venerdì 14 dicembre 2018

il manifesto 14.12.18
Manuela D’Avila, lampi di sinistra brasiliana nel ciclone Bolsonaro
L'intervista. «Se abbiamo perso è per le nostre incapacità, non solo per la forza della destra. Ma l’autocritica ora va fatta con la prassi». Candidata alla vicepresidenza con Haddad, l’astro nascente del PCdoB analizza la sconfitta e racconta il regime che verrà. «Stiamo vivendo una crisi strutturale in cui il capitalismo ha sempre meno bisogno della democrazia e tutto si sposta sulla disputa per le risorse naturali»
intervista di Claudia Fanti


Per molti Manuela D’Avila sarebbe stata un’ottima vicepresidente del Brasile. Astro nascente della sinistra brasiliana insieme a Guilherme Boulos del Psol, l’appena 37enne deputata federale di Porto Alegre, lanciata dal suo partito, il PCdoB (Partito Comunista del Brasile) come pre-candidata alla presidenza, aveva rinunciato in agosto a una candidatura propria optando per una coalizione con il Pt, di cui il PCdoB è sempre stato alleato. Sostenitrice della necessità di un’alleanza tra tutti i candidati progressisti, Manuela avrebbe dovuto presentarsi in coppia con Lula, che l’aveva scelta preferendola a molti altri nomi.
Ma il sogno della sinistra di un «Brasile felice di nuovo» ha lasciato spazio al peggiore degli incubi. Dalle dichiarazioni di guerra di Bolsonaro – contro la sinistra, i senza terra, gli indigeni, l’ambiente – alla sottomissione già annunciata agli interessi degli Stati uniti, per finire con l’incompetenza e l’improvvisazione di cui sta già dando prova la futura compagine governativa, tutto indica che i prossimi quattro anni saranno per il Brasile uno dei periodi più oscuri della sua storia.
Ne abbiamo parlato con Manuela D’Avila, la giovane candidata alla vicepresidenza in coppia con Fernando Haddad, in visita in Italia su invito di Rifondazione comunista, che per lei ha organizzato due incontri pubblici: uno a Napoli, che si è svolto ieri con la partecipazione del sindaco Luigi de Magistris, e uno a Roma, che si terrà oggi alle 18 alla Casa Internazionale delle Donne, con la presenza di Luigi Ferrajoli e dell’europarlamentare Eleonora Forenza.
Tra annunci, smentite e scandali vari, iniziano a sorgere i primi dubbi sulla tenuta del prossimo governo. Riuscirà il governo Bolsonaro a restare in piedi per quattro anni?
All’interno del futuro governo è facile cogliere già molte contraddizioni tra le varie anime della destra, insieme alla mancanza di uno spazio di dialogo e a una tendenza a penalizzare il potere legislativo. E tutto ciò potrebbe tradursi in un inasprimento del discorso del presidente contro le forze progressiste. Perché, nella misura in cui faticherà a conservare la compattezza interna, avrà bisogno di tenere uniti gli alleati attorno a quella che è stata la sua principale bandiera elettorale: l’odio contro la sinistra e i movimenti popolari.
I primi passi di quella che non a caso è stata chiamata «armata Bolsoleone» sono risultati disastrosi per l’immagine del Brasile. Cosa pensa delle nomine dei ministri da parte del presidente eletto?
La presenza di militari nel governo supera quella di qualsiasi altro periodo della storia brasiliana. Ma il discorso d’odio viene maggiormente da altri settori. Ho l’impressione che le persone, concentrandosi di più sulla forte componente militare del governo, trascurino il carattere violento e autoritario degli altri ministri. Abbiamo per esempio un ministro dell’Ambiente, Ricardo Salles, che ha definito «irrilevante» la questione del riscaldamento globale, indicando «l’uso del fucile» come forma di soluzione dei conflitti con la sinistra e con i senza terra. Abbiamo una ministra della Donna, della famiglia e dei diritti umani, la pastora evangelica Damares Alves, che propone una riforma della legislazione sull’aborto per obbligare a partorire le donne vittime di violenza sessuale, in un Paese in cui si registra uno stupro ogni 11 minuti. Abbiamo, ancora, una ministra dell’Agricoltura, Tereza Cristina, già a capo della potente bancada ruralista, nota per la difesa incondizionata degli interessi dei latifondisti, e un ministro degli Esteri ammiratore di Trump, Ernesto Araújo, che ha annunciato l’uscita del Brasile dal Patto globale sulle migrazioni. E parliamo di un paese che ospita più italiani di quanti ve ne siano a Roma e più libanesi che il Libano.
