Repubblica 12.12.18
Luciano Canfora "Io, Artemidoro e la mia guerra ai falsari geniali"
Dopo
la sentenza della Procura di Torino, parla lo studioso che aveva
considerato il Papiro sin dall’inizio una truffa. "Chi ha studiato con
me è stato vittima di pressioni e minacce. Salvatore Settis? Lo
considero ancora un amico"
Intervista di Dario Olivero
Questa
storia si può raccontare, come tutte le storie, in molti modi. Uno è
quello della procura di Torino: il Papiro di Artemidoro è un falso, non
si procede per truffa solo perché il reato è caduto in prescrizione. Un
altro è quasi conradiano: il Papiro di Artemidoro è il campo di
battaglia di due duellanti, Salvatore Settis che ne ha perorato
l’acquisto e difeso l’autenticità fino all’ultimo sangue e Luciano
Canfora che fin dall’inizio l’ha messa in dubbio. Un terzo è la
detective story con tutti gli ingredienti del noir: un falsario geniale,
un venditore oscuro, un acquisto affrettato, svariate autopsie
filologiche e scientifiche, misteri, depistaggi, esperti entrati e
usciti di scena, molti soldi. E, naturalmente, un investigatore
ossessionato dalla verità. Professor Canfora, perché ha dedicato tredici
anni della sua vita a dimostrare che il Papiro di Artemidoro è falso? È
ossessionato? «Per nulla», risponde al telefono da Bari il giorno dopo
la notizia arrivata dalla procura di Torino che gli dà ragione. «Semmai
sono uno curioso che desidera sempre andare a fondo. Mi sono occupato e
mi occupo di tante cose con la stessa curiosità e, visto che non
esistono ossessioni multiple, il Papiro non è la mia ossessione.
Nessuno
lascia a metà una ricerca o un problema, bisogna lavorare con
disciplina rispettando lo stile che richiede una materia come la
filologia».
Ma perché proprio il Papiro?
«Mi imbattei nel
Papiro mentre lavoravo su tutt’altro. La mia ricerca mi portò a studiare
i modi di ritrovamento e acquisto dei materiali papiracei negli anni
Venti e Trenta, un periodo di grande fioritura. Un fondo si trovava a
Milano al centro Achille Vogliano. Lì vidi dei lucidi che raffiguravano
il cosiddetto Papiro di Artemidoro. Era il 2006, mi chiesero di
esprimermi e scrissi un articolo in cui esortavo alla cautela sulla sua
autenticità».
E come mai la storia non finì lì?
«L’Enciclopedia
italiana, di cui faceva parte anche Settis, mi chiese di scrivere la
voce "Papiro" con la precisa richiesta di dare molto spazio a questa
novità appena esposta a palazzo Bricherasio. Allora approfondii lo
studio e pubblicai sui Quaderni di storia i miei rilievi e li mandai a
Settis che mi disse che anche lui all’inizio aveva avuto dei dubbi. Dopo
alcune settimane, lo dissi anche in un’intervista. Due giorni dopo su
Repubblica apparve un pezzo molto polemico del mio amico che mi chiamava
in causa. A quel punto ritenni fosse mio dovere proseguire le
indagini».
Lo chiama amico, lo siete ancora?
«Sì, lo siamo tuttora. I rapporti personali non possono essere
intaccati da una disputa accademica».
C’è chi insinua che la sua battaglia fosse motivata dal risentimento per non essere stato chiamato alla Normale di Pisa.
«Ma certo che no. Quell’anno nessuno venne chiamato. Inoltre credo sinceramente che Settis mi fosse favorevole».
È vero che avete condiviso una stanza quando eravate studenti?
«Da
studenti abbiamo dormito nella stessa stanza di un pessimo albergo di
Taranto, ci stavamo laureando e avevamo ricevuto una colossale borsa di
studio da 25mila lire per seguire un convegno. Mi ricordo che Settis
chiese una birra ma non avevano neanche quella. Stiamo parlando del ’63:
c’era ancora Togliatti».
Ma dai tempi di Togliatti quante volte vi siete sentiti negli ultimi tredici anni?
«Le ripeto, ci siamo visti spesso, per esempio nel consiglio scientifico della Treccani».
Mi aiuti a ricostruire la storia.
Partiamo
dal gallerista armeno, Serop Simonian, che vendette il Papiro
all’allora Compagnia di San Paolo nel 2004 per 2 milioni e 750 mila
euro. Lo ha mai incontrato?
«No, mai. Ha una galleria d’arte ad
Amburgo, ma il personaggio è sospetto. Pensi che quando Eleni Vassilika,
che poi avrebbe rifiutato il Papiro in comodato d’uso all’Egizio di
Torino, era direttrice a Hildesheim aveva già avuto a che fare con lui
ed ebbe molti problemi sull’autenticità e provenienza delle opere che
trattava.
