La Stampa 11.12.18
Renzi: ci voleva il lanciafiamme
«Candidati, mi hanno scritto in tanti. Grazie, no», scrive Matteo Renzi. «Ho già vinto due volte. Mi sentirei come Charlie Brown con Lucy che gli rimette il pallone davanti per toglierlo all’ultimo istante. «L’errore più grande è stato non ribaltare il Pd. Non entrarci con il lanciafiamme come ci eravamo detti».
Repubblica 11.12.18
La strage dei ragazzi a Corinaldo
Il pensiero unico della ferocia
di Massimo Recalcati
Ho con il territorio di Ancona un rapporto personale di grande affetto che dura negli anni. Corinaldo è un piccolo e bellissimo borgo marchigiano oggi sommerso dal dolore. Potrei leggere la drammatica vicenda che ci ha tutti turbati come la conferma tragica delle mie tesi sulla crisi diffusa del discorso educativo, sull’evaporazione del padre, sulla lunga notte di Itaca che ci circonda, sulla diffusione di un godimento nocivo alla vita. Osservo invece con un certo sconcerto che quella maledetta discoteca ci fotografa: spietatamente, crudelmente, traumaticamente. Nessuno di noi è salvo. La caccia al colpevole, l’attribuzione delle responsabilità per l’accaduto — pure, sottolineo, giusta e necessaria — , i giudizi di condanna nei confronti di quei genitori e dei loro ragazzi sembrano aver innanzitutto dimenticato che questo tempo è ancora il tempo del dolore. Alcuni ragazzi sono gravi, le loro famiglie col fiato sospeso, il corpo straziato dei morti giace senza sepoltura. Eppure non c’è il silenzio necessario a ogni lutto, ma un livore accusatorio che impressiona. Non tra i ragazzi, ma tra gli adulti. Genitori e cosiddetti immancabili esperti, dalle tribune dei media e dei social, spiegano come dovrebbero comportarsi i veri genitori, quelli seriamente responsabili del proprio ruolo educativo.
Altri commentatori accusano invece l’artista di inneggiare, nelle sue canzoni, allo sballo e alla dissipazione, accanendosi con le autorità che non avrebbero adempiuto ai loro ruoli nel garantire la sicurezza della struttura. In questo modo il rispetto per il lavoro doloroso del lutto di famiglie spezzate dal dolore e dalla perdita viene brutalmente calpestato. Non c’è senso della comunità, condivisione, solidarietà, presenza, ma, come avviene tristemente e non casualmente anche nella nostra vita politica, l’attribuzione proiettiva e feroce della colpa che è sempre dell’altro. Non ci accorgiamo di essere come quelli che gettano spray urticante negli occhi dei vicini per accaparrarci un po’ di spazio o un oggetto di valore? È evidente che una seria riflessione sul tema dell’educazione si deve fare, ma non ora, non adesso, non in questi termini trascurando i tempi psichici che l’elaborazione simbolica di ogni lutto esige. Trascurando il dramma della bambina di 11 anni che ha chiesto a sua madre di essere accompagnata al concerto prima di vederla morta. Chi ha cura dei suoi pensieri? Chi, prima di giudicare pubblicamente sua madre, pensa, anche solo per un attimo, a come sta questa bambina, a quali sensi di colpa possono tormentarla? Lo sappiamo: la ragione ultima, quella più decisiva, all’origine della tragedia è, oltre alla presenza, sempre minoritaria, di una microcriminalità giovanile, la spinta al profitto che ha generato il fenomeno fatale e determinante del sovraffollamento dei locali. Ma noi siamo davvero indenni da questa spinta? Noi adulti diamo testimonianza di quanto, per esempio, la lettura e la cultura, l’amore e la solidarietà, valgano più dell’accesso a un guadagno facile o dell’inganno del prossimo? Sappiamo dare testimonianza ai nostri figli che la Legge del mercato non è la sola Legge possibile per l’umano? Siamo in grado di farlo? L’educazione è una cosa seria: non è l’apprendimento di regole esterne, né si può ridurre al sentimento del loro rispetto. Il grande compito del processo educativo è quello di rendere possibile l’incorporazione del senso umano della Legge che è irriducibile a ogni regola. Il corteo paternalista delle voci che richiamano il rispetto delle regole e dell’autorità sembra purtroppo manifestarsi come "pensiero unico". Una lunga tradizione disciplinare (pre-Sessantotto) gli dà vigore: meglio prendersela con la cattiva musica che suscita cattivi modelli che con il modello di vita che noi stessi proponiamo. Infatti: quale modello di vita siamo stati e siamo in grado di offrire ai nostri figli? Gli consegniamo in eredità un mondo senza prospettive, senza lavoro, un corpo morto e vorremmo che loro fossero la manifestazione grata, vitale e positiva del desiderio. Quando, chiediamoci, i limiti che oggi gli adulti responsabili invocano, acquistano davvero senso? In un tempo come il nostro che discredita continuamente i limiti essi possono esistere solo se gli adulti per primi ne danno testimonianza credibile facendoli esistere innanzitutto nella loro stessa vita. Questo è l’essenziale. Essenziale non è il giudizio di condanna; essenziale è sempre da quale pulpito viene la predica.
Corriere 11.12.18
Gli inganni del sapere
L’iniziativa Parte oggi un ciclo di incontri organizzati da Fondazione Feltrinelli con Eni, dedicati al valore delle competenze in diversi campi. Un filosofo spiega perché la condivisione continua dei dati genera (paradossalmente) conflitti
di Ermanno Bencivenga
la rete diffonde una conoscenza finta
quella vera richiede fatica (e ascolto)
Platone e Aristotele hanno posto il problema di un sistema politico, uno Stato, che fosse uno solo di nome ma che di fatto risultasse da un conflitto inesauribile fra interessi e gruppi contrapposti. Si sono chiesti come conciliare le divisioni e hanno risposto in modo diverso. Platone ha invitato a distruggere le famiglie biologiche per ricostituire lo Stato come una grande famiglia; Aristotele ha teorizzato la philía — il reciproco, consapevole volersi bene — come sentimento unificante.
Se pure rifiutiamo gli Stati ideali dei grandi filosofi greci, rimane vero che una comunità sarà tanto più stabile e funzionale quanto più sarà esente da conflitti: quanto meno i diversi si balcanizzeranno in gruppi reciprocamente sospettosi e ostili che preferiscono la rovina degli avversari a un successo comune. Non c’è bisogno di guardare all’Italietta dei populismi di ogni colore per rendersi conto del rischio; i cosiddetti Stati Uniti sono sotto gli occhi di tutti come emblema di divisione — di un regime condannato all’immobilismo e alla rissa perpetua dalla sua incapacità assoluta di comunicare, di mettere in comune qualsiasi scopo, percorso o decisione.
Come sfuggire a questo obbrobrio? Una risposta plausibile è: con la conoscenza. Più si conoscerà il diverso, meno se ne avrà paura. Una distribuzione ampia e capillare della conoscenza sembra essenziale per una buona politica e, avendo raggiunto tale responso, potremmo congratularci con noi stessi perché la distribuzione è già in corso: la fornisce a modico prezzo la Rete.
Ma la gioia avrà vita breve, quando osserveremo che la spaventosa efficienza della Rete nel raccogliere e disseminare informazioni è andata di pari passo con il degrado della vita politica che lamentavamo poc’anzi. Dove abbiamo sbagliato? Per rispondere, analizziamo il concetto di conoscenza. È un concetto ambiguo. Esiste una conoscenza proposizionale — in inglese, know that — in cui quel che si conosce è il contenuto, il significato di una proposizione, generalmente chiamato un fatto o un dato. Ed esiste una conoscenza operativa — in inglese, know how — in cui quel che si conosce è una pratica, un modo di agire.
La velocità
e l’efficienza del web rubano il tempo alla messa in comune
di strategie, esperienze
e pensiero
La conoscenza che si è affermata nel mondo contemporaneo, e nella Rete, è proposizionale. È una conoscenza eminentemente trasmissibile, perché astratta: non occupa lo spaziotempo ed è disponibile a essere fruita in qualsiasi momento, dovunque uno sia. La conoscenza operativa, invece, può essere trasmessa solo con fatica. Supponiamo che tu sappia ballare il tango e voglia trasmettere questa conoscenza a me. Perché ciò accada, saranno necessarie numerose e coscienziose lezioni in cui mi mostri concretamente come muovermi e mi segui mentre cerco di imitarti, correggendomi con pazienza se sbaglio. Qual è, delle due, la conoscenza che può meglio contribuire a una buona politica?
Abbiamo detto che una comunità sarà tanto più stabile e funzionale quanto meno la diversità dei cittadini si manifesterà come conflitto. Pensiamo a quando la conoscenza ottiene un risultato simile. È quando si comincia a conoscersi, come persone: incontrarsi e collaborare a un progetto e imparare l’una le tecniche dell’altra come si imparerebbe a ballare il tango. È la conoscenza operativa che smussa i conflitti. Io posso sapere proposizionalmente ogni dettaglio di un mio simile e non essere mosso ad aiutarlo perché le parole che leggo o ascolto non accendono nessuna scintilla di umanità dentro di me, quale potrebbe accendersi se gli stringessi la mano.
La Rete va dunque nella direzione sbagliata, se libertà, responsabilità e consapevolezza individuali, e unità e stabilità dello Stato sono i nostri obiettivi. Non dovremmo stupirci se, di pari passo con l’avanzamento verso una condivisione totale di dati, imperversano l’egoismo, la xenofobia, la violenza. Dovremmo anzi inquietarci quando notiamo che la velocità e l’efficienza della Rete rubano il tempo alla messa in comune di strategie ed esperienze e anche, come ho spiegato nel mio La scomparsa del pensiero, al ragionamento, alla riflessione, al pensiero appunto. Che, in tal senso, la Rete è non solo un concorrente, ma pure un nemico.
Corriere 11.12.18
Un elettore su due è favorevole a estendere la legittima difesa
di Nando Pagnoncelli
E il 49% si aspetta che il decreto Sicurezza sarà positivo per gestire l’immigrazione
La sicurezza rappresenta un tema molto sensibile nel nostro Paese, spesso al centro di polemiche per il divario tra la sicurezza percepita dai cittadini e il reale andamento del numero dei reati. Fatto sta che oggi un italiano su quattro cita spontaneamente la sicurezza quale priorità su cui il governo dovrebbe intervenire. Non stupisce quindi che il dibattito che ha accompagnato l’approvazione definitiva del decreto Sicurezza abbia riscosso un’elevata attenzione da parte dell’opinione pubblica, dato che il 37% ne ha approfondito i contenuti e i relativi commenti e il 48% ne ha almeno sentito parlare.
I pronostici sull’efficacia dei provvedimenti previsti dal decreto sono improntati all’ottimismo (circa la metà degli italiani), anche se non mancano perplessità riguardo ai risultati che si potranno ottenere (un terzo è dubbioso). In particolare, il 49% si aspetta risultati positivi in termini di gestione dell’immigrazione, mentre il 34% è di parere opposto, e il 47% è convinto che il decreto migliorerà l’ordine pubblico e il contrasto dei fenomeni criminosi, mentre il 36% non pare fiducioso in proposito. Le attese positive prevalgono nettamente tra gli elettori della maggioranza, ma anche tra quelli del centrodestra non governativo, nonché in misura più contenuta tra indecisi e astensionisti, e fanno pure breccia nel centrosinistra, sia pure minoritariamente (tra il 16% e il 18%). A esprimere più fiducia sull’efficacia dei provvedimenti sono le persone più anziane, quelle meno istruite, gli operai e i lavoratori esecutivi, artigiani e commercianti, e coloro che risiedono nei comuni di piccole o medie dimensioni. Insomma, i ceti più popolari, tradizionalmente più esposti agli allarmi sociali.
Fin dalla sua presentazione il decreto ha suscitato posizioni distanti. Abbiamo quindi voluto conoscere le opinioni degli italiani sugli aspetti giuridici e le implicazioni culturali e sociali. Riguardo ai primi, molti giuristi ed esperti di immigrazione ritengono che il decreto Sicurezza possa presentare profili di incostituzionalità in alcune parti e che la sua applicazione avrà effetti controproducenti perché farà aumentare il numero di stranieri che si trovano in situazioni di irregolarità nel nostro Paese. Su questo le opinioni si dividono: il 40% concorda e il 37% dissente, mentre quasi uno su quattro non è in grado di esprimersi.
I dubbi
Per il 40% la legge può presentare profili di incostituzionalità e farà aumentare gli irregolari
Abbiamo quindi approfondito un aspetto delicato, posto al centro dell’attenzione dall’ex segretario della Cei Nunzio Galantino, che dichiarò che inserire il tema dell’immigrazione in un decreto sulla sicurezza è «un brutto segnale, perché non possiamo considerare la condizione degli immigrati come una condizione di delinquenza». Quasi un italiano su due (49%) dissente da Galantino, il 37% concorda con lui. È interessante che tra i credenti che partecipano alla messa tutte le domeniche, come tra quanti hanno una frequenza più saltuaria, le opinioni si dividono nettamente: tra i primi il consenso prevale 45% a 42%, tra i secondi 41% a 40%.
