare la bipolarità
esclusiva tra Stato e cittadini. Tra l’uno e gli altri s’insediano ormai
una serie di istituzioni che esprimono dinamiche e conflitti sociali a
fianco e talora anche oltre l’organismo statale. Diritto e Stato non
fanno più rima, come sostiene Widar Cesarini Sforza in un altro libro
importante del 1929, Il diritto dei privati, anch’esso adesso
ripubblicato da Quodlibet a cura di Michele Spanò. Se il diritto plasma
la vita, questa a sua volta produce e trasforma il diritto.
La
tesi, assolutamente originale, di Santi Romano è che ogni istituzione ha
lo stesso grado di legittimità di quella statale. Da un punto di vista
formale – cioè giuridico – lo Stato è un ordinamento portatore di
diritto non più di qualsiasi altra organizzazione collettiva, di una
congregazione religiosa, una società sportiva o perfino una banda
criminale. Naturalmente quest’ultima si colloca fuori dall’ordine legale
ed etico, ma senza perdere il proprio carattere di giuridicità interna.
Oltre
al fatto – aggiunge Romano – che un’associazione che si proponesse di
rivoluzionare uno Stato non conforme ai principi di giustizia «dovrebbe
essere giudicata in modo più favorevole che lo Stato stesso». Si può
immaginare il peso di dichiarazioni del genere pronunciate non solo da
uno dei fondatori del diritto costituzionale italiano, ma anche da colui
che, in pieno regime fascista, ha occupato il ruolo di presidente del
Consiglio di Stato dal 1929 al 1943. Nominato Senatore del Regno e
Accademico dei Lincei, Santi Romano non aderì nel 1944 alla Repubblica
Sociale Italiana. Ma ciò non gli evitò, a guerra finita, di essere
accusato di aver appoggiato il fascismo e di essere radiato
dall’Accademia dei Lincei. Come osserva il curatore nella postfazione,
evidentemente Romano sopravvalutò l’autonomia della tecnica giuridica,
immaginando di potere gestire il rapporto con un regime che aveva
sottomesso completamente il diritto alla politica – alla propria
politica. Ma ciò non toglie niente della formidabile attualità del suo
saggio. Egli colse, con quasi cento anni di anticipo, non soltanto
l’indebolimento dello Stato nei confronti di istituzioni e ordinamenti
che sempre più ne sfidano le prerogative esclusive.
Ma anche il
ruolo creativo di nuovi ordini normativi che i linguaggi del diritto
possono esercitare in una situazione di transizione dall’antico
monopolio degli Stati sovrani a una nuova trama di relazioni sociali
nazionali e internazionali.