Corriere 11.12.18
La battaglia dimenticata
Nel 1636 la Spagna difese la Lombardia respingendo i francesi a Tornavento
Un
saggio dello storico canadese Gregory Hanlon (edito da Leg) su un fatto
d’arme della guerra dei Trent’anni. Anche se non ebbe un’importanza
decisiva stupisce la totale mancanza di attenzione degli studiosi
italiani sulla vicenda
di Paolo Mieli
Quella di
Tornavento fu una battaglia minore della guerra dei Trent’anni che
sconvolse l’intera Europa nella prima metà del Seicento (1618-1648), per
giunta su un fronte tutto sommato secondario. Di solito, spiega Gregory
Hanlon in Italia 1636. Il sepolcro degli eserciti — pubblicato dalle
edizioni Leg — «il teatro italiano rimane escluso dai racconti generali
di quel conflitto», pur se il «teatro italiano» fu ben più che «un
dettaglio minore nel quadro più ampio della guerra». Un conflitto che,
scrive Hanlon, infuriò in Germania per un periodo assai lungo e fu «una
brutale guerra civile» combattuta dai cattolici alleati con la casa
imperiale d’Austria (gli Asburgo, sovrani del Sacro Romano Impero)
contro una coalizione variabile di principi ribelli tedeschi
protestanti. Lo scontro scoppiò in Boemia nel 1618, quando i sudditi
protestanti, alla morte dell’imperatore Mattia, rinnegarono la promessa
di eleggere al trono suo nipote Ferdinando, temendo di essere
danneggiati dal suo «cattolicesimo militante» e dalla sua ben nota
intenzione di «ridimensionare il protestantesimo nei suoi domini». Al
posto di Ferdinando elessero come re di Boemia l’elettore palatino
Federico, calvinista. E nel 1619 ebbero la meglio, riuscendo addirittura
a cacciare l’erede asburgico da Vienna. Ma quello fu solo l’inizio di
una lunghissima contesa combattuta in armi. Dopo lo scoppio della guerra
nel 1618, il re di Francia Luigi XIII e il suo primo ministro cardinale
Richelieu continuarono per anni a battersi per porre fine all’egemonia
degli Asburgo in Europa. La Francia era il singolo Stato più ricco e più
popoloso del continente, costretto, fino a quel momento, a rinunciare a
un ruolo di reale predominio proprio a causa delle sanguinose dispute
religiose al proprio stesso interno. Le cose cambiarono solo con la
guerra dei Trent’anni. O quantomeno potevano cambiare…
E la
penisola italica? All’epoca manovre, campagne di logoramento e assedi
prostrarono per decenni gran parte dell’Italia settentrionale e
centro-settentrionale. Le battaglie invece furono poco frequenti, eventi
non paragonabili, per dimensioni, a quelle della Germania o dei Paesi
Bassi. E, a differenza di quelle nordeuropee, non furono mai risolutive.
Per la maggior parte delle battaglie su suolo italiano si può parlare,
secondo Hanlon, di «azioni», vale a dire «scontri che coinvolgevano meno
di diecimila uomini per schieramento» (in genere un numero assai
minore). Nessuno di questi scontri, peraltro, annientava la capacità
dello schieramento sconfitto di continuare la guerra, né consentiva al
vincitore l’occupazione di intere province. Quello di Tornavento del
1636 fu, dunque, «lo scontro più vasto nel periodo compreso fra la
battaglia di Pavia nel 1525 e quella della Marsaglia, in Piemonte, nel
1693» anche se nessuno dei due schieramenti contava più di quindicimila
soldati. Il valore storico decisivo dello scontro di Tornavento «emerse
soltanto a posteriori e in negativo», quando si comprese come avesse
impedito la conquista francese della Lombardia spagnola.