Da ultimo il sondaggio ha affrontato la legge sulla legittima difesa. Un italiano su due (51%, con punte più elevate tra i ceti più popolari) è convinto che sia indispensabile cambiare le norme attuali e legittimare sempre e comunque il diritto alla difesa personale; il 19% ritiene che le norme attuali siano equilibrate (perché prevedono un criterio di proporzionalità tra la difesa e l’offesa subita) e non vadano modificate, mentre il 16% si mostra preoccupato ed è del parere che si debba evitare di legittimare sempre e comunque la difesa personale con il rischio di cadere in una sorta di Far West. Il fatto che la proposta di ampliare i diritti alla legittima di difesa venga avanzata dal ministro degli Interni, che è preposto alla tutela della sicurezza dei cittadini, potrebbe essere considerata una dimostrazione di impotenza da parte dello Stato, una sorta di resa. Ma forse è una riflessione troppo sofisticata che collide con la tendenza alla semplificazione che di questi tempi si è affermata nel Paese, insieme alla incessante ricerca del consenso.
La Stampa 11.12.18
Proposta di Salvini
“Ai padri separati 400 euro ogni mese”
Vuole estendere la legge lombarda che tutela i genitori La onlus Figli negati: una chance per evitare la povertà
di Alberto Mattioli
Nell’inesauribile attivismo di Matteo Salvini si apre un nuovo fronte: quello del sostegno per i padri separati , categoria alla quale peraltro appartiene anche il ministro dell’Interno, benché sicuramente in grado di pagare gli alimenti ai due figli.
La novità è arrivata durante un’intervista a Radio Globo. Si parlava di uomini che subiscono violenza dalle donne, e Salvini ne ha approfittato per lanciare l’idea o meglio, per prendere in prestito quella già attuata della Lombardia: «La Regione dà 400 euro al mese di contributo ai padri separati. Conosco questa drammatica realtà e vorrei allargare a tutta l’Italia questo fondo. Con 400 euro si potrebbe fare la differenza e ridare dignità a un padre per rivedere i suoi figli».
In effetti, sui media si leggono spesso storie di papà ridotti in miseria da separazioni devastanti non solo dal punto di vista affettivo ma anche economico. «Troppi padri, troppi ex mariti vivono una vita ai margini, senza nessuno cui chiedere sostegno», dice Salvini. Tipo l’ex comico Marco Della Noce, già star di «Zelig» nei panni del capo meccanico Oriano Ferrari («Sochmacher!»), finito su tutti i giornali quando ha raccontato la sua odissea di padre rimasto senza lavoro e poi anche senza casa dopo il blocco dei beni deciso dal Tribunale su richiesta dell’ex moglie. E costretto per qualche tempo a dormire in macchina.
Insomma, il problema sicuramente esiste. Nella Lombardia leghista, che detiene il record nazionale di separazioni e divorzi, è stato istituito nel 2014 un Fondo di sostegno per genitori separati, ovviamente di entrambi i sessi. Consente di erogare un contributo per figlio fino a 2.400 euro per un periodo massimo di sei mesi: i famosi 400 euro. Fra i requisiti per ottenerlo, il genitore deve certificare un reddito inferiore a 15 mila euro all’anno e, dettaglio squisitamente leghista, dimostrare di essere residente in Lombardia da almeno cinque anni.
Ma soltanto a Milano i padri separati che vivono in condizioni di marginalità sarebbero, dati Istat, circa 50 mila.
Oltre al contributo, l’affitto
Quindi il Pirellone non si limita al sussidio. Nel maggio scorso, la Regione ha presentato due nuovi bandi a sostegno di genitori «soli», per un totale di sei milioni di euro: 4,6 come aiuto per gli affitti, e il resto come contributo a fondo perduto per la ristrutturazione di immobili. «Si tratta - ha spiegato il governatore, Attilio Fontana - di importanti misure a favore di genitori che rischiano di entrare nella categoria dei nuovi poveri».
Misure che ora Salvini, in questa specie di gara con gli alleati-avversari grillini a rendere il welfare più generoso , vorrebbe estendere a tutti i papà in difficoltà d’Italia. Che, ovviamente, gradiscono. Come Giorgio Ceccarelli, presidente delle associazioni «Figli negati» e «I love papà»: «Sicuramente la proposta di Salvini rappresenterebbe un’importante risorsa in più per quei padri che, dopo una separazione, si ritrovano loro malgrado sotto la soglia di povertà. Insomma, una possibilità in più per frequentare e seguire i figli, per continuare a fare i papà».
La Stampa 11.12.18
Lo Stato rimborserà solo i farmaci meno costosi
di Paolo Russo
Rivoluzione in arrivo per il prontuario farmaceutico. Tra i farmaci con stessa indicazione terapeutica e parità di efficacia lo Stato rimborserà solo quello con il prezzo più basso, salvo gli altri non taglino i loro listini. Fermo restando che il medico potrà prescrivere la pillola più costosa, motivando però la sua decisione. Un’operazione che varrebbe almeno 2 miliardi di euro secondo le stime dall’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, che su alcuni prodotti equivalenti ha registrato differenze di prezzo tra il 20 e il 30%, che appianate produrrebbero oltre 80 milioni di risparmio per due soli medicinali.
E in prontuario ce ne sono migliaia che potrebbero dare risparmi milionari. A dare il via all’operazione per liberare risorse da reinvestire nei costosissimi farmaci innovativi è il documento sulla governance farmaceutica elaborato dal gruppo di esperti nominato dal ministro della Salute Giulia Grillo.
Il prezzo più basso
Il meccanismo, già fissato da una delibera dell’Aifa del maggio scorso, tecnicamente prevede di fissare il prezzo di rimborso al livello più basso tra quelli al «4° livello di classificazione ATC». Che detta così la capiscono solo gli addetti ai lavori ma che spiegata con un esempio funziona in questo modo: se al primo livello ci sono tutti i farmaci per l’apparato digerente, al secondo gli antiacidi, al terzo gli antiulcera, al 4°livello troviamo gli «inibitori della pompa protonica», i diffusissimi medicinali contro il reflusso esofageo. In questa categoria sono in commercio cinque molecole con lo stesso meccanismo di azione ma a prezzi diversi. In futuro le regioni potranno rimborsare solo quello con il prezzo più basso, a meno che gli altri produttori non portino i loro listini a livello del medicinale più economico. Un’operazione che le stesse regioni hanno mostrato di condividere in precedenti incontri con il ministro della Salute.
«All’orizzonte – afferma il ministro Grillo- si stanno affacciando nuovi trattamenti che se realmente innovativi devono essere messi a disposizione dei pazienti. Per farlo è necessario allocare le risorse a nostra disposizione, per questo procederemo al riordino del prontuario secondo il principio “stessa valenza terapeutica, stesso prezzo”».
«Abbiamo un prontuario fatto al 70% di fotocopie e -si interroga il farmacologo Silvio Garattini, tra gli estensori del piano- ci si chiede se corrisponda alle esigenze di salute dei cittadini». La risposta l’ha già data nel documento .
il manifesto 11.12.18
Giulietti (Fnsi): «Un governo con le peggiori intenzioni, i giornalisti non chinano la testa»
Il presidente Fnsi. Crimi vuole difendere i giornalisti precari? Metta in atto la legge sull’equo compenso, nessuno glielo impedisce. Sia chiaro: l’ambizione di Odg e Fnsi è trattare con il governo, ma se non ci saranno i presupposti il prossimo passo sarà una grande manifestazione nazionale per chi vuole proteggere la Costituzione e l’articolo 21.
di Matteo Bartocci
ROMA «È un fatto molto importante essere scesi in piazza tutti insieme, ordine dei giornalisti, Fnsi, organismi nazionali e locali, associazioni, giornalisti di ogni testata, precari e non. È una risposta corale al governo: il giornalismo non china la testa». Beppe Giulietti, presidente della Fnsi, è un fiume in piena, sa che questo è solo un primo passo e non ha nessuna intenzione di fermarsi.
Giulietti ha sentito il sottosegretario Crimi? Voi siete la «casta», «non rappresentate più nessuno».
Parole che non stanno in piedi. Crimi vuole difendere i giornalisti precari? Metta in atto la legge sull’equo compenso. Chi glielo impedisce? Perché non lo fa? Faccia approvare la legge contro le querele temerarie. Se ha bisogno di fondi glielo proponiamo noi un emendamento dove trovarli. Invece no, comincia dai tagli ai giornali. Tagli che alla fine guarda caso colpiranno soprattutto due testate: il manifesto e Avvenire, che sono le due voci molto critiche su argomenti delicati per la maggioranza come l’accoglienza e la sicurezza.
Qualcuno vi rimprovera, dice che è facile protestare oggi quando al governo non c’è più il Pd.
A questo smemorato ricorderei che la prima volta che il “nuovo” ordine dei giornalisti e la Fnsi hanno sfilato insieme in piazza è accaduto sotto le finestre dell’allora sottosegretario Lotti per l’equo compenso e per la riforma dell’editoria.
Perché tornate a farlo oggi?
Oggi il nuovo governo non vuole solo abolire i contributi ai giornali, vuole proprio cancellare i giornalisti. Vogliono azzerare tutte le intermediazioni collettive, siano esse da parte di ong, di giornalisti, di cooperative, il pensiero critico. Bisogna osservarli: una furia ideologica sulla linea Bannon- Trump- Putin che mira a dissolvere le voci della differenza. Nessuno deve cascarci.
Crimi dice che ci sono più di 18mila testate registrate e che quindi il pluralismo non è a rischio.
Non lo deve spiegare alla Fnsi. Lo spieghi al capo dello stato. Sette interventi in un mese del presidente della Repubblica a difesa del pluralismo sono un unicum nella storia democratica di questo paese. Rassicuri il Quirinale, se può, non noi.
Che farete ora?
Intanto bisogna dire come stanno veramente le cose. Dovevano fare la legge sulla Rai e invece hanno applicato nel modo peggiore la legge Renzi. Dovevano fare la legge sul conflitto di interessi e invece colpiscono i giornali in cooperativa. Dovevano fare la riforma dei tetti pubblicitari ma intanto tolgono subito i contributi pubblici. Sia chiaro: l’ambizione di Odg e Fnsi è trattare con il governo, ma se non ci saranno i presupposti il prossimo passo sarà una grande manifestazione nazionale per chi vuole proteggere la Costituzione e l’articolo 21.
Corriere 11.12.18
Opere e autonomia
La lunga paralisi di un Paese
di Gian Antonio Stella
«È un dossier all’attenzione del governo. Ci siamo riservati di approfondire quanto prima». Sono passate solo un paio di settimane da quando Giuseppe Conte, l’«andreottiano del cambiamento», prese solennemente quel vago impegno sull’autonomia delle tre Regioni che attendono di ricevere la gestione d’una serie di materie. Eppure, ad ascoltare le fibrillazioni all’interno dei leghisti, in particolare quelli che detengono il nocciolo duro del partito, i lombardi e i veneti, pare passato un secolo.
Lo riconosce, sia pure pesando le parole per non dar fuoco al pagliaio (la sua «bio» su WhatsApp è: «S’io fossi foco, arderei lo mondo») la stessa ministra per gli Affari Regionali e le Autonomie Erika Stefani: «La prima domanda che mi fanno è sempre: allora, l’autonomia? La spinta è fortissima». L’ha detto e ripetuto anche l’altro giorno in Piazza del Popolo: «A quei milioni di veneti e lombardi che hanno chiesto l’autonomia bisogna dare una risposta. Sul mio tavolo ci sono ben 8 Regioni che hanno chiesto l’autonomia. E queste sono risposte che la politica e il governo devono dare. A un anno dal referendum noi i dossier li abbiamo aperti, noi le proposte le abbiamo fatte…». Ma?
Ma le risposte, ha fatto intendere, tardano ad arrivare. Come se potessero inquietare certe fasce di elettori pentastellati meridionali: e se poi si tengono «i schei»?
Ce rto, pochi giorni fa Luigi Di Maio è salito a Treviso a dire agli impazienti di star sereni: «L’autonomia del Veneto si deve dare il prima possibile, nei consigli dei ministri di dicembre…». La cessione delle competenze, però, soprattutto su certe materie come la salute o le infrastrutture, è assai più divisiva di quanto sia fin qui emerso. Nessuno ancora osa accusare certi ministeri di ostruzionismo. I lamenti per come le «macchine» dei dicasteri a guida grillina siano farraginose nel mettersi in moto, però, crescono giorno dopo giorno. Tanto più che dopo sei mesi di governo gialloverde la stessa impazienza ha contagiato tutte e tre le regioni in attesa. La Lombardia leghista di Attilio Fontana, il Veneto leghista di Luca Zaia, deciso a dimostrare di non essere arrendevole affatto davanti a un governo «amico» («Se non ci danno l’autonomia, siamo pronti a riempire le piazze», tuonava poche settimana fa) ma pure l’Emilia-Romagna democratica di Stefano Bonaccini. Il quale ha scelto un percorso diverso dal referendum ma pare risoluto a non mollare di un millimetro. Men che meno davanti a un esecutivo ostile. Fatto sta che i tre sono costretti a chiedersi: di concreto, oggi, cosa abbiamo in mano oltre al pre-accordo firmato a febbraio da Paolo Gentiloni? Fossero tempi normali, amen. Un mese più, un mese meno… Ma il clima, c’entri o no Satana come pensa il capo gabinetto del ministero per la Famiglia, è così surriscaldato che le impazienze sulle autonomie rischiano di sommarsi a tutto il resto. Il braccio di ferro con l’Europa, quota 100, il reddito di cittadinanza, la legittima difesa… Incendiando ulteriormente i rapporti. Tanto più che su temi diversi vanno a mischiarsi gli stessi insofferenti delle aree più vivaci, produttive e arrabbiate del Paese. Dicono molto le parole usate da Vincenzo Boccia, già scottato dalle critiche per la mezza investitura di Matteo Salvini, dopo l’incontro di domenica in Viminale: «Per la prima volta da sei mesi questo governo ci ascolta, abbiamo dialogato. Ora però aspettiamo fatti».