Lo scandalo delle transazioni sospette sul conto dell’ex autista di Flávio Bolsonaro, Fabrício Queiroz – compreso un versamento di 24mila reais a favore della moglie del futuro presidente -, coinvolge in pieno tutta la famiglia dell’ex capitano. Anche in questo caso l’organo giudiziario guarderà da un’altra parte?
Per avere un’idea delle proporzioni dello scandalo, basti pensare che il denaro passato per il conto di Fabrício Queiroz supera il prezzo dell’immobile attribuito a Lula per il quale l’ex presidente è stato condannato. E in questo caso parliamo dell’autista del figlio del presidente eletto, che per di più vive in una casa povera di Rio. Oltretutto, l’organismo di controllo finanziario disponeva di queste informazioni prima che si svolgessero le elezioni presidenziali, ma è soltanto ora che le ha rese pubbliche. Ha adottato, cioè, una linea opposta a quella seguita dal giudice Sérgio Moro, il quale ha divulgato le denunce rivolte contro Lula dal suo ex ministro dell’Economia Antonio Palocci a meno di una settimana dal primo turno. Del resto, la nomina di Moro a ministro della Giustizia è la conferma della tendenza in atto alla giudiziarizzazione della politica.
Come si spiega che dopo 13 anni di governo del Pt il popolo abbia finito per votare Bolsonaro? Non significa forse che a livello di formazione politica e di organizzazione della classe lavoratrice la sinistra ha sbagliato qualcosa?
Noi siamo stati sconfitti sul piano della narrazione relativa alle responsabilità della crisi economica. È a partire dalle manifestazioni di protesta del 2013 che l’élite brasiliana ha iniziato a imporre, dietro la bandiera della lotta alla corruzione, un discorso fortemente conservatore e antidemocratico. E malgrado Dilma abbia vinto le presidenziali nel 2014, l’opposizione le ha di fatto impedito di governare, bocciando tutte le misure dirette a condurre il paese fuori dalla recessione, che era dovuta alla crisi economica internazionale. Finché, nel 2016, non è riuscita a rovesciarla e a dare vita a un governo che, a colpi di riforme ultraneoliberiste, non ha fatto altro che aggravare la crisi. Ma sempre sulla base di una versione che ha scaricato la colpa della recessione sulla sinistra e sul governo Dilma, anziché sulla crisi del capitalismo globale.
Ma c’è spazio anche per un’autocritica?
Se abbiamo perso, non è solo per la forza della destra, ma anche per le nostre incapacità, a partire dall’errore di non aver puntato su forme di comunicazione diretta con la popolazione. Ma l’idea che l’autocritica debba essere fatta in sala riunioni e scritta su carta è anti-rivoluzionaria. La sinistra fa autocritica a livello di prassi. Nel nostro programma abbiamo già esposto successi ed errori. Ma ricondurre l’impeachment agli errori della sinistra significa disconoscere come opera il capitalismo, come si organizzano le élite e come al centro del processo politico ci sia quella cosa chiamata lotta di classe. Stiamo vivendo una crisi strutturale in cui il capitalismo ha sempre meno bisogno della democrazia e tutto si sposta sulla disputa per le risorse naturali. Perché tanta attenzione sul Venezuela? Perché possiede enormi giacimenti di petrolio e condivide la frontiera con il Brasile lungo la regione amazzonica, ricca di acqua, biodiversità, ricchezze minerarie.
Quali sfide attendono la sinistra?
In Parlamento, l’opposizione sarà chiamata a contrastare le misure che adotterà il governo, a partire dalla privatizzazione delle risorse strategiche del nostro paese. Ma, allo stesso tempo, il nostro sforzo dovrà essere diretto a costruire un fronte ampio, e non solo di sinistra, in difesa della democrazia. Perché, con un presidente che annuncia una persecuzione formale delle organizzazioni di sinistra e una serie di ministri impegnati a portare avanti un discorso pieno d’odio contro le forze progressiste e a considerare omicidi come quello di Marielle Franco come «cose della vita», non sono solo le conquiste sociali ottenute negli ultimi anni a essere minacciate, ma lo stesso tessuto democratico del paese.