Avemmo con lui due contatti: il primo fu quando Silio
Bozzi, un dirigente della polizia scientifica, gli chiese il negativo di
una foto scattata al Konvolut, cioè l’involucro da dove sosteneva
provenisse il Papiro, e lui disse di no. La seconda per un invito a un
convegno sul Papiro. Non venne».
Veniamo al secondo personaggio:
il falsario. Si chiamava Simonidis, non le sarà sfuggita l’assonanza dei
nomi dei due protagonisti.
«In effetti deve essere la provvidenza
che si è divertita a mettere insieme un greco e un armeno di due secoli
diversi nella stessa storia. Simonidis è un personaggio colossale. Non
conosciamo né l’anno di nascita né quello di morte. Anzi, diffuse la
notizia di essere morto ma in realtà si era ritirato in Egitto, secondo
il Times (che non ne era del tutto certo) pare che sia morto in Albania
nel 1890».
Falsificò la sua morte?
«Era un genio. Studiò sul
Monte Athos dallo zio che era igumeno di uno dei monasteri. Imparò a
disegnare teste, profili, imparò la composizione degli inchiostri
antichi. Poi andò ad Atene dove pubblicò opere di argomento geografico
con uno stile che imita quello bizantino.
Studiò teologia a
Istanbul, poi finì in Russia e cercò di smerciare una lista di testi
greci che sosteneva aver portato dall’Athos ma l’Accademia di
Pietroburgo li respinse. Erano tutti testi geografici come il Papiro».
Professore,
se non sapessi che stiamo parlando del Papiro di Artemidoro, direi che
lei stima questo falsario come certi detective ammirano i delitti di
quelli a cui danno la caccia.
«Non mi sono invaghito, però in
effetti so benissimo che la frequentazione assidua porta
all’immedesimazione, Plutarco docet. Simonidis riuscì quasi a beffare
l’Accademia delle scienze di Berlino.
Ma, come diceva il grande filologo tedesco Wilamovitz: "Un falsario moderno per quanto bravo tradisce sempre la sua modernità"».
E
torniamo al Papiro. E alla vittima. Perché la Compagnia di San Paolo lo
acquistò? Non c’erano segnali che potesse trattarsi di una imprudenza?
«Nel 2004 nessuno aveva sospetti.
C’era
uno studio parziale tedesco del ’98. Certo, si tentò di venderlo anche
in Spagna ma la Fondación Pastor sconsigliò, così come il Getty.
Ma allora non era ancora scoppiato il caso. L’acquirente non aveva voci critiche che lo potessero allarmare».
Ma anzi, aveva il parere favorevole di Settis. Cosicché
decise di esporlo in mostra.
«Esatto. Con tanto di sontuoso catalogo dal titolo Le tre vite del Papiro, oggi quasi introvabile».
Immagino non per lei.
«Io ne ho due o tre copie».
Comunque incominciò la sfida che è durata fino a oggi.
«Ma se io non fossi stato sollecitato ad occuparmene non lo avrei mai fatto.
Uno deve disciplinare le energie».
L’archiviazione della procura di Torino sembra chiudere la storia.
Eppure,
come in un thriller, c’è un’autopsia ancora in corso. In questo momento
il Papiro è a Roma all’Istituto centrale per il restauro. I
proprietari, che hanno deciso di non intraprendere nessuna iniziativa
legale, vogliono continuare a studiarlo.
Ci aspettano nuovi colpi di scena?
«L’Istituto
è un’eccellenza italiana, è giusto che procedano alle analisi, che sono
soprattutto sugli inchiostri; ma ha già fornito indicazioni che vanno
verso l’accertata modernità del papiro. Essendo scienziati procederanno
con dei raffronti su pezzi di scavo per completare il referto».
Ma è giusto studiare un falso?
«Ma il Papiro è un eccellente prodotto moderno come altri prodotti del Simonidis ».
Quanti caduti ha lasciato sul campo la guerra del Papiro di Artemidoro?
«Mi
ha colpito che studiosi di grande qualità in ognuno dei rispettivi
ambiti siano stati bersaglio di attacchi e ostilità. Oltre alla ex
direttrice dell’Egizio e Bozzi ci sono stati altri casi, restauratori,
esperti, studiosi.
Sono state fatte pressioni su di loro, alcuni costretti a lasciare il lavoro, altri trasferiti».
Pressioni da parte di chi?
«Posso citare Di Maio che oggi va tanto di moda?».
Se crede.
«Una manina misteriosa non so di chi».
E dal mondo accademico ha avuto più solidarietà, ostilità o indifferenza?
«Quando
Mussolini fu arrestato il 25 luglio del ’43 un vicino di casa abbraccia
un noto antifascista del suo stesso palazzo e gli dice commosso:
finalmente. E il vicino gli risponde: me lo dovevi dire prima».