Troppo presto, per mettere una pietra sopra alle tensioni di queste settimane. Dallo sfogo del presidente degli imprenditori vicentini Luciano Vescovi («Questa è una bocciatura integrale per la politica economica ed infrastrutturale del governo, senza sconti») alle mobilitazioni di Confartigianato, fino alle parole dure dei sindaci veneti (di destra) schierati come lo stesso Luca Zaia dalla parte degli imprenditori furenti. Soprattutto quelli medio-piccoli come Bepi Covre, già deputato della Lega e fiero di non aver mai licenziato neanche nei momenti più bui: «Siamo sgovernati. Avanti così e scoppia la tempesta perfetta».
Ed ecco le invettive contro il decreto Dignità colpevole secondo le associazioni d’impresa di far perdere dal 1° gennaio, con ogni probabilità, migliaia di posti dopo anni di crescita che avevano spinto il Veneto (dati: Osservatorio del lavoro regionale) al 67,2% di occupati cioè nove punti più che nel resto d’Italia. E quelle contro la burocrazia che asfissia le aziende al punto che secondo la Cna ci vogliono «71 pratiche per un bar, 86 per un’officina» senza alcuna svolta rispetto al passato. E quelle ancora contro la paralisi imposta alle infrastrutture sulla scia dell’idea di Danilo Toninelli che, al di là dei torti e delle ragioni, dei processi e delle condanne, è inchiodato a quanto disse poco prima del crollo del ponte Morandi: «Tajani e tutti gli altri che blaterano su Tav si mettano l’anima in pace. La mangiatoia è finita». Come se ogni ponte, ogni galleria, ogni cavalcavia, ogni strada siano stati sempre inquinati dalla corruzione. Tesi ribadita ieri dal titolo del Fatto sulla riunione al Viminale (questa sì discutibile) dopo la manifestazione No-Tav di Torino: «E Salvini chi riceve il giorno dopo? Gli affaristi del Sì». Tutti «affaristi»? Mah…
Dice il vicepremier grillino, in polemica col dirimpettaio leghista: «Ieri da lui c’erano poco più di dieci sigle, domani noi ne riuniamo oltre 30 di tutti i comparti. Ieri hanno fatto le parole e i fatti si fanno al Mise, perché è il Mise», cioè il ministero per lo sviluppo economico, «che si occupa delle imprese». Risposta del secondo gallo del pollaio gialloverde: «A me interessa la sostanza, io incontro, ascolto, trasferisco, propongo, miglioro poi a me interessa che il governo nel suo complesso aiuti gli italiani. Ognuno fa il suo». Campagna elettorale permanente. Se poi resterà del tempo…
Corriere 11.12.18
L’Unione, il nostro destino
di Aldo Cazzullo
Da ieri l’accordo tra Londra e l’Europa non esiste più. Eppure proprio i fatti drammatici di questi giorni confermano che l’Europa è ineluttabile.
L a si può e la si deve cambiare, riformare, rifondare; ma l’Europa è più che mai il nostro destino. Pure per gli inglesi, che non riescono a lasciarla, e non lo faranno mai del tutto.
La settimana di dibattito a Westminster è stata un esame di coscienza collettivo. L’autobiografia di una nazione, avrebbe detto Gobetti. Aperta da un voto storico, in cui molti conservatori si sono uniti all’opposizione per censurare il governo e accusarlo di aver mancato di rispetto al Parlamento. La colpa di Theresa May era di non aver pubblicato integralmente i documenti della trattativa con l’Europa. Subito dopo i Comuni hanno approvato una mozione che consente loro di modificare il «deal», l’accordo con Bruxelles, vanificando la strategia della premier, basata sull’alternativa «o accordo o nulla». In due mosse il Parlamento britannico ha confermato la propria centralità; proprio nelle ore in cui a Parigi la polizia ricorreva a ogni durezza per reprimere la rivolta di piazza, in Germania gli assetti politici cambiavano non al Bundestag ma in un congresso di partito, e in Italia la Camera era chiamata a votare la fiducia a una manovra immaginaria, restando quella vera ancora da scrivere. In sostanza, il Paese che ha inventato il Parlamento ha ricordato al mondo che la democrazia rappresentativa rimane la peggior forma di governo, tranne tutte le altre.
Esiste però anche la democrazia diretta. Che si è espressa con il referendum del 23 giugno 2016. Dal dibattito, cui hanno partecipato direttamente o indirettamente le principali istituzioni finanziarie e culturali del Paese, è emerso con chiarezza che la classe dirigente britannica considera la Brexit un pasticcio che può diventare un disastro. L’hanno capito anche molti che la Brexit l’avevano sostenuta, magari per cavalcare la tigre del malcontento popolare, da Boris Johnson allo stesso Jeremy Corbyn, sempre molto tiepido sull’Europa per non precludersi la chance di conquistare Downing Street.
Però le ragioni che hanno indotto il 52% a votare per il Leave sono ancora lì, intatte. A cominciare dalla più importante: la tutela del lavoro, della specificità, dell’identità britannica. Londra non è più una città inglese ma la capitale del mondo multiculturale; infatti Londra è contro la Brexit; ma gran parte del Paese non riconosce più la propria capitale, così com’è diventata. Molti sono contrari alla libera circolazione dei lavoratori, arrivati a centinaia di migliaia dal Sud e dall’Est dell’Europa, in particolare da Italia e Polonia. Molti, ancora scossi dalle immagini della giungla di Calais abitata da africani in attesa di passare la Manica, temono che i flussi migratori arrivino fin qui. Più in generale, l’Europa è pensata come una gigantesca costruzione burocratica in mano ai tedeschi; e molti inglesi non vogliono saperne di obbedire al popolo che hanno sconfitto in due guerre mondiali.
Eppure uscire dal mercato comune europeo non conviene neppure a loro. Ridurre l’interdipendenza finanziaria non è certo nell’interesse della più grande fabbrica di ricchezza, la City. Ostacolare l’arrivo di studenti dall’Europa penalizzerebbe la seconda industria di Londra, l’istruzione. Fermare i lavoratori d’Oltremanica danneggerebbe le multinazionali della ristorazione e dei servizi. Infine, toccare la frontiera tra l’Ulster e la Repubblica d’Irlanda, che resterebbe in Europa a pieno titolo, significa evocare il fantasma di una guerra secolare; e proprio su questo scoglio si è arenata la May.
A rendere ancora più interessante la questione è la parabola di Nigel Farage. Il paladino della Brexit è uscito dal partito che lui stesso aveva fondato, in polemica con la deriva di estrema destra. Farage è un nazionalista britannico, ma è anche un sincero liberale. In ufficio ha la foto di Margareth Thatcher. Un movimento xenofobo e antislamico non gli interessa; il suo obiettivo resta dividere i conservatori e rifondarli su basi antieuropee. Non ci riuscirà; ma è consolante pensare che pure il populismo trova in Inghilterra un suo «modus», un metodo, un limite.
A questo punto può succedere di tutto. Un nuovo accordo. O anche un nuovo referendum. Ma una cosa è chiara: se non sarà possibile un ripensamento, una qualche forma di legame con l’Europa è inevitabile. E questo dovrebbe far riflettere gli anti-europei di casa nostra. All’uscita dall’euro i 5 Stelle sembrano aver rinunciato. La sovranità monetaria rimane il sogno proibito di qualche apprendista stregone della Lega. Ma Salvini non parla più di far saltare l’Europa, semmai di riorientarla sull’asse popolare-populista, sostituendo i socialisti come partner di un’alleanza meno ossessionata dall’austerity e più attenta alle identità nazionali e agli interessi dei ceti produttivi. È un progetto che può rivelarsi una velleità, di fronte alla tenuta tedesca. Di sicuro, al tempo dei Trump e dei Putin, dell’impero cinese e dell’avanzata islamica, pensare di fare del tutto a meno dell’Europa è un errore che neanche gli inglesi possono permettersi.
Repubblica 11.12.18
Re David:"Landini porta testa e cuore nella nuova Cgil"
La leader Fiom: noi indipendenti da tutti sul governo valuteremo nel merito
di Marco Patucchi
ROMA «Testa e cuore». Francesca Re David sintetizza in due parole la candidatura di Maurizio Landini alla guida della Cgil. Alla vigilia del congresso nazionale della Fiom e in vista di quello che sancirà, a fine gennaio, il cambio di guardia al vertice della confederazione, la leader dei metalmeccanici spiega la svolta che potrebbe portare il suo predecessore sulla poltrona di Susanna Camusso. E valuta nel merito le politiche del governo gialloverde. «A volte con loro ci siamo ritrovati — dice Re David — penso ad alcune vertenze aziendali come l’Ilva o alla reintroduzione di certi ammortizzatori. La manovra, invece, trascura industria, lavoro e welfare. La Fiom comunque è indipendente da padroni e politica: valuteremo di volta in volta le risposte alle nostre istanze. Piuttosto voglio sottolineare lo slogan del nostro congresso: "Per l’uguaglianza".
Perché la frantumazione del lavoro è lo strumento che le imprese usano per indebolire la rappresentanza. E la guerra al migrante è la massima espressione della guerra tra lavoratori ».
Sul decreto dignità di Di Maio, lei parlò di una "inversione culturale apprezzabile". Lo pensa ancora davanti al turnover del precariato che ha prodotto?
«Confermo, si è trattato di un’inversione di tendenza. I risultati li vedremo quando ci saranno. Ma è evidente che un decreto non basta, anche perché è stato distorto dalle imprese, spesso propense ad aggirare le regole».
Anche il progetto "quota cento" nelle pensioni sembra in linea con le posizioni della Cgil…
«Se anche soltanto dieci lavoratori che prima non potevano, riusciranno ad andare in pensione, io sarò contenta. Ma è una bugia presentarla come la riforma della legge Fornero. È solo un segnale, insufficiente».
Fa effetto ascoltare un sindacalista che non sbarra la porta al governo populista...
«Non mi sfugge che ci troviamo di fronte ad un governo venato da pericolose identità nazionaliste e da derive razziste. Si tratta di movimenti politici che hanno scavalcato i corpi intermedi riempendo il vuoto della disintermediazione. Ma quel vuoto lo hanno creato le classi dirigenti che si sono succedute negli ultimi decenni: in particolare un centrosinistra totalmente scollegato dalle perone, dai lavoratori, dai giovani. Dalla difesa dei diritti. Come dimostra il caso dei gilet gialli francesi, la solitudine produce la rivolta invece che il confronto».
Anche il sindacato in questi anni è sembrato lontano dalle persone…
«La Cgil ha mantenuto la barra dritta della rappresentanza. Con difficoltà, ma lo ha fatto combattendo la frammentazione del mondo del lavoro e gli attacchi delle imprese e della politica.
Ricordo la campagna per la carta dei diritti e il referendum sul Jobs Act. E il frutto di questo impegno si vedrà anche al prossimo congresso che sarà largamente unitario».
Perche Landini?
«Perché lui nella squadra della segreteria confederale rappresenta al meglio il documento sul quale converge oltre il 98% della Cgil.
Tiene insieme le idee dei dirigenti e il sentimento della base. Testa e cuore, appunto».
Corriere 11.12.18
Migranti, il global compact
serve a non rimanere soli
di Goffredo Buccini
Alla fine la nostra sedia è rimasta vuota. Il dibattito sul Global Compact per le migrazioni, oggetto della conferenza intergovernativa dell’Onu ieri e oggi a Marrakech, è scivolato su una china faziosa dalla quale il più danneggiato può essere proprio il nostro Paese tra i 15 contrari (contro 164 favorevoli).
Matteo Salvini, ormai vero azionista di maggioranza del governo, ha smentito Giuseppe Conte e cancellato su due piedi gli impegni da lui presi davanti all’intero consesso internazionale poche settimane prima, con un doppio no: no alla nostra partecipazione al summit e soprattutto no alla firma del documento che sancisce l’accordo. Sulla firma, certo, la decisione definitiva dovrebbe toccare al nostro Parlamento, così almeno ha specificato Conte: «Marrakech non sarà l’ultima occasione per esprimere una nostra valutazione». Il Global Compact, passato ieri per acclamazione, dovrà essere infatti ratificato dal voto dell’Assemblea generale Onu il 19 dicembre. Ma è lecito dubitare che il nostro Parlamento, sotto manovra economica, torni a occuparsene prima d’allora, restando così quest’ipotesi solo un comprensibile tentativo del premier di salvare almeno un’oncia di prestigio personale (s’era pronunciato con convinzione per il sì, promettendo l’appoggio italiano all’Onu lo scorso 26 settembre). Ove mai arrivasse in tempo utile, non è difficile immaginare quale sarà il responso parlamentare: i Cinque Stelle, pur tentati da uno strappo clamoroso, si sono sempre accodati alla Lega in tema di migranti.
Il problema è che in questa giravolta, comunicata bruscamente da Salvini nell’aula di Montecitorio, si vede assai poco di quel buonsenso e di quel pragmatismo «popolano» che il leader leghista ama attribuire alle proprie decisioni. E questa decisione, per quanto prevedibile nel suo portato simbolico, meritava un supplemento di cautela poiché, così, appare dettata in toto dall’ideologismo e — per restare pragmatici — pregiudicherà non poco la nostra posizione internazionale.
Sull’accordo intergovernativo volto a costruire una piattaforma mondiale condivisa per la grande questione migratoria, sono state diffuse almeno due notizie non vere.
