Repubblica 11.12.18
La strage dei ragazzi a Corinaldo
Il pensiero unico della ferocia
di Massimo Recalcati
Ho
con il territorio di Ancona un rapporto personale di grande affetto che
dura negli anni. Corinaldo è un piccolo e bellissimo borgo marchigiano
oggi sommerso dal dolore. Potrei leggere la drammatica vicenda che ci ha
tutti turbati come la conferma tragica delle mie tesi sulla crisi
diffusa del discorso educativo, sull’evaporazione del padre, sulla lunga
notte di Itaca che ci circonda, sulla diffusione di un godimento nocivo
alla vita. Osservo invece con un certo sconcerto che quella maledetta
discoteca ci fotografa: spietatamente, crudelmente, traumaticamente.
Nessuno di noi è salvo. La caccia al colpevole, l’attribuzione delle
responsabilità per l’accaduto — pure, sottolineo, giusta e necessaria — ,
i giudizi di condanna nei confronti di quei genitori e dei loro ragazzi
sembrano aver innanzitutto dimenticato che questo tempo è ancora il
tempo del dolore. Alcuni ragazzi sono gravi, le loro famiglie col fiato
sospeso, il corpo straziato dei morti giace senza sepoltura. Eppure non
c’è il silenzio necessario a ogni lutto, ma un livore accusatorio che
impressiona. Non tra i ragazzi, ma tra gli adulti. Genitori e cosiddetti
immancabili esperti, dalle tribune dei media e dei social, spiegano
come dovrebbero comportarsi i veri genitori, quelli seriamente
responsabili del proprio ruolo educativo.
Altri commentatori
accusano invece l’artista di inneggiare, nelle sue canzoni, allo sballo e
alla dissipazione, accanendosi con le autorità che non avrebbero
adempiuto ai loro ruoli nel garantire la sicurezza della struttura. In
questo modo il rispetto per il lavoro doloroso del lutto di famiglie
spezzate dal dolore e dalla perdita viene brutalmente calpestato. Non
c’è senso della comunità, condivisione, solidarietà, presenza, ma, come
avviene tristemente e non casualmente anche nella nostra vita politica,
l’attribuzione proiettiva e feroce della colpa che è sempre dell’altro.
Non ci accorgiamo di essere come quelli che gettano spray urticante
negli occhi dei vicini per accaparrarci un po’ di spazio o un oggetto di
valore? È evidente che una seria riflessione sul tema dell’educazione
si deve fare, ma non ora, non adesso, non in questi termini trascurando i
tempi psichici che l’elaborazione simbolica di ogni lutto esige.
Trascurando il dramma della bambina di 11 anni che ha chiesto a sua
madre di essere accompagnata al concerto prima di vederla morta. Chi ha
cura dei suoi pensieri? Chi, prima di giudicare pubblicamente sua madre,
pensa, anche solo per un attimo, a come sta questa bambina, a quali
sensi di colpa possono tormentarla? Lo sappiamo: la ragione ultima,
quella più decisiva, all’origine della tragedia è, oltre alla presenza,
sempre minoritaria, di una microcriminalità giovanile, la spinta al
profitto che ha generato il fenomeno fatale e determinante del
sovraffollamento dei locali. Ma noi siamo davvero indenni da questa
spinta? Noi adulti diamo testimonianza di quanto, per esempio, la
lettura e la cultura, l’amore e la solidarietà, valgano più dell’accesso
a un guadagno facile o dell’inganno del prossimo? Sappiamo dare
testimonianza ai nostri figli che la Legge del mercato non è la sola
Legge possibile per l’umano? Siamo in grado di farlo? L’educazione è una
cosa seria: non è l’apprendimento di regole esterne, né si può ridurre
al sentimento del loro rispetto. Il grande compito del processo
educativo è quello di rendere possibile l’incorporazione del senso umano
della Legge che è irriducibile a ogni regola. Il corteo paternalista
delle voci che richiamano il rispetto delle regole e dell’autorità
sembra purtroppo manifestarsi come "pensiero unico". Una lunga
tradizione disciplinare (pre-Sessantotto) gli dà vigore: meglio
prendersela con la cattiva musica che suscita cattivi modelli che con il
modello di vita che noi stessi proponiamo. Infatti: quale modello di
vita siamo stati e siamo in grado di offrire ai nostri figli? Gli
consegniamo in eredità un mondo senza prospettive, senza lavoro, un
corpo morto e vorremmo che loro fossero la manifestazione grata, vitale e
positiva del desiderio. Quando, chiediamoci, i limiti che oggi gli
adulti responsabili invocano, acquistano davvero senso? In un tempo come
il nostro che discredita continuamente i limiti essi possono esistere
solo se gli adulti per primi ne danno testimonianza credibile facendoli
esistere innanzitutto nella loro stessa vita. Questo è l’essenziale.
Essenziale non è il giudizio di condanna; essenziale è sempre da quale
pulpito viene la predica.