venerdì 14 dicembre 2018

Repubblica 14.12.18
La vera storia del “nonno” di Frankenstein
di Michele Mari


William Godwin era il padre di Mary Shelley. Ma anche l’autore di “Caleb Williams”, un romanzo quasi dimenticato, ora ristampato, che anticipa le atmosfere del capolavoro della figlia uscito duecento anni fa
“Nonno di Frankenstein”, nel senso che la futura Mary Shelley era sua figlia, William Godwin (1756-1836) costituisce un curioso caso di perbenismo radicale. Rappresentante dell’alta società inglese e cultore delle sue “buone maniere”, avverso a ogni forma di violenza, Godwin sognava un mondo senza governi e senza prigioni, un mondo pacificamente anarchico in cui l’uomo, debitamente educato, sapesse autoregolarsi secondo le sue quasi illimitate potenzialità.
A questa utopia dedicò tutta la vita, con saggi, articoli, conferenze e diversi romanzi, il primo dei quali è senz’altro il più bello. Apparso nel 1794, subito dopo un ponderoso saggio che denunciava gli abusi del sistema giudiziario britannico, Caleb Williams (ripubblicato ora da Theoria, traduzione di Romina Bicicchi) vogliono mettere il lettore di fronte all’orrore e all’angoscia che nascono da questi abusi, e lo fanno con uno stile in parte ancora settecentesco, fatto di digressioni e di commenti, in parte già romantico, con una spiccata propensione per l’incubo e il raccapriccio.
Caleb Williams, per quasi mezzo romanzo, non esiste: è semplicemente la voce narrante, che si affida oltretutto a narratori di secondo grado. Qui i protagonisti, talmente opposti l’uno all’altro e però magneticamente e fatalmente attratti l’uno dall’altro come le due anime di un doppio, sono l’impeccabile Falkland e il vilain Tyrrel, due proprietari terrieri che sfruttano ogni occasione per farsi la guerra e provocarsi. Arrogante, violento, facinoroso, Tyrrel getta sul lastrico i propri fittavoli, corrompe, calunnia, rovina le reputazioni e le persone, fa morire di crepacuore e di consunzione la giovane cugina da lui promessa in sposa a uno dei propri sgherri, insomma è un mostro, la cui unica nota di umanità consiste nel patire morbosamente la propria inferiorità antropologica rispetto a un angelo di bontà e di stile come Falkland, l’unico che sappia tenergli testa e confonderlo con le proprie buone maniere, appunto.
Buono ma non stupido, Falkland, che in cuor suo sa di essere atteso dall’unica soluzione possibile: un duello all’ultimo sangue. Fin qui, nel suo contrasto manicheo, il romanzo ha più del romance che del novel, ma le cose cambiano improvvisamente: Falkland viene poco decorosamente malmenato in pubblico dal suo rivale, che poche ore dopo è trovato morto.
Sfumata la possibilità di una solenne vendetta, Falkland, oltretutto sospettato del vile assassinio, incomincia un lungo viaggio nella pazzia: il senso dell’onore, in lui quasi una forma d’arte, lo tormenta e lo stravolge, trasformandolo a poco a poco in un demone ossessionato. Così questo gentiluomo che sembrava uscito dal Libro del Cortegiano di Baldassar Castiglione e che, come Don Chisciotte, aveva letto troppi romanzi cavallereschi, diventa una specie di capitano Achab, solitario, misantropo, arso dal di dentro, più simile a uno spettro che a un uomo: «lui, che era vissuto di grandiose e sublimi fantasie, sembrava che ora non avesse altre visioni se non di angoscia e disperazione».
E Caleb? Al servizio di Falkland fin da ragazzo, Caleb commette la leggerezza di indagare nel passato del padrone, che dopo essersi ammantato nei propri misteri decide di accontentarlo nel modo più perfido: gli svela tutto (cosa che noi non faremo) a patto di legarlo a sé per la vita e per la morte. Schiacciato dal peso della rivelazione, Caleb cercherà di licenziarsi, poi di fuggire, ma sempre la lunga mano di Falkland (che nella seconda parte del libro assurge a gigantesco demiurgo del male, alla maniera del Vathek di Bedford o del Melmoth di Maturin) lo raggiunge e lo punisce, facendolo imprigionare sotto false accuse. Incomincia così il calvario del narratore, che evade ingegnosamente dalle prigioni solo per essere nuovamente incarcerato in condizioni peggiori. Il suo destino, è sempre più evidente, non è separabile da quello del suo persecutore («tutte le vicende della mia vita sono indissolubilmente legate alla sua storia: per colpa delle sue sventure, la mia felicità, la mia reputazione e la mia esistenza sono state irrimediabilmente distrutte»), anche perché entrambi sono dominati da un senso altissimo della “reputazione”, idolo fantastico che ha snaturato Falkland e che, nella speranza di poterne provare l’innocenza e il buon nome, aveva spinto l’adorante Caleb all’opera di investigazione. Così, quando nel finale Caleb ha la possibilità di ristabilire la propria reputazione ai danni di quella di Falkland, fa un passo avanti e due indietro, ritratta e si contraddice, e assumendo sul proprio capo tutte le nefandezze di Falkland entra volontariamente nel ruolo non solo del colpevole ma anche dell’infame. Vittima e carnefice hanno confuso i loro ruoli per sempre, in ossequio alla pulsione masochistica che scorre sotto tutto il romanzo.
Romanzo gotico, certo; antesignano del giallo moderno; variazione rousseauiana sui mali procurati all’individuo dalla società: tutto vero, a patto di saper cogliere, nel sorriso di Rousseau, il ghigno del marchese de Sade (l’ultimo decennio del ’700 del resto è il suo decennio). Da qui alla smorfia della creatura di Frankenstein il passo non è poi tanto lungo.