Programma
Gli obiettivi sostenuti sono la ripartizione,
il rimpatrio e la difesa comune delle frontiere
La prima, che ci vincoli a fare qualcosa, ovvero che intacchi la sovranità nazionale in tema di migrazioni. Come chiarito dal ministro Moavero a domanda di Giorgia Meloni, il Global Compact non è vincolante, (articolo 7 del preambolo, «non-legally binding»), e «sostiene la sovranità degli Stati» (medesimo articolo), pur rammentando un banale dato di fatto: non c’è Stato che possa cavarsela senza aiuto in questa prova epocale. Se davvero, come prevedono gli studiosi delle migrazioni di massa, nei prossimi quattro decenni dovremo farci carico di un miliardo di sfollati, è palese che nessuno si salverà da solo (e noi meno di altri, coi nostri settemila chilometri di coste). La seconda inesattezza è affermare che il documento internazionale metta rifugiati e migranti economici sullo stesso piano. All’articolo 4 le due categorie hanno ovviamente stessi diritti umani universali ma sono «gruppi distinti regolati da sistemi legali differenti».
Certo, ci sono nel testo enunciazioni di pura solidarietà, richiami a dialogo, cooperazione, dignità delle persone, ma siccome è assai difficile schierarsi contro principi così ovvi (sarebbe come confessare l’odio per Babbo Natale) si manda la palla in tribuna. Possono esserci, sì, passaggi precisi che stridono con la linea del governo gialloverde: percorsi per l’immigrazione regolare, impegno a salvare i migranti in pericolo... ma a nulla di questo fa riferimento Salvini. Chi può, del resto, schierarsi apertamente contro l’immigrazione regolare (serve alla nostra economia e agli imprenditori del Nord, elettori leghisti) o ergersi pubblicamente contro i salvataggi di vite umane? Il cortocircuito è evidente.
Il Global Compact riafferma piuttosto concetti che potrebbero tradursi per noi in un supporto prezioso nei contenziosi con i nostri partner europei: in primis la ripartizione dei migranti, il loro rimpatrio e la difesa comune delle frontiere. Appare assai singolare battersi in Europa, sostenendo (non a torto) che siamo stati lasciati troppo soli sull’immigrazione, e poi rifiutarsi di sedere in un consesso internazionale come Marrakech, dove si è discusso appunto di come non restare più soli (e dove si sarebbero potute ribadire le nostre buone ragioni), allineandosi infine al gruppo di Visegrád che è sempre stato il più ostile contro di noi nella redistribuzione dei profughi. Questa contraddizione può costare cara all’Italia da qui ai prossimi anni: punendone l’incapacità di spingere lo sguardo appena oltre i prossimi mesi (e le prossime elezioni).
il manifesto 11.12.18
Israele che caccia i migranti accoglie Salvini con tutti gli onori
Italia/Israele. Oggi e domani la visita a Gerusalemme del vicepremier italiano. Netanyahu gli riserva il tappeto rosso. L'attivista Sigal Avivi: non si può usare lo Yad Vashem per ripulire la coscienza di razzisti e antisemiti che si proclamano amici di Israele
di Michele Giorgio
GERUSALEMME Sigal Avivi ha fatto dei diritti dei migranti e dei richiedenti asilo giunti da Sudan, Eritrea ed Etiopia la sua ragione di vita. Si è battuta in ogni modo contro il piano di espulsione degli africani, le cosiddette “partenze volontarie” incentivate dal governo Netanyahu. E un anno fa è andata in Africa per indagare sulla sorte di chi, per sfuggire al carcere in Israele, ha “scelto” di farsi portare in Ruanda, uno dei paesi che, in segreto, si è detto disposto a ricevere gli espulsi dallo Stato ebraico. Non sorprende che l’attivista israeliana contesti con forza la visita in Israele, oggi e domani, del vicepremier e ministro dell’interno italiano Matteo Salvini. «Non si può accogliere un ministro come Salvini che chiude i porti dell’Italia alle navi delle Ong che hanno raccolto in mare civili, spesso donne e bambini, che scappano dalla fame o che hanno rischiato la morte in guerre e altri orrori nei loro paesi d’origine» spiega al manifesto.
Avivi non condanna solo Salvini. Quella dell’attivista israeliana è una critica feroce rivolta al premier Netanyahu, pronto ad abbracciare esponenti della destra occidentale populista e razzista, come l’ungherese Victor Orban, e che si compiace del rapporto strettissimo che mantiene con Donald Trump che della lotta agli “alieni” ha fatto la sua bandiera. Ieri ha fatto il giro della rete la caricatura che Avivi ha postato su Facebook, in cui si vede Salvini che viene “sbiancato” nella “lavatrice Yad Vashem”. Il passaggio per il Memoriale dell’Olocausto di Gerusalemme, afferma l’attivista, «è usato da Netanyahu per trasformare in sinceri amici di Israele personaggi che si sono distinti non solo per gli attacchi a profughi e richiedenti asilo ma anche per atteggiamenti e dichiarazioni antisemite. La memoria della Shoah – aggiunge Avivi – non deve essere manipolata per gli interessi politici di Netanyahu. Esorto i responsabili dello Yad Vashem a non permettere questo uso distorto del Memoriale». Avivi oggi parteciperà con altri israeliani a una protesta contro Netanyahu e l’arrivo di Salvini al Memoriale dell’Olocausto.
Tuttavia il modo di fare del primo ministro israeliano sembra scuotere solo correnti marginali delle comunità ebraiche in Europa e Reuven Rivlin, il presidente israeliano. Rivlin per «motivi di agenda» non riceverà Salvini ma il quotidiano Haaretz – che da giorni contesta con editoriali ed articoli la visita del ministro dell’interno italiano – ha collegato il mancato incontro alle recenti dichiarazioni alla Cnn in cui il capo dello stato, non parlando in particolare della Lega, ha detto che i movimenti e partiti neofascisti non dovrebbero essere ben accetti in Israele. «Tu non puoi dire “ammiriamo Israele e vogliamo legami stretti ma siamo neo-fascisti”», ha spiegato Rivlin.
Registrato lo sdegno di alcuni israeliani e di pochi membri delle comunità ebraiche all’estero, va anche sottolineato che Salvini sarà ricevuto con tutti gli onori in Israele e che le sue politiche e le sue idee non turbano affatto la maggioranza dell’opinione pubblica israeliana. Perché riflettono quelle che, dettaglio in più dettaglio in meno, la destra al potere in Israele attua già da tempo contro i rifugiati africani. Gran parte degli israeliani approvano le espulsioni, anche con la forza, di migranti e richiedenti asilo varate da Netanyahu e di conseguenza non possono essere contro le politiche analoghe adottate in Italia dal governo M5S-Lega, di cui Salvini è solo l’espressione più brutale.
Il vicepremier italiano, che era già stato in visita in Israele come segretario della Lega nel marzo del 2016, arriverà a Gerusalemme nel primo pomeriggio. Incontrerà la comunità ebraica italiana e si recherà alla sinagoga italiana. Quindi è prevista la visita allo Yad Vashem. In serata farà un punto stampa all’hotel King David a Gerusalemme. Domani mattina sarà ricevuto da Netanyahu. Qualche ora dopo ripartirà per l’Italia. A riprova dei rapporti stretti e cordiali con Tel Aviv, che intende rafforzare ad ogni livello, Salvini vedrà anche il ministro della pubblica sicurezza Ghilad Erdan, della giustizia Ayelet Shaked e del turismo Yariv Levin.
il manifesto 11.12.18
Neofascisti «ripuliti» nella formidabile lavanderia di Netanyahu
Israele-Italia. Polacchi, austriaci, ungheresi, italiani, neonazisti, fascisti, antisemiti che vogliano pulire la propria immagine, possono farlo grazie alla formidabile lavanderia del premier israeliano: non faremo storie sul vostro antisemitismo e sul passato tenebroso, basteranno alcune prese di posizione pro-israeliane e diventerete parte del club degli smemorati. Basta accettare la logica della guerra, dell’occupazione, della politica aggressiva del governo israeliano
di Zvi Schuldiner
Il vicepresidente del consiglio dei ministri italiano Matteo Salvini arriva oggi in Israele. Il premier israeliano lo accoglierà a braccia aperte, l’estrema destra lo abbraccerà entusiasta. Certo il Salvini che festeggiava il compleanno del padre delle leggi razziali in Italia con il motto «molti nemici molto onore» saprà come comportarsi al museo dell’Olocausto. Un altro ammiratore del duce visiterà Yad Vashem.
Per fortuna, in questi giorni il presidente Rivlin è molto occupato e non ha tempo per Salvini. Rivlin, un uomo dichiaratamente di destra che in questo periodo è fra i pochi che ancora difendono alcune regole della democrazia liberale, ha recentemente dichiarato che comprende le necessità politiche dello Stato ma che occorre mettere un limite all’accettazione di forze neofasciste. Il capo dello Stato non si riferiva ai vari Salvini. Senza dirlo esplicitamente prendeva le distanze dalla linea che caratterizza l’attuale governo israeliano.
Yad Vashem, il noto museo dell’Olocausto a Gerusalemme, ha già ricevuto visitatori particolari, alcuni francamente neofascisti, altri che cercavano di nascondere le proprie radici neonaziste. C’è chi è stato ricevuto con tutti gli onori, c’è chi si è dovuto accontentare di alcuni israeliani «realistici» e «patriottici» dell’estrema destra.
Polacchi, austriaci, ungheresi, italiani, neonazisti, fascisti, antisemiti che vogliano pulire la propria immagine, possono farlo concretamente grazie alla formidabile lavanderia del premier israeliano Benjamin Netanyahu. Non staremo a far storie sul vostro antisemitismo e sul passato tenebroso: basteranno alcune prese di posizione pro-israeliane e diventerete parte del club degli smemorati. Basta accettare la logica della guerra, dell’occupazione, della politica aggressiva del governo israeliano.
I polacchi vogliono pulire le macchie del proprio passato con una legge che lo riformuli: fummo vittime, quasi come gli ebrei. Una storica di Yad Vashem ha dato loro una mano, firmando un discutibile documento congiunto. Ma tanto Yad Vashem quanto gli storici più importanti dell’Olocausto hanno reagito con indignazione, chiarendo che, benché si debba distinguere fra tedeschi e polacchi, non è possibile nascondere l’antisemitismo e i crimini orribili compiuti anche da questi ultimi.
E in Ungheria, quando Miklosh Horty arrivò al governo nel 1920, fu un boom di leggi antiebraiche. Alleato di Hitler, quando iniziò l’attacco contro l’Urss consegnò ai tedeschi 18mila rifugiati ebrei. Nel 1944 aiutò Adolf Heichmann a mandare a morte oltre 400mila ebrei e solo la minaccia del presidente statunitense interruppe queste partenze, perché Horty capì che aveva in mano una carta da giocare: la sorte di 100mila sopravvissuti. Viktor Orbán, grande amico di Netanyahu e una delle guide del movimento antidemocratico in Europa, è un grande ammiratore di Horty e del «luminoso» passato dell’Ungheria. Vuole un museo dell’Olocausto, dai contenuti «favorevoli» alla storia dei «bravi ungheresi».
Dirigerà il museo una figura problematica come Mária Schmidt, definita dai suoi critici «la storica di palazzo di Orbán». I tentativi di dialogo con Yad Vashem e gli storici israeliani sono falliti. Schmidt dirige anche Figyelov, un settimanale che ha pubblicato una copertina nettamente antisemita con la foto di Heisler, leader della comunità ebraica in Ungheria.
Di fronte alle proteste internazionali, il premier ha dichiarato: «Da noi c’è la libertà di stampa». Heisler si è recato in Israele ma il premier non ha avuto tempo di incontrarlo. Lo ha ricevuto invece il presidente Rivlin.
Ma viene offerta solidarietà agli ebrei di fronte ad attacchi antisemiti? In Ungheria, o quando uno statunitense ha assassinato undici fedeli che pregavano in una sinagoga a Pittsburg? Sì, ma. Sì, ma Donald Trump lotta contro l’antisemitismo, Orbán è un grande amico e ci aiuta a costruire un’alleanza internazionale molto equilibrata che si batte per Israele, contro il terrorismo islamico, e contro gli antisemiti di sinistra.
Israele attraversa una fase preoccupante che non minaccia solo la pace nella regione. Il cancro del razzismo si sta espandendo in modo preoccupante. Due anni fa un generale dell’esercito si è giocato la carriera per aver messo in guardia pubblicamente contro i pericolosi processi in corso, che gli ricordavano l’Europa degli anni 1930. Domenica scorsa il noto intellettuale Yaron Mondon, che conduce un programma giornaliero su Canale 10, ha presentato un’inchiesta dal risultato inquietante.
Dopo l’indagine della Cnn sull’antisemitismo in Europa che ha tanto preoccupato i leader israeliani ed europei, il suo programma ha rivolto a israeliani domande simili, ma riguardo al loro atteggiamento nei confronti dei palestinesi, nella vita quotidiana, casa, studio ecc. Ebbene, com’era prevedibile, la paura e il conflitto alimentano un razzismo crescente; siamo ormai più razzisti degli europei!
Il fascismo si sta radicando sempre più in questa società che vede ogni giorno distruggere il tessuto di un sistema democratico che è sempre più etnocratico. Una «grande democrazia» per gli ebrei, con due milioni di cittadini arabi discriminati e altri quattro milioni di persone sotto occupazione e sprovviste dei più elementari diritti umani, politici e sociali. La destra israeliana darà dunque il benvenuto a Salvini che porta con sé l’atmosfera sempre più cupa di un’Europa minacciata dalle destre razziste e fasciste.
