venerdì 14 dicembre 2018

La Stampa 14.12.18
In missione con gli archeologi italiani per salvare le antichità del Maghreb
di Nicola Pinna


Non è solo un lavoro di piccozza e cazzuola. Smuovono la terra e allo stesso tempo fanno un’opera ben più difficile, gli archeologi e gli storici italiani. Nel Nord Africa scombussolato da rivolte, governi instabili e integralisti, la missione scientifica ha un secondo obiettivo, che in realtà è perfettamente complementare al primo. «Salvare il patrimonio culturale, proteggerlo e valorizzarlo è un’operazione diplomatica, di cooperazione. Non solo di scavo e studio», ripetono come un mantra gli esperti.
Nella Tunisia che si è pentita della primavera araba, la bandiera italiana non si è mai ammainata: «Sono andati via i francesi e tutti gli altri, ma gli italiani non ci hanno abbandonato», dice Bechir, uno dei custodi del parco archeologico di Dougga, una città fondata nell’VIII secolo avanti Cristo e che dista da Tunisi quasi due ore di macchina: «Dietro a questo cancello c’è l’ultimo reperto che gli amici italiani ci hanno consegnato, un’importante iscrizione del periodo romano. Un altro tesoro portato alla luce da loro».
Nella Libia in fiamme
In Libia l’equipe dell’Università di Macerata ha fatto i bagagli in fretta e furia tre giorni prima del bombardamento del 2011, ma il lavoro non si è mai fermato.
«Anche a distanza continuiamo a occuparci dei siti che avevamo preso in carico - racconta Maria Antonietta Rizzo, docente di Etruscologia e antichità italiche - Insieme ai colleghi di Napoli, Roma, Urbino, Chieti, Catania e Palermo, e con l’aiuto prezioso dei libici, seguiamo quotidianamente i restauri e la conservazione. Attenti che nulla, in un momento così a rischio, venga compromesso. Intanto, proprio in queste settimane un gruppo sta tentando di tornare a Tripoli per concludere quel lavoro iniziato nel 1962».
Qualcuno la considera una missione di pace senza militari e di certo c’è che il grande lavoro degli studiosi italiani contribuisce a salvaguardare lo sterminato patrimonio che racconta delle vecchie province romane e parecchio della nostra storia.
L’asse italo-tunisino
Attilio Mastino, ex rettore a Sassari, è considerato uno dei massimi esperti delle vicende più antiche dell’Africa: «In Tunisia le nostre missioni scientifiche sono partite nel 1983. Ora, nonostante le note vicende politiche, continuiamo a lavorare: a Cartagine, ma anche nei siti di Uchi Maius, Neapolis, Althiburos, Uthina e Thignica. Da quando gli assetti politici sono cambiati, non facciamo solo ricerca sul campo ma puntiamo a far crescere la consapevolezza del valore del patrimonio tra le autorità locali».
«Noi siamo molto grati e anzi partecipiamo con entusiasmo, nonostante le poche risorse - risponde Faouzi Mahfoudh, direttore dell’Istituto nazionale del patrimonio di Tunisi - La cooperazione è una garanzia per la storia e un’opportunità per i nostri studiosi». La Farnesina sostiene economicamente la grande parte della ricerca scientifica all’estero e l’Istituto italiano di cultura è il raccordo tra le università in campo e le autorità locali. Diplomazia applicata alla cultura, che nella Tunisia post-rivoluzione è opera dalla direttrice dell’Istituto Maria Vittoria Longhi. E finanziata anche da fondazioni e altri istituti.
A iniziare dalla Scuola italiana di archeologia di Cartagine, che proprio a Tunisi ha riunito centinaia di archeologici, storici ed epigrafisti per fare il punto sulle ultime ricerche e scrivere le nuove pagine di un libro infinito.
«La scuola è diventata punto di raccordo e coordinamento di tutti gli studiosi impegnati nella ricostruzione della storia africana - sottolinea con orgoglio Sergio Ribicchini, che dal 1976 ha lavorato da queste parti per conto del Cnr - Di questa grande comunità scientifica fanno parte 170 esperti di tutta Italia, ma anche molti altri provenienti dall’estero».
Gli scavi intanto continuano a riservare sorprese. A Uchi Maius, una città monumentale riscoperta nei primi anni Ottanta a sud ovest della capitale, l’equipe del professor Marco Milanese ha deciso di fare un tipo di ricerca inedita. «Quasi sempre si sceglie di ritrovare ciò che resta dei fasti più antichi, quelli dell’epoca romano, trascurando i periodi successi. Di quelle epoche, infatti, tanto è andato perduto. Ecco, noi abbiamo preferito concentrarci sullo studio della vita di Uchi Maius ai tempi della colonizzazione araba e berbera. Da questo lavoro si vede con chiarezza come fosse cambiato lo scenario urbano: dalla città perfetta e sfarzosa alla successiva ruralizzazione».
A Neapolis, l’area archeologica vicina alla città di Nabeul, nella penisola del Capo Bon, i quartieri, il porto, il teatro e le industrie dell’antica città romana sono completamente sott’acqua. E i sub-archeologi hanno ricostruito con precisione l’assetto di un insediamento esteso circa 20 ettari. Dal 2009 hanno lavorato qui più di 100 ricercatori italiani, coordinati dai professori Raimondo Zucca e Piergiorgio Spanu, ma anche molti tunisini, guidati da Mounir Fantar, un figlio d’arte che il mondo accademico considera una specie di autorità.
«Il successo delle missioni italo-africane è semplice da spiegare - sostiene Fantar - Il primo aspetto è che abbiamo nel sangue una storia comune, il secondo è che anche in un lavoro scientifico si riesce a valorizzare l’aspetto umano. E per questo speriamo che i vostri archeologi continuino a lavorare con noi».