Repubblica 11.12.18
"È falso, una truffa" La fine del Papiro di Artemidoro
di Silvia Ronchey
La
 procura di Torino dà ragione a Luciano Canfora sul manufatto acquistato
 per quasi tre milioni di euro: è del XIX secolo. Il reato è prescritto,
 ma resta il riscatto degli studiosi e dei funzionari coraggiosi che 
denunciarono
Il vero contro il falso. La più che decennale 
battaglia di Luciano Canfora per dimostrare la falsità del cosiddetto 
papiro di Artemidoro era diventata, per chi ne conosceva i termini 
evidenti e i meno palesi retroscena, un gigantesco simbolo. Tale ormai 
resterà nella storia degli studi, e non solo: in quella della cultura, e
 anche, forse, della politica; ammesso che tra le due cose, impegno 
politico e impegno culturale, si possa fare distinzione. Quella per la 
verità è una lotta solitaria, disinteressata e proprio per questo 
ostacolata da una così folta e intricata selva di interessi da renderla 
una rocambolesca odissea. Eppure, la procura di Torino ora ha mostrato 
che l’ostinazione e l’onestà alla fine sono destinate a vincere. Che il 
vero può prevalere sul falso, sulla disinformazione, sulla fake news, 
sulla disonestà, materiale e, peggio, intellettuale. Le perizie raccolte
 nell’inchiesta della procura e diffuse ieri stabiliscono in via 
definitiva che il Papiro è una truffa destinata tuttavia a rimanere 
penalmente impunita poiché il procedimento è stato archiviato per 
intervenuta prescrizione.
Che quel goffo manufatto fosse falso in 
cuor loro lo sapevano ormai quasi tutti nel mondo degli studi e 
probabilmente anche in quello della finanza.
Venduto alla 
Compagnia di San Paolo (che ha fatto sapere che non intraprenderà 
nessuna azione legale per tutelarsi), con la malleveria scientifica di 
studiosi stimati come Salvatore Settis e come il papirologo Claudio 
Gallazzi, dall’ambiguo mercante d’arte Serop Simonian nel 2004 («dopo 
molti rifiuti tra cui quello del Getty», ricorda Canfora) per 2 milioni e
 750 mila euro, era stato subito rifiutato dall’allora direttrice del 
Museo Egizio di Torino, Eleni Vassilika: «Nonostante le pressioni 
fortissime», commenta Canfora, «e non è un mistero che la sua 
estromissione dall’Egizio sia stata la poco elegante risposta a tanta 
serietà e coraggio». Molti altri tentativi di testimonianza scientifica 
onesta sarebbero costati a studiosi, giovani e meno, scienziati, 
funzionari e pubblici ufficiali di vari rami intimidazioni, sanzioni e 
arretramenti di carriera.
La grossolanità della contraffazione con
 l’andare degli anni si mostrava così evidente, e su una tale quantità 
di livelli, che solo per malafede o semplicemente per codardia sembrava 
si potesse perseverare a negarla.
Dall’anacronismo del greco in 
cui era scritto, palesemente tardobizantino se non neogreco, alla 
ripresa letterale di un modello ottocentesco identificato subito da uno 
studioso del calibro di Maurizio Calvesi con l’introduzione alla 
Geografia generale di Carl Ritter, alla sequela di ancora più palesi 
anacronismi concettuali, storici, geografici e iconografici, inclusi i 
bizzarri cicli di figure animali dalle didascalie sgrammaticate e dai 
tratti modernissimi.
L’intuizione iniziale di Canfora che il 
falsario fosse il famigerato — ai papirologi e in generale agli 
antichisti — Konstantinos Simonidis (1820-1890 ca.), inventore di fake 
su pergamena e papiro di argomento teologico e/o geografico, appunto 
come lo pseudo-Artemidoro, era stata rafforzata dal ritrovamento e dalla
 pubblicazione di suoi scritti in greco che coincidevano alla lettera 
con espressioni o frasi presenti nel cosiddetto Papiro di Artemidoro: «È
 stato un vero acquisto per la scienza l’avere pubblicato presso le 
Edizioni di Pagina il primo robusto volume delle opere greche di 
Simonidis, rigurgitanti di falsi geografici e corredate dalla lista 
autografa di opere false barattate per vere che offrì nel 1850 
all’Accademia delle Scienze di San Pietroburgo», commenta Canfora.
«Un’ispezione
 nel museo di Liverpool, compiuta dieci anni fa, aveva già consentito 
l’identificazione degli strumenti tecnici con cui Simonidis realizzava i
 suoi papiri finto-antichi».
Anche della foto del presunto
Konvolut,
 ossia di quel preteso conglomerato papiraceo di partenza che avrebbe 
dovuto documentare la provenienza di scavo di un manufatto in realtà 
allestito a tavolino, era stata rapidamente accertata la falsità — un 
fotomontaggio su cui erano state grossolanamente spalmate alcune lettere
 greche tratte dal testo di Simonidis, come avevano dimostrato studiosi 
quali Silio Bozzi e la sua squadra — e con ciò smascherata la malafede 
del venditore. Innumerevoli altre prove erano state fornite, ricorda 
Canfora, dalle ricerche a tappeto e dalle pubblicazioni «dei non molti 
che hanno parlato chiaro fin dal primo momento, come Luciano Bossina, 
Federico Condello, Rosa Otranto, Claudio Schiano, Stefano Micunco». Un 
pugno di studiosi per lo più giovani, non messi in soggezione dai 
padrini accademici dell’affare, dai suoi illustri garanti scientifici.
La
 metodicità di Canfora e della sua équipe non aveva però giovato alla 
dimostrazione. Nel moderno gioco di specchi della comunicazione e 
dell’immagine, meno è più. Più gli studiosi scrivevano, più accumulavano
 argomenti, più, su quella strana interfaccia di gioco, avvantaggiavano 
l’avversario. Per inoppugnabili che fossero, le prove della falsità 
meglio erano argomentate meno risultavano comprensibili ai non 
specialisti — il che anche in generale dovrebbe far riflettere sui 
meccanismi del consenso nella modernità. Grottescamente, più il dossier 
si ingrandiva, meno accessibile era all’opinione pubblica, e gli 
accaniti difensori del falso si sentivano al sicuro, riservandosi pochi 
ma ben organizzati colpi d’immagine — una grandiosa mostra, un 
prestigioso convegno — con la collaborazione di finanziatori e sponsor 
accademici indulgenti. Il capitale, si sa, può molto.
Eppure, in 
questo caso, ha perso. Hanno perso i falsari, ha vinto la giustizia, 
garantita, anche in una fattispecie così peculiare, da un altrettanto 
ostinato, onesto e solitario cercatore di verità: il procuratore capo 
Armando Spataro, che il giorno prima di andare in pensione ha deciso di 
illuminare a giorno e sottoporre al giudizio pubblico l’oscuro dossier 
su cui da quando è arrivato a Torino ha minuziosamente indagato. La 
parola finale è truffa. Certo, la frode del mercante non è più 
perseguibile. Neanche la hybris degli intellettuali coinvolti è certo 
perseguibile — se non dal legittimo risentimento dei banchieri beffati —
 ma è e resterà, nella nostra memoria, imprescrittibile.