La Stampa 11.12.18
La Rivoluzione di velluto conquista il 70% dei voti
di Giuseppe Agliastro
il leader della Rivoluzione di Velluto, Nikol Pashinyan, ha stravinto le elezioni parlamentari in Armenia. La sua alleanza ha raccolto oltre il 70% delle preferenze e si appresta a dominare la nuova Assemblea Nazionale, completamente ridisegnata dal voto anticipato. Pashinyan corona così la sua ascesa, iniziata ad aprile con le proteste pacifiche a Yerevan per scongiurare il rischio che l’ex presidente Sargsyan detenesse il potere a vita. I risultati del voto non cambieranno la politica estera dell’Armenia, che resta nella sfera di influenza del Cremlino. Dimostrano però che l’attuale premier ad interim gode di un’enorme popolarità. Adesso per lui arriva la parte più difficile: mantenere le promesse fatte alla folla la scorsa primavera. Pashinyan si è impegnato a rilanciare l’economia, creare posti di lavoro, estirpare la corruzione e garantire elezioni libere.
Quest’ultimo obiettivo è stato in parte già centrato. In Armenia le elezioni in passato sono sempre state caratterizzate da irregolarità e compravendita di voti. Domenica, invece, secondo gli osservatori dell’Osce, sono state rispettate le libertà fondamentali degli elettori e c’è stata «una genuina competizione». Una svolta per questa repubblica ex sovietica del Caucaso di 3 milioni di abitanti. Ma Pashinyan dovrà lavorare anche per riavvicinare gli armeni alla politica. L’affluenza alle urne è infatti stata piuttosto bassa, attorno al 49% degli aventi diritto.Le elezioni sono state un trionfo per Pashinyan e una sonora batosta per i suoi avversari del Partito Repubblicano. L’ex partito di maggioranza ha incassato il 4,7% dei voti e non ha quindi superato la soglia di sbarramento del 5%. Potrebbe però aggiudicarsi lo stesso alcuni dei 101 seggi in palio perché la Costituzione prevede che almeno il 30% dei deputati appartenga all’opposizione. Pashinyan ha fatto mangiare polvere anche a un altro partito dell’ex coalizione di maggioranza: Armenia Prospera, guidato dall’imprenditore ed ex campione di braccio di ferro Gagik Tsarukyan, che si è fermato all’8%. I filo-occidentali di Armenia Brillante hanno raccolto invece il 6%.
Mosca in generale non vede di buon occhio proteste e rivolte, come quella guidata dall’ex giornalista la scorsa primavera. Con Pashinyan, Yerevan non dovrebbe però abbandonare l’alleanza con Mosca. La Russia ha due basi militari in Armenia e Yerevan fa affidamento su di lei come garante nel conflitto del Nagorno-Karabakh. Ieri Pashinyan ha ribadito la sua posizione: l’Armenia - ha detto - non vuole entrare nella Nato.
il manifesto 11.12.18
La Nuova via della seta di Pechino attrae e spaventa l’Ue divisa
Cina globale. Dopo Grecia e Ungheria di recente anche il Portogallo ha firmato l’intesa con Pechino. L’Italia non ha una posizione chiara. Il M5s spinge verso la Cina, la Lega è più critica
di Simone Pieranni
Il Portogallo ha firmato un memorandum d’intesa con la Cina per quanto riguarda il progetto di Nuova via della Seta, la rete di connessioni commerciali e infrastrutture ideata da Pechino che dovrebbe toccare oltre 60 paesi.
Prima di Lisbona questo tipo di accordo era stato firmato dall’Ungheria, nel 2015 e più di recente, ad agosto di quest’anno, dalla Grecia. Portogallo, Grecia, due paesi dell’area euro, l’Ungheria, membro Ue.
TRE PAESI ACCOMUNATI da crisi economiche che con diversa intensità hanno provocato scossoni politici, da cui sono dipese le modalità con cui i tre stati sono usciti dalle sabbie mobili finanziarie. Ma tutti e tre hanno scelto di aderire alla Nuova via della Seta, nonostante lo scetticismo occidentale e delle potenze regionali, Francia e Germania in primis.
In Cina la recente firma del Portogallo, avvenuta il 7 dicembre, è stata salutata con entusiasmo: il Portogallo è considerato il «primo paese dell’Europa occidentale» ad accettare, di fatto, la nuova idea di globalizzazione cinese.
Nel 2016 al 54° convegno mondiale dell’economia mondiale, il governatore della banca centrale ungherese, György Matolcsy, aveva detto che Budapest è da sempre un «paese chiave» della via della Seta perché collegata al Pireo e quindi in grado di permettere tratte commerciali più economiche, rispetto al percorso italiano (dando per scontato dunque che Genova e Venezia siano fuori dai giochi). Durante l’intervento aveva sottolineato inoltre come la Banca d’Ungheria fosse stato il secondo paese europeo a contrarre uno stretto accordo con la Banca centrale cinese. Il primo paese a farlo era stato la Gran Bretagna. Le nazioni con le quali la Cina ha raggiunto una prima forma di accordo sono tutti uniti da una distanza dall’Ue – pur con diverse sfumature – evidente. La stessa Londra, secondo partner europeo di Pechino, dalla Brexit in avanti ha fatto immensi sforzi per attrarre i cinesi. Analogamente, la vecchia Europa – che pare così critica nei confronti della Cina – non è stata da meno: oltre a Theresa May, sia Merkel, Macron, Conte, e il premier olandese si sono recati in Cina nei primi sei mesi del 2018.
L’ACCORDO FIRMATO dal Portogallo, uno di diciassette memorandum di cooperazione che, oltre a un nuovo Istituto Confucio a Oporto, prevedono cooperazione soprattutto nel settore scientifico, delle tecnologie e dello spazio, riguarda l’Europa e anche – di conseguenza, l’Italia. L’opinione diffusa è infatti la seguente: 27 su 28 diplomatici di paesi Ue (esclusa guarda caso l’Ungheria) avevano bocciato la Nuova via della Seta cinese, accusando Pechino di voler minare l’unità dell’Unione.
In molte cancellerie si ritiene che tanto la Cina, quanto la Russia, stiano scommettendo sulle elezioni del maggio 2019, per vedere sfaldarsi l’Unione europea. Ma va altresì chiarito che Pechino in realtà non sembra avere questo atteggiamento, né tanto meno la speranza di un’Europa alla deriva politica. Innanzitutto la Cina non ama i cambiamenti repentini e anzi teme le forzature; in secondo luogo la Cina ha una concezione del tempo differente dalla nostra: in questo momento la dirigenza cinese punta al 2049, centenario della Repubblica popolare, per andare a verificare lo stato dell’arte della Nuova via della Seta. Pechino ha tempo.
TERZO FATTORE: LA CINA circonda, contiene ma non cerca uno scontro frontale. Il dinamismo di Pechino con molti paesi europei orientali, concretizzato nel gruppo «16+1», non esprime azioni volte a spezzare l’Ue, bensì a circondare il cuore dell’Europa. Xi Jinping sa bene che la svolta arriverebbe con la firma di un documento di intesa per la Nuova via della Seta con un paese «storico», con una potenza regionale e centrale della Ue.
E tutto fa pensare che Pechino abbia in mente proprio noi, l’Italia. Ma per farlo non ha bisogno che l’Ue si disintegri: Xi sarà sicuramente attento all’appuntamento elettorale di maggio per comprendere il terreno di gioco, perché l’Europa ormai assomiglia a un campo di conquista dove le tre potenze mondiali – Cina, Russia e Usa – cercheranno sbocchi e affari, ma Pechino sta proseguendo sulla sua strada anche con l’Europa unita, così come è adesso. La capacità di adattarsi alle circostanze riscontrate è un’altra importante caratteristica strategica della Cina.
DA TEMPO GIRA VOCE di una possibile firma di un memorandum sulla Nuova via della Seta proprio da parte di Roma. A questo proposito, una volta constatato come questi argomenti non risultino interessanti per i nostri politici, perché presuppongono la necessità di studiare e comprendere quale sarà il nostro futuro prossimo, bisogna registrare ancora una volta la totale mancanza di chiarezza da parte di questo governo, per niente «del cambiamento» in fatto di politica estera: l’Italia continua a non avere una strategia diplomatica chiara, si barcamena tra rincorse e rifugi sicuri atlantisti.
Un esempio della confusione che sembra regnare a Roma è recente: mentre il ministero dello sviluppo economico ha messo in piedi una task force sulla Cina, con viaggi di ministri e sottosegretari, Salvini ha attaccato la Cina per le sue «politiche» africane: siamo in una fase in cui dovremmo capire quale strada intraprendere per affrontare al meglio questo mondo multipolare.
Gli elementi suggeriscono che si dovrebbe insistere per fare sì che la ragnatela europea diventi davvero un riparo dai guai internazionali e un’opportunità, nonché il terreno di battaglie di natura sociale e politica legata ai diritti del lavoro e dei migranti. Invece si procede a spanne. E a sinistra non sembra andare meglio, anzi. Per una volta grande è la confusione sotto al nostro cielo. E la situazione eccellente pare essere di casa a Pechino.
il manifesto 11.12.18
«Roma», Netflix, il box office e la corsa agli Academy Awards
Cinema. Fa discutere la scelta della piattaforma streaming di non comunicare i dati sul botteghino
di Giovanna Branca
Non solo in Italia il mistero sulle cifre del box office di Roma di Alfonso Cuarón ha creato malumori: negli Stati Uniti la politica di Netflix – che per scelta non comunica i dati sullo streaming dei suoi prodotti, e in questo caso sugli incassi in sala – è uno degli ostacoli che si frappone fra il film e la sua ormai chiacchieratissima corsa agli Oscar.
LA SPERANZA del colosso dello streaming di vincere con Roma la sua prima statuetta è dopotutto la ragione principale per cui Netflix ha soprasseduto nella distribuzione del film di Cuarón su un’altra delle sue regole ferree: l’uscita in contemporanea nei cinema e sulla piattaforma.
A Hollywood però, ben più che in Italia o nel resto del mondo, il box office ha un suo peso non da poco nell’assegnazione dei premi. Non a caso la principale rivista dell’industria Usa, «Variety», in una sua analisi sui favoriti della corsa agli Oscar evidenzia come molti dei contenders di quest’anno non abbiano un box office stellare – con l’eccezione di Black Panther, con un botteghino vicino al miliardo e mezzo di dollari e che era stato indicato come il film sul quale l’Academy aveva ritagliato la nuova categoria – poi «rimangiata» per le troppe polemiche – dell’Oscar al film popolare. Ma per quanto quest’anno sia inferiore alle aspettative il box office, il gradimento del pubblico, è chiaramente uno degli aspetti su cui l’industria ragiona – uno dei termini dell’equazione da cui poi vengono tratte le somme e scelti i vincitori.
Ci sono insomma delle regole secondo cui giocare la propria partita: eluderle non è necessariamente una strategia vincente per chi deve venire giudicato dai propri stessi colleghi – anche se la scalata di Roma agli Oscar è uscita rafforzata, oltre che dalla nomination ai Golden Globe per la miglior regia e film straniero, dal premio assegnato ieri dalla Film Critics Association di Los Angeles come miglior film dell’anno.
Fra gli altri film dati tra i favoriti c’è un altro titolo del concorso veneziano – che da Gravity dello stesso Cuarón a La La Land di Chazelle si è accreditato negli anni come il Festival dove debuttano i futuri premi Oscar: The Favourite di Yorgos Lanthimos. O anche, come era stato l’anno scorso per Get Out di Jordan Peele, vincitore del premio alla miglior sceneggiatura, un altro horror che invece al box office è andato benissimo (340 milioni) a partire dall’«economico» budget di 20 milioni di dollari: A Quiet Place di John Krasinski.
MA QUESTO potrebbe essere, e giustamente, l’anno di Spike Lee con il suo BlackKklansman, che «redimerebbe» finalmente l’Academy per aver sinora snobbato il grande regista americano.
Il Fatto 11.12.18
Faber e Dori prigionieri dell’Hotel Supramonte
Agosto 1979, i De André vengono rapiti e sequestrati in Sardegna: un saggio ne ripercorre il calvario
di Stefano Mannucci
Pubblichiamo uno stralcio del nuovo libro di Stefano Mannucci, “L’Italia suonata. Dagli anni del boom al nuovo millennio: la storia e la musica”, edito da Mursia e Rtl 102.5, in libreria da ieri.
È già un’ora, un’ora e mezza. Quanto durerà ancora questo supplizio? A occhi bendati, l’unica cosa che ti conforta è il familiare rumore asmatico della tua Dyane gialla, il motore che agonizza su ogni salita, tra le curve grezze che questi banditi affrontano, una dopo l’altra, mentre tu e Dori provate una morsa allo stomaco, lì buttati sui sedili posteriori, una nausea figlia non solo dell’ora e del viaggio, ma soprattutto della circostanza.
Che vogliono davvero, questi signori? Quando sono entrati in casa la giornata sembrava già finita, tutti quei parenti attorno a celebrare la festa del patrono, poi i nonni s’erano portati via la piccola Luvi, e meno male, altrimenti chissà come sarebbe finita. Faber e Dori stavano per andare a letto, lei si era attardata in cucina, sai come sono le donne, non si coricano se hanno l’impressione che in giro ci sia ancora disordine. Lui era già salito al piano di sopra, quando due di questi individui avevano immobilizzato la sua compagna. Un terzo faceva da palo. Un quarto, incappucciato, gli aveva puntato un fucile addosso, intimandogli di prepararsi, di portare con sé abiti adatti per l’autunno e oltre: la cosa rischiava di andare per le lunghe, e oggi è solo il 27 agosto di quest’anno tumultuoso di fine decennio, il 1979.
Faber non aveva voluto crederci: chi mai poteva avercela con lui e la sua famiglia? “Cos’è, uno scherzo? Avanti, togliti quel passamontagna. Chi sei? Ti conosco?”, aveva detto all’intruso, sperando in una lugubre burla destinata a evaporare in una risata. Quello lo aveva tenuto a tiro, senza accogliere obiezioni. De André non lo sa, ma il capobanda aveva raccolto le confidenze di una donna di servizio nella casa dell’Agnata e nel pomeriggio aveva dato via libera ai sequestratori: “Tutto a posto, stasera procedete, a dormire resteranno solo loro due”.