La
battaglia in sé fu poca cosa, non fosse per i morti che lasciò sul
terreno: duemila. Si affrontavano, guidate dal marchese di Leganés, le
truppe del re di Spagna (nonché duca di Milano, signore di gran parte
delle terre lombarde) e quelle francesi alleate con i piemontesi,
capitanate dal maresciallo di Crequy. Si risolse con una sostanziale
tenuta della Spagna e, di conseguenza, con uno smacco per la Francia. Le
campagne che all’epoca opposero in Italia le forze armate
franco-savoiarde da un lato a quelle guidate dagli spagnoli — con gli
ausiliari tedeschi — dall’altro, durarono quasi un quarto di secolo. Ma
nonostante ciò, fa notare Hanlon , «a tutt’oggi questo teatro non
interessa gli storici francesi, né quelli tedeschi, né tantomeno quelli
spagnoli». I francesi consideravano l’Italia il «sepolcro degli
eserciti» (di qui il sottotitolo del libro), vale a dire «il luogo in
cui ogni desiderio di conquista e di dominio andava in rovina», non
meritevole di una particolare attenzione da parte di coloro che si sono
occupati della guerra dei Trent’anni. Più o meno lo stesso giudizio è
stato dato da tedeschi, spagnoli e, strada facendo, dagli studiosi di
tutta Europa, eccezion fatta per qualche rarissimo caso. Persino gli
italiani sono stati oltremodo «parchi di attenzione» alle vicende
militari di questo delicato frangente storico, nonostante la contesa,
che a più riprese coinvolse ogni parte della penisola, costituisca «il
singolo maggior evento della storia del Paese fra il Concilio di Trento e
la Rivoluzione francese». Un secolo e mezzo. Perché questa distrazione?
Gli accademici italiani con alcune eccezioni, risponde Hanlon, ignorano
«caparbiamente» battaglie come quella di Tornavento per il fatto che
«non si conformano alla cornice campanilistica all’interno della quale
essi stessi operano». Più in generale, secondo lo storico, «gli italiani
ignorano la storia militare a causa della sgradevole associazione di
idee con il passato fascista». Nel nostro Paese «è considerato
accettabile occuparsi delle sconfitte» — come Novara, Custoza, Adua,
Caporetto ed El Alamein — rispetto alle quali nessun collega, «pur in un
ambiente competitivo, spesso al limite della lotta al coltello», potrà
accusare l’incauto storico di aver «coltivato pericolosi istinti
marziali».
E qui Hanlon chiarisce un punto a suo avviso
fondamentale. «Che il conflitto faccia parte del modo in cui gli esseri
umani si sono evoluti sin dalla preistoria», scrive, «è qualcosa che
dobbiamo prendere come un dato di fatto». Uno studioso empirico che sia
intenzionato a spiegare un problema della storia dovrebbe, invece,
«lasciare le lontane origini di questi tratti sullo sfondo,
concentrandosi sul luogo e sul tempo in esame».
Nel XVII secolo
«la guerra non era caratterizzata da una barbarie senza confini». Gli
ufficiali e i soldati «osservavano regole d’ingaggio la cui logica umana
e necessità possiamo ben comprendere attraverso uno studio
approfondito». Nelle lotte tra cattolici e protestanti nei Paesi Bassi
che si protrassero per decenni, scrive Hanlon, gli eserciti europei, ad
esempio, elaborarono regole pensate per attenuare, almeno in parte, gli
orrori della guerra. Molte sembravano semplici cortesie, altre
«precorrevano uno spirito umanitario». Nell’arco di dieci giorni dalla
fine delle ostilità, entrambi gli schieramenti dovevano aver rilasciato i
prigionieri. Nel XVII secolo i prigionieri erano ormai «proprietà del
sovrano», non del singolo soldato che li aveva catturati. Adesso che
soldati e ufficiali di rango inferiore non potevano ricavarne alcuna
ricompensa, i prigionieri sarebbero potuti sembrare solo un fardello,
destinati perciò al macello, visto che richiedevano guardie e cibo
prezioso. Invece non fu così. Rapidi scambi di prigionieri divennero una
pratica comune nel corso della guerra fra Spagna e Paesi Bassi e sembra
che nel 1636 fossero diventati una consuetudine anche in Italia. La
reciprocità divenne poi «il fattore che governava la pietà dimostrata
nei confronti degli uomini catturati dal nemico». Ucciderli avrebbe
significato istigare lo stesso nemico alla rappresaglia e «la
prospettiva di morire per mano dei propri carcerieri non incoraggiava
certo ad arrendersi». Al giorno d’oggi, scriveva nel Seicento Raimondo
dei conti di Montecuccoli suggerendo ai vincitori di essere magnanimi,
«i prigionieri non vengono trascinati per le strade in cortei trionfali,
non vengono messi ai ferri o tenuti come schiavi… Non hanno ragione di
ridursi alla disperazione o di credere di essere destinati a morire…
Quando capiscono che combattere non offre più alcuna prospettiva di
vittoria, si arrendono di fronte a un senso di futilità». Non è
documentato, prosegue Hanlon, se i prigionieri rilasciati fossero stati
prima costretti a giurare di non riarruolarsi per tutta la durata della
campagna, ma i loro ufficiali erano contenti di riaverli indietro per
poter raccogliere informazioni sulle condizioni del nemico. Un’altra
cortesia nei confronti degli eserciti avversari era la restituzione dei
corpi degli ufficiali uccisi in battaglia. Alcuni «carichi di cadaveri
eccellenti» furono raccolti nel corso dello scontro stesso, riportati ai
rispettivi familiari e sepolti in pompa magna nelle cappelle di
famiglia.