E dire che Dori – neppure questo Fabrizio può saperlo, non ancora – è una soluzione di ripiego. A essere portato via con il padre avrebbe dovuto essere il diciassettenne Cristiano. “Sì, avevo progettato di andare a trovare papà”, ricorderà con me De André jr. quasi quarant’anni dopo, “ma era arrivato da Genova un amico mio, aveva preso il traghetto imbarcandosi con la Vespa, così avevo deciso di spassarmela restando nella casa di mia zia a Portobello di Gallura”.
Quanto durerà questo supplizio? Quanta benzina c’è nel serbatoio? Un nevrotico colpo di freno e finalmente la Dyane si ferma. “Scendete!”, è l’ordine impartito alla coppia di artisti dai rapitori. Nel cuore di una notte in cui ai tuoi occhi viene negato di vedere, ti affidi alle orecchie che percepiscono gli echi ostili di una natura silvestre e il battito del cuore impazzito della tua donna. Il tuo non risponde, ha deciso di non assecondare il ritmo della paura. Puoi congratularti con le tue gambe, i tuoi piedi, che ora più che mai devono sostenerti, tu intellettuale sedentario dei miei stivali, faglielo vedere ai banditi che sei in grado di sostenere questa prova, ti aspettano due giorni di marcia tra le montagne di Pattada, verso un primo nascondiglio dove resterete per una settimana, e da lì fino a un secondo rifugio sotto le stelle, tu e Dori nella suite fatta di terra fango sassi e pioggia dell’Hotel Supramonte (così lo chiamano in codice i loro carcerieri, ma il vero Supramonte è dalle parti di Orgosolo, qui invece siamo alle pendici del Lerno), quattro mesi di prigionia, una catena al piede e un lucchetto che vi sigilla al tronco di un leccio, un uomo solo e una donna in fiamme che l’Italia ha perso di vista, due dei 16 rapiti in questi mesi nella Sardegna dove l’Anonima Sequestri la fa da padrone.
Passata la prima notte, scattato l’allarme, il presidente del Consiglio Cossiga prende di petto il ministro degli Interni Virginio Rognoni. Cossiga è figlio di quest’isola meravigliosa, complicata e fiera: paradossalmente, è uno dei politici di punta che tiene sotto costante osservazione il cantautore Fabrizio De André, le cui note simpatie anarchiche avevano fatto ipotizzare addirittura un suo coinvolgimento nelle trame oscure dietro la strage di piazza Fontana, e che oggi, stando alle valutazioni dei Servizi segreti, potrebbe essere un fiancheggiatore delle Brigate Rosse, magari ospitando terroristi latitanti nella sua tenuta dalle parti di Tempio Pausania.
Cossiga non deve essere un attento ascoltatore dell’opera di De André: basterebbe mettere sul giradischi La guerra di Piero, con quel soldato che si fa cogliere dal dubbio e non vuole sparare su un suo simile con una divisa diversa. Alla fine viene ucciso in un campo di grano dal nemico, che invece non coltiva incertezze.
La Stampa 11.12.18
Artemidoro ultimo atto, il papiro è un falso
di Maurizio Assalto
Artemidoro, chi si risente. Il giallo sul celebre papiro attributo al geografo greco fiorito nel 104 a.C., sulla cui autenticità era divampata a partire dal 2006 una battaglia storico-filologica mai vista e ampiamente seguita dai media, d’improvviso torna alla ribalta. Ma questa volta non si parla più di «affaire Artemidoro»: adesso si parla apertamente di «truffa», e il giallo ha un colpevole (il commerciante amburghese - di origine armeno-egiziana - Serop Simonian, oggi 76enne) e una parte lesa (la Fondazione per l’Arte della Compagnia di San Paolo, che nel 2004 acquistò il documento per la cifra record di 2,75 milioni).
A mettere la parola fine alla vicenda è il procuratore capo di Torino, Armando Spataro, dopo che nei giorni scorsi il presidente della sezione gip del Tribunale di Torino, accogliendo la sua richiesta, aveva disposto l’archiviazione per intervenuta prescrizione del procedimento per truffa aggravata a carico di Simonian ( aperto nel 2013 dall’allora procuratore capo Gian Carlo Caselli). «La certezza del falso è abbondantemente provata, quanto meno sulla base di elementi indiziari gravi, precisi e concordanti», ha scritto Spataro, che fa riferimento alla «evidenze preliminari» risultanti dalla documentazione fornita dalla «Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura» (nuova denominazione della Fondazione per l’Arte della Compagnia di San Paolo), in particolare «agli accertamenti svolti sulla composizione degli inchiostri usati per il papiro di Artemidoro, che appare decisamente diversa da quella degli inchiostri usati nei papiri egiziani» dell’epoca.
Tra gli indizi acquisiti nel corso dell’indagine c’è anche una lettera del 2 marzo 2004 con cui dalla Germania si confermava che non era necessaria l’autorizzazione a esportare il documento, in quanto «non appartiene ai beni artistici di valore per la storia tedesca». Come mai gli acquirenti italiani non si erano insospettiti? In ogni caso, spiega Spataro, «è stato ritenuto inutile disporre una consulenza tecnica, tanto più che i costi di questa non potrebbero essere giustificati», considerando che il fatto è ormai caduto in prescrizione.
Dunque il reato è riconosciuto, anche se non è più perseguibile. Alla medesima conclusione si era già arresa la Compagnia di San Paolo che, dopo avere in un primo tempo strenuamente difeso il suo acquisto, se ne era poi disimpegnata. E ieri, in una nota, ha preso atto delle dichiarazioni di Spataro, sottolineando che «la Fondazione ha intrapreso un percorso parallelo per valutare il reperto: dal mese di ottobre 2018 il papiro è stato trasferito presso l’Istituto di Patologia del Libro di Roma dove si stanno eseguendo indagini scientifiche da parte dei laboratori di tecnologia, chimica e biologia». Aggiungendo che «i risultati raggiunti fino ad ora dimostrano che si tratta comunque di un reperto dall’innegabile valore storico-artistico che potrebbe essere oggetto di studio per la comunità scientifica attenta a questi temi». Pertanto, chiarisce, la Compagnia «non intende intraprendere azioni legali a sua tutela». Vicenda chiusa, almeno dal punto di vista processuale.
«Viva la filologia!», esulta Luciano Canfora, il grecista che per primo, fin dall’inizio, aveva diffidato. Le cose erano andate così: dopo che la Compagnia di San Paolo, nell’ottobre del 2004, aveva annunciato l’acquisto del papiro per darlo in comodato gratuito alla neonata Fondazione del Museo Egizio, nel febbraio del 2006, in coincidenza con le Olimpiadi invernali, il reperto era stato esposto in pompa magna a Torino in una mostra a Palazzo Bricherasio, visitata anche dal Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi (che negli anni 40 si era laureato a Pisa in letteratura greca). «Sfortunatamente» tra i visitatori ci fu anche Canfora, che già soltanto esaminando il papiro nella teca si era accorto che qualcosa non quadrava.
Il documento era stato presentato come recuperato da una maschera funeraria tardo-tolemaica di papier-maché (un impasto di papiri di scarto, colla e gesso) acquistata da un collezionista tedesco che poi, incuriosito da alcuni dettagli, l’aveva fatta disfare scoprendovi diversi testi antichi. Quello più rilevante, che sarebbe stato composto in una bottega di scribi all’inizio del I secolo dell’era volgare, riportava uno dei pochi passi superstiti del trattato Tà gheographoúmena di Artemidoro di Efeso, relativo alla Penisola iberica, oltre a un preambolo «filosofico» fino a quel momento sconosciuto. Ma soprattutto era accompagnato da una serie di disegni, tra i quali spiccava quella che sarebbe stata la più antica carta geografica pervenuta fino a noi. Tale da giustificare il prezzo pagato dalla Compagnia, quando alla fine del secolo scorso il papiro era tornato sul mercato.
Tanto più che se ne faceva garante un’autorità mondiale nel campo dell’archeologia classica come Salvatore Settis, che già l’avrebbe voluto acquistare quando dirigeva il Getty Institute di Malibu, dovendovi rinunciare per insufficienza di budget. Su sollecitazione dell’allora ministro dei Beni culturali Giuliano Urbani, e sulla scorta di una perizia affidata al papirologo milanese Claudio Gallazzi e alla tedesca Bärbel Kramer, la Fondazione torinese riuscì a farlo suo.
Ma Canfora sospettò subito l’inganno: svarioni storici e geografici - «impensabili per un autore al cui confronto Strabone era un puro compilatore» -, disegni che ricordavano troppo immagini di epoca più tarda, espressioni greche improbabili, altre prese paro paro da autori del IV secolo e successivi. «La filologia è un’arma efficace, anche se spesso poco considerata», commenta adesso lo studioso, «ma questa volta celebra il suo trionfo, grazie a un’analisi linguistica, sintattica e contenutistica». Alla fine Canfora era riuscito anche a ipotizzare il nome del falsario, tale Constandinos Simonidis, un geniale greco vissuto nell’800, dottore in teologia e filosofia, pittore e paleografo. Ed era risalito fino all’ultimo anello della catena, il commerciante Serop Simonian, già implicato in oscuri traffici di antichità con tanto di un fratello morto ammazzato negli Stati Uniti.
Risultato: l’allora direttrice dell’Egizio, Eleni Vassilika, già scottata dall’antiquario tedesco quando curava il «Roemer und Pelizaeus Museum» di Hildesheim, non volle saperne di accoglierlo nel museo torinese, e così il papiro finì malinconicamente nel Centro di Restauro della Venaria. Ma soprattutto, dal 2006 in poi, Canfora ha avviato sul caso Artemidoro un fitto fuoco di fila, con decine di pubblicazioni in diverse lingue, conferenze in tutto il mondo e perfino un tour di interventi nei licei, a metà tra il missionario e l’agit-prop della sua causa filologica. Dall’altra parte si è risposto con altri studi, oltre 200, e con l’edizione critica del papiro, presentata con grandi squilli di tromba nel marzo del 2008 all’Ägyptisches Museum di Berlino: un maxi cofanetto di 20 chili e 480 euro di prezzo.
E la battaglia è proseguita - producendo, va detto, una mole di contributi la cui rilevanza scientifica va anche al di là del caso in questione. Adesso siamo davvero alla svolta conclusiva? Sentiamo l’altro duellante, Salvatore Settis «Non sempre la verità processuale e la verità storica coincidono. Per me conta solo quella storica. Io la conosco, perché ho studiato il papiro. E ribadisco che non è un falso. Ne sono assolutamente certo, dal punto di vista storico, archeologico, filologico, papirologico e paleografico».
L’impressione è che di Artemidoro sentiremo ancora parlare.
Corriere 11 .12.18
Polemiche Le conclusioni della procura di Torino
«Falso il papirodi Artemidoro» La conferma della magistratura
di Antonio Carioti
Nel 2006 fu il filologo Luciano Canfora, sul «Corriere della Sera» e sulla sua rivista «Quaderni di Storia», a negare per primo l’autenticità del «papiro di Artemidoro», il rotolo comprato nel 2004 dalla Compagnia di San Paolo e presentato come risalente al I secolo avanti Cristo. Oggi non solo la magistratura, messa in moto da Canfora dopo ulteriori ricerche, conferma pienamente quel giudizio per bocca della Procura di Torino, guidata ad Armando Spataro, ma la stessa Compagnia di San Paolo, che a suo tempo acquistò il papiro per 2.750.000 euro da Serop Simonian, mercante d’arte egiziano d’origine armena e residente in Germania, prende atto in una nota che il relativo procedimento «si è concluso con la dimostrazione della falsità del reperto». Nessuno tuttavia verrà processato per la vicenda: il fascicolo è stato infatti archiviato dal gip, su richiesta della magistratura inquirente, in quanto il reato di truffa aggravata si è estinto per avvenuta prescrizione.
L’esistenza del reperto venne segnalata per la prima volta nel 1998, sulla rivista «Archiv für Papyrusforschung», dagli studiosi Claudio Gallazzi e Bärbel Kramer, i quali poi, insieme a Salvatore Settis, ne attestarono l’autenticità, datandolo intorno al I secolo a.C. e attribuendo il testo all’antico geografo Artemidoro di Efeso. Di conseguenza la Compagnia di San Paolo acquistò il reperto, lungo due metri e mezzo e largo 32,5 centimetri, ovvero i circa cinquanta frammenti messi in vendita da Simonian, che su un lato contengono un testo in greco antico e disegni di mani, piedi e volti, mentre sull’altro sono raffigurati degli animali.
Nel 2006 il rotolo fu esposto a Torino in una mostra, a cura di Gallazzi e Settis, organizzata a Palazzo Bricherasio. E subito dopo si accese la polemica. «Rilevai alcune vistose anomalie linguistiche, per cui il papiro risultava scritto in un greco impossibile, e avanzai delle perplessità anche sulle figure, che mi ricordavano i dipinti del pittore spagnolo Francisco Goya», dichiara Canfora al «Corriere».
La discussione s’inasprì, ricorda il filologo: «Ricevetti risposte piccate da Settis e da altri studiosi, ma le successive indagini hanno confermato la fondatezza della mia posizione, specie per quanto riguarda l’inchiostro usato, diverso da quello disponibile nel I secolo a.C., e l’inattendibilità della foto che avrebbe ritratto il cosiddetto Konvolut (l’ammasso papiraceo da cui si diceva provenisse il rotolo), sicuramente successiva alla data indicata per lo smontaggio dello stesso Konvolut. Questo senza contare le osservazioni dello storico dell’arte Maurizio Calvesi, che ha negato l’origine antica dei disegni presenti sul reperto e ha messo in luce la strana somiglianza fra il testo e un’opera del geografo tedesco Karl Ritter, vissuto nell’Ottocento».
Sempre nuovi elementi si sono dunque aggiunti nel corso degli anni a sostegno della tesi della contraffazione. Ma già dall’inizio Canfora aveva indicato il nome del probabile falsario, il greco Costantino Simonidis, vissuto nel XIX secolo e famoso per i suoi raggiri.
«Nel 2013 — aggiunge Canfora — sottoposi i risultati delle mie ricerche a Gian Carlo Caselli, allora procuratore capo di Torino e ora l’inchiesta giudiziaria certifica che si tratta di una contraffazione ottocentesca». Lo scrive a chiare lettere in un lungo comunicato Spataro, successore di Caselli: «La certezza del falso è abbondantemente provata, quanto meno sulla base di elementi indiziari gravi, precisi e concordanti».
Il procuratore ricorda per esempio la testimonianza di Eleni Vassilika, ex direttrice del Museo Egizio di Torino, che rifiutò di esporre il papiro di Artemidoro nonostante fosse stato acquistato proprio per destinarlo a quella autorevole istituzione. E sottolinea come vadano nella direzione indicata da Canfora le ulteriori analisi affidate dalla Compagnia di San Paolo all’Istituto centrale per la conservazione e il restauro del patrimonio archivistico e librario (Ipcral). Anche se quell’esame non è ancora terminato, «le evidenze preliminari sembrano supportare la tesi del falso più di quella dell’autenticità», soprattutto per quanto riguarda la composizione degli inchiostri, assai differenti da quelli adoperati per i papiri egiziani nell’epoca alla quale si asseriva risalisse il reperto.
La Procura, precisa Spataro, ha ritenuto inutile «disporre una consulenza tecnica», anche perché la prescrizione del reato ipotizzato a carico di Simonian renderebbe ingiustificati i relativi costi. Tuttavia una copia della richiesta di archiviazione è stata trasmessa alla Compagnia di San Paolo «per ogni eventuale azione a propria tutela». Quest’ultima però annuncia nella sua nota che non intraprenderà iniziative giudiziarie a questo scopo.
Repubblica 11.12.18
"È falso, una truffa" La fine del Papiro di Artemidoro
di Silvia Ronchey
La procura di Torino dà ragione a Luciano Canfora sul manufatto acquistato per quasi tre milioni di euro: è del XIX secolo. Il reato è prescritto, ma resta il riscatto degli studiosi e dei funzionari coraggiosi che denunciarono
Il vero contro il falso. La più che decennale battaglia di Luciano Canfora per dimostrare la falsità del cosiddetto papiro di Artemidoro era diventata, per chi ne conosceva i termini evidenti e i meno palesi retroscena, un gigantesco simbolo. Tale ormai resterà nella storia degli studi, e non solo: in quella della cultura, e anche, forse, della politica; ammesso che tra le due cose, impegno politico e impegno culturale, si possa fare distinzione. Quella per la verità è una lotta solitaria, disinteressata e proprio per questo ostacolata da una così folta e intricata selva di interessi da renderla una rocambolesca odissea. Eppure, la procura di Torino ora ha mostrato che l’ostinazione e l’onestà alla fine sono destinate a vincere. Che il vero può prevalere sul falso, sulla disinformazione, sulla fake news, sulla disonestà, materiale e, peggio, intellettuale. Le perizie raccolte nell’inchiesta della procura e diffuse ieri stabiliscono in via definitiva che il Papiro è una truffa destinata tuttavia a rimanere penalmente impunita poiché il procedimento è stato archiviato per intervenuta prescrizione.
Che quel goffo manufatto fosse falso in cuor loro lo sapevano ormai quasi tutti nel mondo degli studi e probabilmente anche in quello della finanza.
Venduto alla Compagnia di San Paolo (che ha fatto sapere che non intraprenderà nessuna azione legale per tutelarsi), con la malleveria scientifica di studiosi stimati come Salvatore Settis e come il papirologo Claudio Gallazzi, dall’ambiguo mercante d’arte Serop Simonian nel 2004 («dopo molti rifiuti tra cui quello del Getty», ricorda Canfora) per 2 milioni e 750 mila euro, era stato subito rifiutato dall’allora direttrice del Museo Egizio di Torino, Eleni Vassilika: «Nonostante le pressioni fortissime», commenta Canfora, «e non è un mistero che la sua estromissione dall’Egizio sia stata la poco elegante risposta a tanta serietà e coraggio». Molti altri tentativi di testimonianza scientifica onesta sarebbero costati a studiosi, giovani e meno, scienziati, funzionari e pubblici ufficiali di vari rami intimidazioni, sanzioni e arretramenti di carriera.
La grossolanità della contraffazione con l’andare degli anni si mostrava così evidente, e su una tale quantità di livelli, che solo per malafede o semplicemente per codardia sembrava si potesse perseverare a negarla.
Dall’anacronismo del greco in cui era scritto, palesemente tardobizantino se non neogreco, alla ripresa letterale di un modello ottocentesco identificato subito da uno studioso del calibro di Maurizio Calvesi con l’introduzione alla Geografia generale di Carl Ritter, alla sequela di ancora più palesi anacronismi concettuali, storici, geografici e iconografici, inclusi i bizzarri cicli di figure animali dalle didascalie sgrammaticate e dai tratti modernissimi.
L’intuizione iniziale di Canfora che il falsario fosse il famigerato — ai papirologi e in generale agli antichisti — Konstantinos Simonidis (1820-1890 ca.), inventore di fake su pergamena e papiro di argomento teologico e/o geografico, appunto come lo pseudo-Artemidoro, era stata rafforzata dal ritrovamento e dalla pubblicazione di suoi scritti in greco che coincidevano alla lettera con espressioni o frasi presenti nel cosiddetto Papiro di Artemidoro: «È stato un vero acquisto per la scienza l’avere pubblicato presso le Edizioni di Pagina il primo robusto volume delle opere greche di Simonidis, rigurgitanti di falsi geografici e corredate dalla lista autografa di opere false barattate per vere che offrì nel 1850 all’Accademia delle Scienze di San Pietroburgo», commenta Canfora.
«Un’ispezione nel museo di Liverpool, compiuta dieci anni fa, aveva già consentito l’identificazione degli strumenti tecnici con cui Simonidis realizzava i suoi papiri finto-antichi».
Anche della foto del presunto
Konvolut, ossia di quel preteso conglomerato papiraceo di partenza che avrebbe dovuto documentare la provenienza di scavo di un manufatto in realtà allestito a tavolino, era stata rapidamente accertata la falsità — un fotomontaggio su cui erano state grossolanamente spalmate alcune lettere greche tratte dal testo di Simonidis, come avevano dimostrato studiosi quali Silio Bozzi e la sua squadra — e con ciò smascherata la malafede del venditore. Innumerevoli altre prove erano state fornite, ricorda Canfora, dalle ricerche a tappeto e dalle pubblicazioni «dei non molti che hanno parlato chiaro fin dal primo momento, come Luciano Bossina, Federico Condello, Rosa Otranto, Claudio Schiano, Stefano Micunco». Un pugno di studiosi per lo più giovani, non messi in soggezione dai padrini accademici dell’affare, dai suoi illustri garanti scientifici.
La metodicità di Canfora e della sua équipe non aveva però giovato alla dimostrazione. Nel moderno gioco di specchi della comunicazione e dell’immagine, meno è più. Più gli studiosi scrivevano, più accumulavano argomenti, più, su quella strana interfaccia di gioco, avvantaggiavano l’avversario. Per inoppugnabili che fossero, le prove della falsità meglio erano argomentate meno risultavano comprensibili ai non specialisti — il che anche in generale dovrebbe far riflettere sui meccanismi del consenso nella modernità. Grottescamente, più il dossier si ingrandiva, meno accessibile era all’opinione pubblica, e gli accaniti difensori del falso si sentivano al sicuro, riservandosi pochi ma ben organizzati colpi d’immagine — una grandiosa mostra, un prestigioso convegno — con la collaborazione di finanziatori e sponsor accademici indulgenti. Il capitale, si sa, può molto.
Eppure, in questo caso, ha perso. Hanno perso i falsari, ha vinto la giustizia, garantita, anche in una fattispecie così peculiare, da un altrettanto ostinato, onesto e solitario cercatore di verità: il procuratore capo Armando Spataro, che il giorno prima di andare in pensione ha deciso di illuminare a giorno e sottoporre al giudizio pubblico l’oscuro dossier su cui da quando è arrivato a Torino ha minuziosamente indagato. La parola finale è truffa. Certo, la frode del mercante non è più perseguibile. Neanche la hybris degli intellettuali coinvolti è certo perseguibile — se non dal legittimo risentimento dei banchieri beffati — ma è e resterà, nella nostra memoria, imprescrittibile.
Corriere 11.12.18
La battaglia dimenticata
Nel 1636 la Spagna difese la Lombardia respingendo i francesi a Tornavento
Un saggio dello storico canadese Gregory Hanlon (edito da Leg) su un fatto d’arme della guerra dei Trent’anni. Anche se non ebbe un’importanza decisiva stupisce la totale mancanza di attenzione degli studiosi italiani sulla vicenda
di Paolo Mieli
Quella di Tornavento fu una battaglia minore della guerra dei Trent’anni che sconvolse l’intera Europa nella prima metà del Seicento (1618-1648), per giunta su un fronte tutto sommato secondario. Di solito, spiega Gregory Hanlon in Italia 1636. Il sepolcro degli eserciti — pubblicato dalle edizioni Leg — «il teatro italiano rimane escluso dai racconti generali di quel conflitto», pur se il «teatro italiano» fu ben più che «un dettaglio minore nel quadro più ampio della guerra». Un conflitto che, scrive Hanlon, infuriò in Germania per un periodo assai lungo e fu «una brutale guerra civile» combattuta dai cattolici alleati con la casa imperiale d’Austria (gli Asburgo, sovrani del Sacro Romano Impero) contro una coalizione variabile di principi ribelli tedeschi protestanti. Lo scontro scoppiò in Boemia nel 1618, quando i sudditi protestanti, alla morte dell’imperatore Mattia, rinnegarono la promessa di eleggere al trono suo nipote Ferdinando, temendo di essere danneggiati dal suo «cattolicesimo militante» e dalla sua ben nota intenzione di «ridimensionare il protestantesimo nei suoi domini». Al posto di Ferdinando elessero come re di Boemia l’elettore palatino Federico, calvinista. E nel 1619 ebbero la meglio, riuscendo addirittura a cacciare l’erede asburgico da Vienna. Ma quello fu solo l’inizio di una lunghissima contesa combattuta in armi. Dopo lo scoppio della guerra nel 1618, il re di Francia Luigi XIII e il suo primo ministro cardinale Richelieu continuarono per anni a battersi per porre fine all’egemonia degli Asburgo in Europa. La Francia era il singolo Stato più ricco e più popoloso del continente, costretto, fino a quel momento, a rinunciare a un ruolo di reale predominio proprio a causa delle sanguinose dispute religiose al proprio stesso interno. Le cose cambiarono solo con la guerra dei Trent’anni. O quantomeno potevano cambiare…
E la penisola italica? All’epoca manovre, campagne di logoramento e assedi prostrarono per decenni gran parte dell’Italia settentrionale e centro-settentrionale. Le battaglie invece furono poco frequenti, eventi non paragonabili, per dimensioni, a quelle della Germania o dei Paesi Bassi. E, a differenza di quelle nordeuropee, non furono mai risolutive. Per la maggior parte delle battaglie su suolo italiano si può parlare, secondo Hanlon, di «azioni», vale a dire «scontri che coinvolgevano meno di diecimila uomini per schieramento» (in genere un numero assai minore). Nessuno di questi scontri, peraltro, annientava la capacità dello schieramento sconfitto di continuare la guerra, né consentiva al vincitore l’occupazione di intere province. Quello di Tornavento del 1636 fu, dunque, «lo scontro più vasto nel periodo compreso fra la battaglia di Pavia nel 1525 e quella della Marsaglia, in Piemonte, nel 1693» anche se nessuno dei due schieramenti contava più di quindicimila soldati. Il valore storico decisivo dello scontro di Tornavento «emerse soltanto a posteriori e in negativo», quando si comprese come avesse impedito la conquista francese della Lombardia spagnola.