All’epoca si notò sempre di più che una conseguenza
immediata dello stress accumulato in battaglia era la spaventosa
mancanza di umanità da parte dei soldati nei confronti della popolazione
civile. La quale popolazione civile veniva a trovarsi esposta al feroce
desiderio dei vincitori di procurarsi una ricompensa per i pericoli
affrontati. Fu in quel periodo che si codificò non esser consentito a
nessun soldato di allontanarsi dal proprio distaccamento per andare a
scegliersi i «bocconi migliori». Le pattuglie piccole andavano a
coincidere con le camerate: «Si trattava cioè di uomini che alloggiavano
insieme e dividevano il bottino secondo principi condivisi». Muovendosi
come «distaccamenti di foraggieri», essi catturavano abitanti del
posto, di cui si servivano come guide. I civili prigionieri potevano
fornire informazioni sui movimenti del nemico o dettagli sulle
condizioni di una particolare abitazione. Prendere in ostaggio i
notabili serviva a tenere in riga gli altri.
Per chiarire queste
particolarità, l’autore fa particolare riferimento a due libri: Il volto
della battaglia di John Keegan (Saggiatore) e Psicologia militare.
Elementi di psicologia per gli appartenenti alle forze armate di Marco
Costa (Franco Angeli).
Il saggio di Hanlon si pone infine un
problema di fonti storiografiche, fonti che sono a suo avviso «fin
troppo laconiche». I soldati degli eserciti europei, nota l’autore, non
scrivevano lettere a casa con la frequenza o la scioltezza dei loro
discendenti di epoca napoleonica. La diffusione della corrispondenza a
livello popolare e l’avvento di un servizio postale economico erano
ancora di là da venire. Per di più, i soldati del Sud Europa erano
generalmente meno alfabetizzati dei loro contemporanei in Germania, nel
Nord della Francia, nei Paesi Bassi e in Inghilterra. Persino per la
minoranza alfabetizzata, l’idea di affidare le proprie esperienze alla
carta quando il ricordo era ancora fresco non corrispondeva al loro
stile di vita vagabondo. Per quanto riguarda gli ufficiali, poi,
soprattutto quelli di livello superiore erano in gran parte cortigiani
ed erano portati quindi all’autocensura.
L’importanza della
battaglia di Tornavento, secondo Hanlon, divenne perciò più chiara agli
occhi degli osservatori solo con il passare del tempo. Si capì che «una
vittoria decisiva dei francesi avrebbe consentito loro di avanzare in
pianura raccogliendo le provviste di cui avevano bisogno e ripagando i
soldati della loro pazienza con il ricco bottino della Lombardia.
Galvanizzato dal successo, l’esercito franco-savoiardo sarebbe magari
riuscito a conquistare le città di Milano (forse non la cittadella) con
un blocco della durata di un paio di settimane». Se l’esercito asburgico
fosse stato ridotto nel 1636 in condizioni tali da doversi disperdere
in tante guarnigioni diverse, Leganés avrebbe potuto non essere in grado
di rompere l’accerchiamento della grande città. Invece, dopo la
battaglia, agli spagnoli fu possibile adottare una prudente strategia
difensiva che puntava a chiudere il confine alle incursioni
franco-savoiarde e a sfruttare il più possibile il territorio nemico da
cui poterono ricavare foraggio per i loro cavalli. E adesso che l’Armata
delle Fiandre era arrivata a minacciare Parigi, ogni iniziativa
francese in territorio italiano diventava impensabile e Leganés poteva
finalmente rilassarsi. Passata la crisi, l’esercito asburgico tornò alla
sua routine, scrive Hanlon, «gli ufficiali più importanti
ricominciarono a preoccuparsi degli avanzamenti di carriera e ognuno
riprese a contrastare le pretese dei rivali». Il sistema spagnolo in
Italia «si dimostrò eccezionalmente in salute». E capace di durare.