La battaglia in sé fu poca cosa, non fosse per i morti che lasciò sul terreno: duemila. Si affrontavano, guidate dal marchese di Leganés, le truppe del re di Spagna (nonché duca di Milano, signore di gran parte delle terre lombarde) e quelle francesi alleate con i piemontesi, capitanate dal maresciallo di Crequy. Si risolse con una sostanziale tenuta della Spagna e, di conseguenza, con uno smacco per la Francia. Le campagne che all’epoca opposero in Italia le forze armate franco-savoiarde da un lato a quelle guidate dagli spagnoli — con gli ausiliari tedeschi — dall’altro, durarono quasi un quarto di secolo. Ma nonostante ciò, fa notare Hanlon , «a tutt’oggi questo teatro non interessa gli storici francesi, né quelli tedeschi, né tantomeno quelli spagnoli». I francesi consideravano l’Italia il «sepolcro degli eserciti» (di qui il sottotitolo del libro), vale a dire «il luogo in cui ogni desiderio di conquista e di dominio andava in rovina», non meritevole di una particolare attenzione da parte di coloro che si sono occupati della guerra dei Trent’anni. Più o meno lo stesso giudizio è stato dato da tedeschi, spagnoli e, strada facendo, dagli studiosi di tutta Europa, eccezion fatta per qualche rarissimo caso. Persino gli italiani sono stati oltremodo «parchi di attenzione» alle vicende militari di questo delicato frangente storico, nonostante la contesa, che a più riprese coinvolse ogni parte della penisola, costituisca «il singolo maggior evento della storia del Paese fra il Concilio di Trento e la Rivoluzione francese». Un secolo e mezzo. Perché questa distrazione? Gli accademici italiani con alcune eccezioni, risponde Hanlon, ignorano «caparbiamente» battaglie come quella di Tornavento per il fatto che «non si conformano alla cornice campanilistica all’interno della quale essi stessi operano». Più in generale, secondo lo storico, «gli italiani ignorano la storia militare a causa della sgradevole associazione di idee con il passato fascista». Nel nostro Paese «è considerato accettabile occuparsi delle sconfitte» — come Novara, Custoza, Adua, Caporetto ed El Alamein — rispetto alle quali nessun collega, «pur in un ambiente competitivo, spesso al limite della lotta al coltello», potrà accusare l’incauto storico di aver «coltivato pericolosi istinti marziali».
E qui Hanlon chiarisce un punto a suo avviso fondamentale. «Che il conflitto faccia parte del modo in cui gli esseri umani si sono evoluti sin dalla preistoria», scrive, «è qualcosa che dobbiamo prendere come un dato di fatto». Uno studioso empirico che sia intenzionato a spiegare un problema della storia dovrebbe, invece, «lasciare le lontane origini di questi tratti sullo sfondo, concentrandosi sul luogo e sul tempo in esame».
Nel XVII secolo «la guerra non era caratterizzata da una barbarie senza confini». Gli ufficiali e i soldati «osservavano regole d’ingaggio la cui logica umana e necessità possiamo ben comprendere attraverso uno studio approfondito». Nelle lotte tra cattolici e protestanti nei Paesi Bassi che si protrassero per decenni, scrive Hanlon, gli eserciti europei, ad esempio, elaborarono regole pensate per attenuare, almeno in parte, gli orrori della guerra. Molte sembravano semplici cortesie, altre «precorrevano uno spirito umanitario». Nell’arco di dieci giorni dalla fine delle ostilità, entrambi gli schieramenti dovevano aver rilasciato i prigionieri. Nel XVII secolo i prigionieri erano ormai «proprietà del sovrano», non del singolo soldato che li aveva catturati. Adesso che soldati e ufficiali di rango inferiore non potevano ricavarne alcuna ricompensa, i prigionieri sarebbero potuti sembrare solo un fardello, destinati perciò al macello, visto che richiedevano guardie e cibo prezioso. Invece non fu così. Rapidi scambi di prigionieri divennero una pratica comune nel corso della guerra fra Spagna e Paesi Bassi e sembra che nel 1636 fossero diventati una consuetudine anche in Italia. La reciprocità divenne poi «il fattore che governava la pietà dimostrata nei confronti degli uomini catturati dal nemico». Ucciderli avrebbe significato istigare lo stesso nemico alla rappresaglia e «la prospettiva di morire per mano dei propri carcerieri non incoraggiava certo ad arrendersi». Al giorno d’oggi, scriveva nel Seicento Raimondo dei conti di Montecuccoli suggerendo ai vincitori di essere magnanimi, «i prigionieri non vengono trascinati per le strade in cortei trionfali, non vengono messi ai ferri o tenuti come schiavi… Non hanno ragione di ridursi alla disperazione o di credere di essere destinati a morire… Quando capiscono che combattere non offre più alcuna prospettiva di vittoria, si arrendono di fronte a un senso di futilità». Non è documentato, prosegue Hanlon, se i prigionieri rilasciati fossero stati prima costretti a giurare di non riarruolarsi per tutta la durata della campagna, ma i loro ufficiali erano contenti di riaverli indietro per poter raccogliere informazioni sulle condizioni del nemico. Un’altra cortesia nei confronti degli eserciti avversari era la restituzione dei corpi degli ufficiali uccisi in battaglia. Alcuni «carichi di cadaveri eccellenti» furono raccolti nel corso dello scontro stesso, riportati ai rispettivi familiari e sepolti in pompa magna nelle cappelle di famiglia.
All’epoca si notò sempre di più che una conseguenza immediata dello stress accumulato in battaglia era la spaventosa mancanza di umanità da parte dei soldati nei confronti della popolazione civile. La quale popolazione civile veniva a trovarsi esposta al feroce desiderio dei vincitori di procurarsi una ricompensa per i pericoli affrontati. Fu in quel periodo che si codificò non esser consentito a nessun soldato di allontanarsi dal proprio distaccamento per andare a scegliersi i «bocconi migliori». Le pattuglie piccole andavano a coincidere con le camerate: «Si trattava cioè di uomini che alloggiavano insieme e dividevano il bottino secondo principi condivisi». Muovendosi come «distaccamenti di foraggieri», essi catturavano abitanti del posto, di cui si servivano come guide. I civili prigionieri potevano fornire informazioni sui movimenti del nemico o dettagli sulle condizioni di una particolare abitazione. Prendere in ostaggio i notabili serviva a tenere in riga gli altri.
Per chiarire queste particolarità, l’autore fa particolare riferimento a due libri: Il volto della battaglia di John Keegan (Saggiatore) e Psicologia militare. Elementi di psicologia per gli appartenenti alle forze armate di Marco Costa (Franco Angeli).
Il saggio di Hanlon si pone infine un problema di fonti storiografiche, fonti che sono a suo avviso «fin troppo laconiche». I soldati degli eserciti europei, nota l’autore, non scrivevano lettere a casa con la frequenza o la scioltezza dei loro discendenti di epoca napoleonica. La diffusione della corrispondenza a livello popolare e l’avvento di un servizio postale economico erano ancora di là da venire. Per di più, i soldati del Sud Europa erano generalmente meno alfabetizzati dei loro contemporanei in Germania, nel Nord della Francia, nei Paesi Bassi e in Inghilterra. Persino per la minoranza alfabetizzata, l’idea di affidare le proprie esperienze alla carta quando il ricordo era ancora fresco non corrispondeva al loro stile di vita vagabondo. Per quanto riguarda gli ufficiali, poi, soprattutto quelli di livello superiore erano in gran parte cortigiani ed erano portati quindi all’autocensura.
L’importanza della battaglia di Tornavento, secondo Hanlon, divenne perciò più chiara agli occhi degli osservatori solo con il passare del tempo. Si capì che «una vittoria decisiva dei francesi avrebbe consentito loro di avanzare in pianura raccogliendo le provviste di cui avevano bisogno e ripagando i soldati della loro pazienza con il ricco bottino della Lombardia. Galvanizzato dal successo, l’esercito franco-savoiardo sarebbe magari riuscito a conquistare le città di Milano (forse non la cittadella) con un blocco della durata di un paio di settimane». Se l’esercito asburgico fosse stato ridotto nel 1636 in condizioni tali da doversi disperdere in tante guarnigioni diverse, Leganés avrebbe potuto non essere in grado di rompere l’accerchiamento della grande città. Invece, dopo la battaglia, agli spagnoli fu possibile adottare una prudente strategia difensiva che puntava a chiudere il confine alle incursioni franco-savoiarde e a sfruttare il più possibile il territorio nemico da cui poterono ricavare foraggio per i loro cavalli. E adesso che l’Armata delle Fiandre era arrivata a minacciare Parigi, ogni iniziativa francese in territorio italiano diventava impensabile e Leganés poteva finalmente rilassarsi. Passata la crisi, l’esercito asburgico tornò alla sua routine, scrive Hanlon, «gli ufficiali più importanti ricominciarono a preoccuparsi degli avanzamenti di carriera e ognuno riprese a contrastare le pretese dei rivali». Il sistema spagnolo in Italia «si dimostrò eccezionalmente in salute». E capace di durare.
Repubblica 11.12.18
Inediti
Quattro racconti di Gabriel García Márquez
Com’era Macondo prima di Macondo
di Francesco Manetto
Il silenzio di un paese dell’interno nella regione di Costa Caribe in Colombia. Il microcosmo di Aracataca, l’impatto emotivo provocato da un luogo a cui si ritorna, la materia prima da cui nacque Macondo. « Era come rivedere le illustrazioni di un libro scoperto nella tua infanzia » , ha scritto Gabriel García Márquez in Relato de las barritas de menta ( Racconto delle barrette alla menta), un testo inedito che è tornato alla luce con altri tre originali scritti tra il 1948 e il 1952. Il Banco de la Repubblica de Colombia li ha raccolti in Los Papeles de Gabo ( Le carte di Gabo), insieme a testi dattiloscritti e manoscritti dell’allora giovane giornalista.
« Forse li avevo conosciuti tutti e ora mi guardavano passare e mi riconoscevano pensando: " Ma guarda, è tornato il morto". E in un certo senso, avevano ragione » . Così lo scrittore racconta un viaggio nel suo paese natale. Era probabilmente la seconda volta che vi tornava e la prima in cui lo faceva da solo. Il premio Nobel per la Letteratura raccolse le sue sensazioni in questo racconto, presentato al Festival García Márquez di Medellin, dove sono stati resi noti anche Olor antiguo ( Odore antico), El ahogado que nos traía caracoles ( L’annegato che ci portava le chiocciole) e un racconto senza titolo. Si tratta di scritti acquisiti dal Banco de la República de Colombia che saranno esposti presso la biblioteca Luis Angel Arango di Bogotà e che vanno ad aggiungersi alle 44 scatole donate alla rete di biblioteche dell’istituzione dalla vedova dello scrittore, Mercedes Barcha, e da suo figlio Gonzalo García Barcha.
Durante il " bogotazo", la rivolta scoppiata nel 1948 nella capitale colombiana, dopo l’assassinio del leader liberale Jorge Eliécer Gaitán, viene incendiata la pensione dove abita García Márquez. Il giovane studente di giurisprudenza, nato ad Aracataca nel 1927, sale su un camion postale e ritorna sulla costa. A Cartagena de Indias, mentre lotta contro l’indigenza, comincia a scrivere come praticante sul quotidiano El Universal. Risalgono a quell’epoca, fino al 1952, i testi presentati da Alberto Abello Vives, direttore della Biblioteca Luis Angel Arango, dal ricercatore Sergio Sarmiento e da Jaime Abello Banfi, direttore generale della Fondazione per il nuovo giornalismo iberoamericano, il quale ha letto Relato de las barritas de menta e ha spiegato l’importanza di questa raccolta. Garcia Barcha ha ricordato che il romanziere lo metteva « a strappare i fogli che non gli servivano » . « Penso che a Gabo sarebbe piaciuto essere come Vermeer » , ha detto riferendosi al pittore olandese.
« Gli sarebbe piaciuto che nessuno scoprisse mai quali fossero i segreti dietro i suoi quadri » .
Tuttavia, dato il loro valore, alcuni di questi bozzetti oggi vengono resi noti. Il primo è un racconto senza titolo, che doveva aggiungersi ai Racconti di un viaggiatore immaginario e alla fine fu eliminato dalla serie: descrive che cosa succede in un villaggio durante un’eclissi solare. De L’annegato che ci portava le chiocciole, si conservano gli unici frammenti che García Márquez abbia scritto. Il romanziere si riferiva a quel testo in un articolo pubblicato su El País nel 1982.
« Per molti anni (...) ho sognato di scrivere una storia di cui avevo solo il titolo: L’annegato che ci portava le chiocciole. Ricordo che lo dissi a Álvaro Cepeda Sumudio ( scrittore e giornalista colombiano, ndt) in una strepitosa serata della casa degli amori di Pilar Ternera, e lui mi disse: "È un titolo talmente buono che non c’è più nemmeno bisogno di scrivere il racconto". Quasi quarant’anni dopo mi sorprendo nel verificare quanto fosse azzeccata quella risposta. In effetti, l’immagine di quell’uomo immenso e fradicio che doveva arrivare di notte con una manciata di chiocciole per i bambini è rimasta per sempre nella soffitta delle storie non scritte». In Olor antiguo, Gabo inizia a fare esperimenti con nuove influenze, lascia lo stile kafkiano e si avvicina a quello di Ernest Hemingway, spiega Sergio Sarmiento. «Immaginate una coppia che celebra i 50 anni di matrimonio. L’uomo è seduto in una stanza e racconta come la conobbe e la donna pensa che l’uomo debba smettere di ricordare». Finché «lui si rende conto di aver sposato la gemella sbagliata, ha sposato la gemella che odiava e non quella che amava». Relato de las barritas de menta «descrive Aracataca molto brevemente e in modo molto duro, è una versione narrativa molto personale», prosegue il ricercatore. Parla di un luogo in cui alcuni immigrati arrivati da poco vendevano dei prodotti. «Il magazzino buio degli italiani, dove vendevano stivaletti per i bambini e sardine per gli adulti e barrette alla menta per piccoli e grandi e l’interno del quale aveva un odore di pane riposto e di petrolio», scrive García Márquez.
Quel luogo risuona ancora nella memoria del paese. Quegli italiani, spiegò Rafael Darío Jiménez, responsabile della casa museo di García Márquez, arrivarono nel dipartimento colombiano di Magdalena e organizzarono i primi sindacati nelle piantagioni di banane della United Fruit Company, del cui massacro si è commemorato l’anniversario. E anche loro, come tutto il resto, popolarono l’immaginario che diede vita a Macondo.
– traduzione di Luis E. Moriones © EL PAIS/ LENA, Leading European Newspaper Alliance